Con questo studio si intende proporre una lettura della Coscienza di Zeno e di Uno, nessuno e centomila nel contesto della più generale pratica della confessione, intesa non come genere letterario delimitato da precise coordinate strutturali, ma come dispositivo di costruzione della soggettività. Come suggerisce il titolo di questo saggio, oggetto del nostro interesse sono le forme narrative attraverso le quali i protagonisti degli ultimi due romanzi di Italo Svevo e Luigi Pirandello narrano e ricostruiscono la propria esistenza per definirsi come individui. Discriminante, nella scelta di sottoporre all’attenzione di questa indagine la narrazione di sé condotta da Zeno Cosini e da Vitangelo Moscarda, è stata infatti la posizione che essi ricoprono nella produzione complessiva dei loro autori. In primo luogo per l’importanza che, in entrambi i casi, assume l’opzione autodiegetica, nella quale la critica ha fin da subito individuato la grande rottura con la tradizione naturalista e verista, e ha rintracciato il segno più evidente di un romanzo nuovo; in secondo luogo, per la particolare funzione che l’uso della prima persona sembra svolgere tanto nella narrazione di Zeno quanto in quella di Vitangelo. Sebbene non nuovo alla narrazione autodiegetica, infatti, lo stesso Pirandello introduce nel suo ultimo romanzo elementi che lo allontanano dalle esperienze precedenti emerse nel Fu Mattia Pascal e nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Schematicamente il problema si può riassumere qui nella centralità che la soggettività sembra rivestire nell’enunciazione di Zeno e di Vitangelo, che non funziona più semplicemente da pretesto per offrire un punto di vista straniato sul mondo, ma si offre ora come oggetto e sostanza della trama testuale, intrecciandosi con la voce narrante fino divenire il sostegno stesso della narrazione. Il narratore, così, si mette in scena molto più come soggetto attuale del discorso che come soggetto delle azioni che racconta. In entrambi i romanzi, insomma, a differenza di altre opere degli stessi autori, le vicende che costituiscono l’intreccio non hanno la stessa importanza della formazione e del divenire, attraverso l’atto enunciativo che la sostiene, della soggettività che narra. Così, ad esempio, mentre nel Fu Mattia Pascal e nei Quaderni l’eccezionalità degli eventi, continuamente rivendicata dai rispettivi narratori, viene semplicemente mediata dal loro punto di vista, nel caso di Zeno e di Vitangelo ci troviamo di fronte a fenomeni di voce in cui il soggetto dell’enunciazione gioca un ruolo dominante e diviene il cardine del racconto. Ciò che si è cercato di dimostrare con questo lavoro è che ciò accade perché tanto la Coscienza quanto Uno, nessuno e centomila rispondono a una richiesta, avanzata dal sapere giuridico-psichiatrico e psicoanalitico, di una narrazione esaustiva di sé così come comincia a delinearsi in Europa all’incirca intorno alla metà del XVII secolo e che si articola e si definisce con precisione – e secondo sviluppi a noi ancora familiari – proprio nel corso dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento. In questo periodo la confessione diviene una pratica che, sotto la guida del medico, consente al soggetto che vi si sottopone di avviare un’ermeneutica di se stesso che ha come fine l’emersione di una verità nascosta nelle profondità più riposte del sé, che il soggetto ha l’obbligo di svelare e di esporre e che, nello stesso tempo, lo costruisce come individuo consentendogli di riconoscersi e di essere riconosciuto socialmente come tale. Si capisce che, orientando l’indagine in questa direzione, sarà necessario confrontarsi preliminarmente con l’ampia tradizione critica che ha affrontato l’analisi dei due testi che abbiamo scelto di prendere in esame. Considerare, infatti, la Coscienza e Uno, nessuno e centomila come due confessioni di ordine psichiatrico attraverso le quali i due protagonisti definiscono la propria soggettività, significa prendere le distanze da ogni ipotesi interpretativa che consideri Zeno e Vitangelo come espressioni di una più generalizzata frantumazione e dislocazione del soggetto sottoposto all’azione di un potere alienante. Se cioè il soggetto, attraverso la narrazione di sé, si costituisce come individuo, occorrerà in prima battuta rimettere in discussione il presupposto, sul quale la critica si è variamente spesa per un cinquantennio, per cui tanto Zeno Cosini quanto Vitangelo