La categoria di “malattie rare” emerse nei primi anni Ottanta, a seguito delle pressioni esercitate da alcune associazioni di volontariato statunitensi sul governo federale, in merito al problema dei cosiddetti “farmaci orfani”. Il concetto, pur non derivando da ambienti specificamente biomedici (l’accademia o la clinica), mirava a definire talune esperienze di afflizione contraddistinte da una serie di elementi peculiari. Esso riguardava un gruppo indefinito ed estremamente eterogeneo di patologie, caratterizzate da ridotti criteri di frequenza nella popolazione, e che pure nell'insieme interessavano un numero assai consistente, e sempre crescente, di individui. Nonostante la variabilità delle condizioni che li affliggevano, tali individui sarebbero stati accomunati da esperienze di isolamento, scarso riconoscimento e profonda incertezza, proprio a motivo della “rarità” dei loro disagi. Per rispondere alle esigenze di questi individui, pertanto, si sarebbero rese necessarie bio-logiche e bio-politiche peculiari, che avrebbero coinvolto contemporaneamente diversi gruppi di interesse: le istituzioni governative, le case farmacuetiche, le associazioni di pazienti, le accademie e gli istituti di ricerca. Nel corso di una decade le nuove pratiche discorsive inerenti alle “malattie rare” si diffusero in ambito internazionale. Esse produssero nuove logiche classificatorie, trasformarono talune pratiche clinico-terapeutiche, ridefinirono gli accessi a carriere e a fonti di finanziamento e attivarono nuove forme di biocittadinanza, nuovi centri di potere, nuove reti di alleanze e nuove modalità di inclusione/esclusione. Evidentemente gli stessi soggetti afflitti, così come gli operatori impiegati nell'ambito delle malattie rare, andarono appropriandosi in vario modo di tali discorsi, negoziando significati e pratiche ed iscrivendosi all'interno di dinamiche biopolitiche complesse. La mia ricerca etnografica ha inteso esplorare come la categoria di “malattia rara” abbia plasmato l'esperienza di alcuni soggetti (operatori e pazienti), intervenendo all'interno del sistema sanitario italiano, modellando le pratiche di cura e attivando specifici processi di soggettivazione. Il lavoro è stato condotto nell'ambito della Rete Interregionale delle Malattie Rare di Piemonte e Valle d'Aosta, e si è concentrato in particolar modo presso il Centro di Coordinamento Interregionale della Rete (CMID) e presso il principale policlinico pediatrico della stessa rete, l'Ospedale Infantile Regina Margherita. Nei due Centri condussi una serie di osservazioni, svolsi diverse interviste e partecipai a conferenze, riunioni e progetti incentrati sulle “malattie rare”. Nel corso della ricerca, la categoria di “malattie rare” emerse come uno strumento estremamente plastico che i diversi soggetti agivano di volta in volta per perseguire obiettivi differenti e spesso contrastanti. In particolare, in ambito biomedico vi si ricorreva per ricondurre disagi confusi e di difficile interpretazione ad una tassonomia riconoscibile, strutturando così una sorta di “pangolino biomedico” che esprimeva contemporanemante il rischio di sovvertire il sistema classificatorio in uso, il tentativo di controllare tale rischio, e i nuovi potenziali socio-culturali che pure ne scaturivano. Gli afflitti, dal canto loro, ricorrevano alle pratiche inerenti le malattie rare per ottenere legittimazione e volgere specifiche economie politiche e morali a proprio vantaggio, ma anche per accedere a forme di produzione del sapere che riconoscessero specifiche interpretazioni delle loro esperienze. In alcuni casi essi tentavano così di denunciare forme di sofferenza sociale o violenza strutturale, ricorrendo alle malattie rare per esercitare più efficacemente la propria agency. Per concludere il mio lavoro, ho infine voluto esplorare se, e in che misura, io sia riuscita ad introdurre la pratica antropologica all'interno di tale contesto di sapere-potere. Osservando la mia stessa partecipazione sul campo, ho quindi indagato come l'antropologia abbia potuto intervenire nelle nuove pratiche emergenti relative alle malattie rare, analizzando le potenzialità e le crisi che mi sono trovata ad affrontare, di volta in volta, in tale impresa.
