Scopo della ricerca è dimostrare come la locuzione litem suam facere, nata in ambito retorico-letterario, venga utilizzata nel secondo secolo d.C. per indicare la prima categoria generale di responsabilità “civile” del iudex. La prima actio in factum con tale denominazione, di cui rinveniamo traccia, prescindeva totalmente dall’elemento psicologico del giudice e nasceva dalla necessità sociale di limitare l’arbitrio e gli errori del soggetto giudicante; la condanna era, dunque, equitativa, sulla base del danno procurato. Tale rimedio viene, poi, ad estinguersi nel periodo severiano con la progressiva instaurazione delle cognitiones quale processo ordinario e l’istituzione dell’appello quale gravame per la riparazione dei torti della giustizia; l’actio adversus iudicem qui litem suam fecit è, ora, sempre un’actio in factum, ma per ipotesi dolose e specifiche di parzialità del iudex. In questo quadro, dunque, litem suam facere è una locuzione utilizzata per indicare responsabilità dell’organo giudicante che vengono a confluire mano a mano nelle pene criminali, fino a confondersi, nella metà del V secolo, con la vera e propria corruzione giudiziale: due ipotesi che nel diritto “classico” erano ben separate. Nella parte finale dell’indagine si mostrerà come, con l’opera di restaurazione giustinianea, quella che era stata per secoli un’espressione linguistica così vaga da aprirsi ad un’evoluzione così radicale nei secoli, riceva cogenza e schematizzazione all’interno della categoria dei quasi delicta, recuperando elementi delle origini in una mistura tra tradizione ed innovazioni dettate dall’evoluzione socio-giuridica.

Le problematiche della responsabilità del iudex per litem suam facere

2018

Abstract

Scopo della ricerca è dimostrare come la locuzione litem suam facere, nata in ambito retorico-letterario, venga utilizzata nel secondo secolo d.C. per indicare la prima categoria generale di responsabilità “civile” del iudex. La prima actio in factum con tale denominazione, di cui rinveniamo traccia, prescindeva totalmente dall’elemento psicologico del giudice e nasceva dalla necessità sociale di limitare l’arbitrio e gli errori del soggetto giudicante; la condanna era, dunque, equitativa, sulla base del danno procurato. Tale rimedio viene, poi, ad estinguersi nel periodo severiano con la progressiva instaurazione delle cognitiones quale processo ordinario e l’istituzione dell’appello quale gravame per la riparazione dei torti della giustizia; l’actio adversus iudicem qui litem suam fecit è, ora, sempre un’actio in factum, ma per ipotesi dolose e specifiche di parzialità del iudex. In questo quadro, dunque, litem suam facere è una locuzione utilizzata per indicare responsabilità dell’organo giudicante che vengono a confluire mano a mano nelle pene criminali, fino a confondersi, nella metà del V secolo, con la vera e propria corruzione giudiziale: due ipotesi che nel diritto “classico” erano ben separate. Nella parte finale dell’indagine si mostrerà come, con l’opera di restaurazione giustinianea, quella che era stata per secoli un’espressione linguistica così vaga da aprirsi ad un’evoluzione così radicale nei secoli, riceva cogenza e schematizzazione all’interno della categoria dei quasi delicta, recuperando elementi delle origini in una mistura tra tradizione ed innovazioni dettate dall’evoluzione socio-giuridica.
16-nov-2018
Italiano
Università degli Studi di Napoli Federico II
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