Moscarda rappresenterebbero la tipizzazione di soggettività alienate che si configurano nella loro condizione, continuamente rivendicata, di inetti. In proposito, si possono identificare, almeno schematicamente, due tendenze contrapposte di area marxista che si confrontano soprattutto nel corso degli anni sessanta in relazione ai rispettivi riferimenti culturali: una prima più orientata a riconoscere nella scrittura di Svevo e Pirandello il segno della crisi ideologica della borghesia europea; la seconda impegnata piuttosto a far emergere gli spazi di resistenza e di liberazione di una condizione soggettiva alienata. Come si vede, la posta in gioco è in entrambi i casi la rottura con le certezze antropocentriche del positivismo e del naturalismo, e un’analisi ugualmente riconducibile alla dialettica storicistica della modernità entro dinamiche di avvicendamento dei paradigmi epistemologici. Una terza tendenza emerge infine, e secondo esiti diversi, in netta opposizione alle prime due, soprattutto per mezzo di un uso più o meno legittimo della psicoanalisi quale strumento ermeneutico che, aggirando il piano diacronico del divenire storico, non si sottrae comunque alla definizione del soggetto all’interno di una dialettica storicamente determinata di salute/malattia, ma anzi la dà per scontata e la ratifica col farne il presupposto della propria analisi sul personaggio. Ad accomunare tutte queste interpretazioni del personaggio pirandelliano e sveviano vi è insomma l’idea di un potere caratterizzato dai contenuti repressivi che ne animano l’esercizio, al vertice di una struttura piramidale che opera attivamente e dall’alto su soggetti che si limitano a subirne l’azione. Al contrario, alla base della mia ipotesi vi è l’idea di un potere che si manifesta lungo un’asse orizzontale di azioni produttive entro cui i soggetti negoziano l’individualizzazione esercitando un mutuo rapporto di sussistenza con i propri interlocutori, secondo processi transitivi di riconoscimento reciproco. Così, ad esempio, la psichiatria, che nel corso del XIX secolo definisce il proprio statuto epistemologico, fonda il proprio sapere piuttosto sulla dimensione del controllo e dell’inclusione che su quella dell’esclusione e della repressione, poiché, per ricevere il mandato di una sorveglianza scientificamente fondata sull’intero corpo sociale, deve ridefinire continuamente il confine che separa la normalità dall’anormalità. Il soggetto su cui essa tenterà la presa non sarà più, così, semplicemente quello che vìola le regole della convivenza e su cui occorre esercitare una funzione coercitiva tanto più oppressiva quanto più legata all’eccezionalità del crimine commesso. Piuttosto, il nuovo soggetto disciplinare della modernità sarà definito nella misura della sua pericolosità potenziale a seconda del crimine che potrebbe commettere. In questa maniera, la psichiatria nella sua fase costituente comincia ad allargare il proprio raggio d’azione sull’intera società, svolgendo un ruolo di controllo e di prevenzione sulla quotidianità degli individui. La confessione, in questa prospettiva, svolge un ruolo di primo piano proprio perché attraverso di essa al potere disciplinare è consentito di indagare, secondo procedure specifiche, sulla vita dei soggetti, sugli antecedenti famigliari, sulla sessualità etc., in modo da raccogliere e reindirizzare gli elementi ottenuti quanto più esaustivamente dall’interrogatorio, dal diario, dalle memorie, in una relazione strettissima con il diritto e con le procedure giuridiche. In questa dimensione, il soggetto partecipa attivamente alla costruzione sociale del sé e viene chiamato a decidere del proprio vissuto attraverso una narrazione che punta a stabilire le basi della sua vita futura secondo precise coordinate nosografiche. Com’è noto dalle rispettive vicende biografiche, Svevo e Pirandello entrano direttamente in contatto con il sapere psichiatrico attraverso esperienze famigliari e individuali più volte utilizzate per comprendere la lettera della loro opera. È questo certamente un dato di partenza di cui sarà necessario tenere conto anche alla luce dell’iinfluenza che all’inizio del Novecento la psichiatria comincia ad esercitare complessivamente sulla vita quotidiana degli italiani. Ma, poiché alla definizione delle coordinate del potere disciplinare contribuiscono molteplici vettori culturali in una relazione complessa di interscambio, sarà necessario risalire