Il ruolo della donna nel processo può essere ricondotto sostanzialmente a tre ambiti: la testimonianza, il patrocinio giudiziale e la reità. È opinione comune che la donna non potesse essere testimone. Tuttavia, non è quello che emerge dai Digesta (22.5.18; 22.5.3.5), da cui si evince una generale capacità testimoniale a meno che la donna non sia stata condannata per adulterio. Oltre alla posizione di testimone, nonostante la donna fosse esclusa moribus dai cd. officia virilia, secondo la definizione di D. 50.17.2 pr.-1, vi sono testimonianze di mulieres che discussero cause pro se aut pro aliis. Costoro vengono valutate dagli autori antichi con sdegno (in quanto l’in iudicis tacere era l’unico comportamento adeguato alla condicio naturae femminile). Sono exempla eccezionali, che vanno tramandati come modelli negativi. Naturalmente, non vi era spazio nel mondo romano per donne giudici. Ed è interessante come Cassio Dione (h. R. 50.5.4) si serva di questa preclusione, per dimostrare quanto la regina Cleopatra fosse lontana dai costumi romani. La più vasta casistica, tuttavia, è quella delle donne parte imputata, specie nel processo romano. L’Idealtypus della donna nell’immaginario romano è quello della buona moglie e madre, sobria nei costumi, contenuta nella parola, affabile, pudica, obbediente dedita al telaio e dotata di varie virtù domestiche. Su uno sfondo sociale così delineato i reati femminili più comuni sono dunque il veneficio, l’adulterio e lo stupro. È peculiare, poi, il crimine conseguente al consumo di vino, un’ipotesi di reato proprio, un comportamento punibile, cioè, solo in quanto il soggetto attivo sia una donna. La mulier, in quanto – nei limiti del suo status – cives, poteva essere processata con il sistema vigente al momento del processo. Tuttavia, alcune caratteristiche distinguevano la procedura intentata avverso una donna da quella a carico di un uomo.
Il ruolo della donna nel processo romano
2018
Abstract
Il ruolo della donna nel processo può essere ricondotto sostanzialmente a tre ambiti: la testimonianza, il patrocinio giudiziale e la reità. È opinione comune che la donna non potesse essere testimone. Tuttavia, non è quello che emerge dai Digesta (22.5.18; 22.5.3.5), da cui si evince una generale capacità testimoniale a meno che la donna non sia stata condannata per adulterio. Oltre alla posizione di testimone, nonostante la donna fosse esclusa moribus dai cd. officia virilia, secondo la definizione di D. 50.17.2 pr.-1, vi sono testimonianze di mulieres che discussero cause pro se aut pro aliis. Costoro vengono valutate dagli autori antichi con sdegno (in quanto l’in iudicis tacere era l’unico comportamento adeguato alla condicio naturae femminile). Sono exempla eccezionali, che vanno tramandati come modelli negativi. Naturalmente, non vi era spazio nel mondo romano per donne giudici. Ed è interessante come Cassio Dione (h. R. 50.5.4) si serva di questa preclusione, per dimostrare quanto la regina Cleopatra fosse lontana dai costumi romani. La più vasta casistica, tuttavia, è quella delle donne parte imputata, specie nel processo romano. L’Idealtypus della donna nell’immaginario romano è quello della buona moglie e madre, sobria nei costumi, contenuta nella parola, affabile, pudica, obbediente dedita al telaio e dotata di varie virtù domestiche. Su uno sfondo sociale così delineato i reati femminili più comuni sono dunque il veneficio, l’adulterio e lo stupro. È peculiare, poi, il crimine conseguente al consumo di vino, un’ipotesi di reato proprio, un comportamento punibile, cioè, solo in quanto il soggetto attivo sia una donna. La mulier, in quanto – nei limiti del suo status – cives, poteva essere processata con il sistema vigente al momento del processo. Tuttavia, alcune caratteristiche distinguevano la procedura intentata avverso una donna da quella a carico di un uomo.| File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/138777
URN:NBN:IT:UNINA-138777