L'emergenza delle malattie rare e le nuove soggettività della cura. Biopotere, agency ed incorporazione nella produzione di nuovi saperi sul disagio
LESMO, ILARIA ELOISA
2014
Abstract
La categoria di “malattie rare” emerse nei primi anni Ottanta, a seguito delle pressioni esercitate da alcune associazioni di volontariato statunitensi sul governo federale, in merito al problema dei cosiddetti “farmaci orfani”. Il concetto, pur non derivando da ambienti specificamente biomedici (l’accademia o la clinica), mirava a definire talune esperienze di afflizione contraddistinte da una serie di elementi peculiari. Esso riguardava un gruppo indefinito ed estremamente eterogeneo di patologie, caratterizzate da ridotti criteri di frequenza nella popolazione, e che pure nell'insieme interessavano un numero assai consistente, e sempre crescente, di individui. Nonostante la variabilità delle condizioni che li affliggevano, tali individui sarebbero stati accomunati da esperienze di isolamento, scarso riconoscimento e profonda incertezza, proprio a motivo della “rarità” dei loro disagi. Per rispondere alle esigenze di questi individui, pertanto, si sarebbero rese necessarie bio-logiche e bio-politiche peculiari, che avrebbero coinvolto contemporaneamente diversi gruppi di interesse: le istituzioni governative, le case farmacuetiche, le associazioni di pazienti, le accademie e gli istituti di ricerca. Nel corso di una decade le nuove pratiche discorsive inerenti alle “malattie rare” si diffusero in ambito internazionale. Esse produssero nuove logiche classificatorie, trasformarono talune pratiche clinico-terapeutiche, ridefinirono gli accessi a carriere e a fonti di finanziamento e attivarono nuove forme di biocittadinanza, nuovi centri di potere, nuove reti di alleanze e nuove modalità di inclusione/esclusione. Evidentemente gli stessi soggetti afflitti, così come gli operatori impiegati nell'ambito delle malattie rare, andarono appropriandosi in vario modo di tali discorsi, negoziando significati e pratiche ed iscrivendosi all'interno di dinamiche biopolitiche complesse. La mia ricerca etnografica ha inteso esplorare come la categoria di “malattia rara” abbia plasmato l'esperienza di alcuni soggetti (operatori e pazienti), intervenendo all'interno del sistema sanitario italiano, modellando le pratiche di cura e attivando specifici processi di soggettivazione. Il lavoro è stato condotto nell'ambito della Rete Interregionale delle Malattie Rare di Piemonte e Valle d'Aosta, e si è concentrato in particolar modo presso il Centro di Coordinamento Interregionale della Rete (CMID) e presso il principale policlinico pediatrico della stessa rete, l'Ospedale Infantile Regina Margherita. Nei due Centri condussi una serie di osservazioni, svolsi diverse interviste e partecipai a conferenze, riunioni e progetti incentrati sulle “malattie rare”. Nel corso della ricerca, la categoria di “malattie rare” emerse come uno strumento estremamente plastico che i diversi soggetti agivano di volta in volta per perseguire obiettivi differenti e spesso contrastanti. In particolare, in ambito biomedico vi si ricorreva per ricondurre disagi confusi e di difficile interpretazione ad una tassonomia riconoscibile, strutturando così una sorta di “pangolino biomedico” che esprimeva contemporanemante il rischio di sovvertire il sistema classificatorio in uso, il tentativo di controllare tale rischio, e i nuovi potenziali socio-culturali che pure ne scaturivano. Gli afflitti, dal canto loro, ricorrevano alle pratiche inerenti le malattie rare per ottenere legittimazione e volgere specifiche economie politiche e morali a proprio vantaggio, ma anche per accedere a forme di produzione del sapere che riconoscessero specifiche interpretazioni delle loro esperienze. In alcuni casi essi tentavano così di denunciare forme di sofferenza sociale o violenza strutturale, ricorrendo alle malattie rare per esercitare più efficacemente la propria agency. Per concludere il mio lavoro, ho infine voluto esplorare se, e in che misura, io sia riuscita ad introdurre la pratica antropologica all'interno di tale contesto di sapere-potere. Osservando la mia stessa partecipazione sul campo, ho quindi indagato come l'antropologia abbia potuto intervenire nelle nuove pratiche emergenti relative alle malattie rare, analizzando le potenzialità e le crisi che mi sono trovata ad affrontare, di volta in volta, in tale impresa.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/72830
URN:NBN:IT:UNIMIB-72830