almeno provvisoriamente a quali di questi influiscono più o meno direttamente sulla poetica dei due autori in esame. Oltre al pensiero di Schopenhauer e di Bergson, di Nietzsche e Freud, e degli scrittori, specie di area naturalista e verista, che certo svolgono un ruolo determinante nella formazione di Svevo e di Pirandello e che più volte sono giustamente emersi nelle analisi critiche in tutta la loro rilevanza conoscitiva ed ermeneutica, si tenterà anche di seguire le traiettorie tracciate da quegli autori che hanno contribuito, nella teoria come nella prassi della letteratura, a definire le coordinate che fondano la moderna nozione di soggettività. Si cercherà così di esplorare quali numerosi vettori culturali intervengono come mediatori del pensiero psichiatrico nelle opere di Svevo e Pirandello prima dell’elaborazione dei loro due ultimi romanzi. Occorrerà quindi verificare gli elementi raccolti nel corso dell’indagine confrontandoli preliminarmente con l’opera complessiva dei due autori, alla ricerca dei luoghi in cui, più che in altri, emerge un rapporto più o meno conflittuale con l’istanza disciplinare e l’adesione o meno alle pratiche di soggettivazione psichiatrica. In questa maniera sarà possibile comprendere secondo quali direzioni si delinea la costituzione delle rispettive rielaborazioni delle nozioni di identità, di individuo e di coscienza nei racconti e nei romanzi che precedono l’ultima produzione dei due autori, analizzando caso per caso i testi prescelti e la formalizzazione attraverso cui si configurano.
Forme di vita. Le confessioni di Zeno e di Vitangelo
2008
Abstract
Con questo studio si intende proporre una lettura della Coscienza di Zeno e di Uno, nessuno e centomila nel contesto della più generale pratica della confessione, intesa non come genere letterario delimitato da precise coordinate strutturali, ma come dispositivo di costruzione della soggettività. Come suggerisce il titolo di questo saggio, oggetto del nostro interesse sono le forme narrative attraverso le quali i protagonisti degli ultimi due romanzi di Italo Svevo e Luigi Pirandello narrano e ricostruiscono la propria esistenza per definirsi come individui. Discriminante, nella scelta di sottoporre all’attenzione di questa indagine la narrazione di sé condotta da Zeno Cosini e da Vitangelo Moscarda, è stata infatti la posizione che essi ricoprono nella produzione complessiva dei loro autori. In primo luogo per l’importanza che, in entrambi i casi, assume l’opzione autodiegetica, nella quale la critica ha fin da subito individuato la grande rottura con la tradizione naturalista e verista, e ha rintracciato il segno più evidente di un romanzo nuovo; in secondo luogo, per la particolare funzione che l’uso della prima persona sembra svolgere tanto nella narrazione di Zeno quanto in quella di Vitangelo. Sebbene non nuovo alla narrazione autodiegetica, infatti, lo stesso Pirandello introduce nel suo ultimo romanzo elementi che lo allontanano dalle esperienze precedenti emerse nel Fu Mattia Pascal e nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Schematicamente il problema si può riassumere qui nella centralità che la soggettività sembra rivestire nell’enunciazione di Zeno e di Vitangelo, che non funziona più semplicemente da pretesto per offrire un punto di vista straniato sul mondo, ma si offre ora come oggetto e sostanza della trama testuale, intrecciandosi con la voce narrante fino divenire il sostegno stesso della narrazione. Il narratore, così, si mette in scena molto più come soggetto attuale del discorso che come soggetto delle azioni che racconta. In entrambi i romanzi, insomma, a differenza di altre opere degli stessi autori, le vicende che costituiscono l’intreccio non hanno la stessa importanza della formazione e del divenire, attraverso l’atto enunciativo che la sostiene, della soggettività che narra. Così, ad esempio, mentre nel Fu Mattia Pascal e nei Quaderni l’eccezionalità degli eventi, continuamente rivendicata dai rispettivi narratori, viene semplicemente mediata dal loro punto di vista, nel caso di Zeno e di Vitangelo ci troviamo di fronte a fenomeni di voce in cui il soggetto dell’enunciazione gioca un ruolo dominante e diviene il cardine del racconto. Ciò che si è cercato di dimostrare con questo lavoro è che ciò accade perché tanto la Coscienza quanto Uno, nessuno e centomila rispondono a una richiesta, avanzata dal sapere giuridico-psichiatrico e