Il porto ha rappresentato sin dall’antichità sia la porta (etimologicamente, il “passaggio”) che la parte (sociale) attraverso cui le economie e le culture si sono combinate e contaminate scambievolmente, originando quei sincretismi in cui affonda le radici la cultura occidentale contemporanea. All’interno della ricerca sociale, però, il porto è sempre rimasto sullo sfondo. E’ il caso della sociologia economica o della sociologia delle organizzazioni, che l’hanno – oltretutto solo raramente – previsto come mera variabile fenomenologica attraverso cui indagare altri temi di più ampio respiro. L’approccio socio-antropologico del presente studio invece riconosce al porto-società, a partire da quanto contemplato dall’immaginario collettivo (approfonditamente ricostruito nella prima parte con taglio spiccatamente multidisciplinare), un’identità specifica, ipotesi per la cui verifica la di Livorno si è rivelata un particolarmente interessante studio di caso. Indagato con metodologie qualitative (nella seconda parte dello studio), l’ambiente lavorativo di uno dei terminal dello scalo labronico ha consentito di verificare – tra le altre cose - se e come la globalizzazione ha impattato sulle rappresentazioni del lavoro portuale, constatando al contempo la (dis)continuità con le dimensioni identitarie che così fortemente hanno caratterizzato, almeno agli occhi dell’osservatore esterno, il porto livornese fino a un non troppo lontano passato. La silenziosa ma pervasiva rivoluzione intermodale, verificatesi negli stessi anni in cui aveva origine l’attuale mondializzazione (e, secondo molti autori, un prerequisito per lo sviluppo e il consolidamento di quest’ultima) non ha lasciato indifferenti i lavoratori in banchina, le cui dinamiche operative lavorativi hanno consentito loro di vivere anticipatamente non solo l’attuale crisi economica ma anche i radicali cambiamenti identitari ad essa sottesi. Da questo punto di vista, è possibile sostenere che i portuali siano dei testimoni privilegiati della globalizzazione, seppur in modo spesso inconsapevole. Rimangono, almeno per ora, anche degli elementi di continuità con il passato: sia per le diverse epoche lavorative ricomprese dalle singole carriere portuali (c.d. “generazioni”) sia anche per la profondità del radicamento di alcuni stereotipi (cosa confermata anche dal confronto con testimonianze afferenti ad altri porti italiani) dei quali si cita, a titolo di esempio, quello di genere per le sue ripercussioni anche sul piano metodologico (tra le metodologie qualitative adottate dalla Scrivente è stata infatti ricompresa anche l’osservazione partecipante scoperta). Con l’automazione completa delle attività portuali che si profila all’orizzonte (ipotesi per ora residuale in Europa, ma oggetto di crescente interesse – e investimento – presso i nostri partner orientali) è dunque legittimo interrogarsi sulle prospettive concrete del “nostro” lavoro portuale e delle sue molteplici rappresentazioni e identità, le cui unicità sono ormai sempre più soppiantante da fattori radicalmente innovativi (e tendenzialmente standardizzanti) rispetto al passato. Un passato al contempo vicino e lontano, il cui “tempo zero” non è facilmente individuabile ma è sicuramente riconducibile agli esordi di un’epoca che potremmo weberianamente definire di disincanto.
Tra terra e mare. Rappresentazioni del lavoro portuale contemporaneo a Livorno.
2014
Abstract
Il porto ha rappresentato sin dall’antichità sia la porta (etimologicamente, il “passaggio”) che la parte (sociale) attraverso cui le economie e le culture si sono combinate e contaminate scambievolmente, originando quei sincretismi in cui affonda le radici la cultura occidentale contemporanea. All’interno della ricerca sociale, però, il porto è sempre rimasto sullo sfondo. E’ il caso della sociologia economica o della sociologia delle organizzazioni, che l’hanno – oltretutto solo raramente – previsto come mera variabile fenomenologica attraverso cui indagare altri temi di più ampio respiro. L’approccio socio-antropologico del presente studio invece riconosce al porto-società, a partire da quanto contemplato dall’immaginario collettivo (approfonditamente ricostruito nella prima parte con taglio spiccatamente multidisciplinare), un’identità specifica, ipotesi per la cui verifica la di Livorno si è rivelata un particolarmente interessante studio di caso. Indagato con metodologie qualitative (nella seconda parte dello studio), l’ambiente lavorativo di uno dei terminal dello scalo labronico ha consentito di verificare – tra le altre cose - se e come la globalizzazione ha impattato sulle rappresentazioni del lavoro portuale, constatando al contempo la (dis)continuità con le dimensioni identitarie che così fortemente hanno caratterizzato, almeno agli occhi dell’osservatore esterno, il porto livornese fino a un non troppo lontano passato. La silenziosa ma pervasiva rivoluzione intermodale, verificatesi negli stessi anni in cui aveva origine l’attuale mondializzazione (e, secondo molti autori, un prerequisito per lo sviluppo e il consolidamento di quest’ultima) non ha lasciato indifferenti i lavoratori in banchina, le cui dinamiche operative lavorativi hanno consentito loro di vivere anticipatamente non solo l’attuale crisi economica ma anche i radicali cambiamenti identitari ad essa sottesi. Da questo punto di vista, è possibile sostenere che i portuali siano dei testimoni privilegiati della globalizzazione, seppur in modo spesso inconsapevole. Rimangono, almeno per ora, anche degli elementi di continuità con il passato: sia per le diverse epoche lavorative ricomprese dalle singole carriere portuali (c.d. “generazioni”) sia anche per la profondità del radicamento di alcuni stereotipi (cosa confermata anche dal confronto con testimonianze afferenti ad altri porti italiani) dei quali si cita, a titolo di esempio, quello di genere per le sue ripercussioni anche sul piano metodologico (tra le metodologie qualitative adottate dalla Scrivente è stata infatti ricompresa anche l’osservazione partecipante scoperta). Con l’automazione completa delle attività portuali che si profila all’orizzonte (ipotesi per ora residuale in Europa, ma oggetto di crescente interesse – e investimento – presso i nostri partner orientali) è dunque legittimo interrogarsi sulle prospettive concrete del “nostro” lavoro portuale e delle sue molteplici rappresentazioni e identità, le cui unicità sono ormai sempre più soppiantante da fattori radicalmente innovativi (e tendenzialmente standardizzanti) rispetto al passato. Un passato al contempo vicino e lontano, il cui “tempo zero” non è facilmente individuabile ma è sicuramente riconducibile agli esordi di un’epoca che potremmo weberianamente definire di disincanto.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/142691
URN:NBN:IT:UNIPI-142691