psicoanalitico, di una narrazione esaustiva di sé così come comincia a delinearsi in Europa all’incirca intorno alla metà del XVII secolo e che si articola e si definisce con precisione – e secondo sviluppi a noi ancora familiari – proprio nel corso dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento. In questo periodo la confessione diviene una pratica che, sotto la guida del medico, consente al soggetto che vi si sottopone di avviare un’ermeneutica di se stesso che ha come fine l’emersione di una verità nascosta nelle profondità più riposte del sé, che il soggetto ha l’obbligo di svelare e di esporre e che, nello stesso tempo, lo costruisce come individuo consentendogli di riconoscersi e di essere riconosciuto socialmente come tale. Si capisce che, orientando l’indagine in questa direzione, sarà necessario confrontarsi preliminarmente con l’ampia tradizione critica che ha affrontato l’analisi dei due testi che abbiamo scelto di prendere in esame. Considerare, infatti, la Coscienza e Uno, nessuno e centomila come due confessioni di ordine psichiatrico attraverso le quali i due protagonisti definiscono la propria soggettività, significa prendere le distanze da ogni ipotesi interpretativa che consideri Zeno e Vitangelo come espressioni di una più generalizzata frantumazione e dislocazione del soggetto sottoposto all’azione di un potere alienante. Se cioè il soggetto, attraverso la narrazione di sé, si costituisce come individuo, occorrerà in prima battuta rimettere in discussione il presupposto, sul quale la critica si è variamente spesa per un cinquantennio, per cui tanto Zeno Cosini quanto Vitangelo Moscarda rappresenterebbero la tipizzazione di soggettività alienate che si configurano nella loro condizione, continuamente rivendicata, di inetti. In proposito, si possono identificare, almeno schematicamente, due tendenze contrapposte di area marxista che si confrontano soprattutto nel corso degli anni sessanta in relazione ai rispettivi riferimenti culturali: una prima più orientata a riconoscere nella scrittura di Svevo e Pirandello il segno della crisi ideologica della borghesia europea; la seconda impegnata piuttosto a far emergere gli spazi di resistenza e di liberazione di una condizione soggettiva alienata. Come si vede, la posta in gioco è in entrambi i casi la rottura con le certezze antropocentriche del positivismo e del naturalismo, e un’analisi ugualmente riconducibile alla dialettica storicistica della modernità entro dinamiche di avvicendamento dei paradigmi epistemologici. Una terza tendenza emerge infine, e secondo esiti diversi, in netta opposizione alle prime due, soprattutto per mezzo di un uso più o meno legittimo della psicoanalisi quale strumento ermeneutico che, aggirando il piano diacronico del divenire storico, non si sottrae comunque alla definizione del soggetto all’interno di una dialettica storicamente determinata di salute/malattia, ma anzi la dà per scontata e la ratifica col farne il presupposto della propria analisi sul personaggio. Ad accomunare tutte queste interpretazioni del personaggio pirandelliano e sveviano vi è insomma l’idea di un potere caratterizzato dai contenuti repressivi che ne animano l’esercizio, al vertice di una struttura piramidale che opera attivamente e dall’alto su soggetti che si limitano a subirne l’azione. Al contrario, alla base della mia ipotesi vi è l’idea di un potere che si manifesta lungo un’asse orizzontale di azioni produttive entro cui i soggetti negoziano l’individualizzazione esercitando un mutuo rapporto di sussistenza con i propri interlocutori, secondo processi transitivi di riconoscimento reciproco. Così, ad esempio, la psichiatria, che nel corso del XIX secolo definisce il proprio statuto epistemologico, fonda il proprio sapere piuttosto sulla dimensione del controllo e dell’inclusione che su quella dell’esclusione e della repressione, poiché, per ricevere il mandato di una sorveglianza scientificamente fondata sull’intero corpo sociale, deve ridefinire continuamente il confine che separa la normalità dall’anormalità. Il soggetto su cui essa tenterà la presa non sarà più, così, semplicemente quello che vìola le regole della convivenza e su cui occorre esercitare una funzione coercitiva tanto più oppressiva quanto più legata all’eccezionalità del crimine commesso. Piuttosto, il nuovo soggetto disciplinare della modernità sarà definito nella misura della sua pericolosità potenziale a seconda del crimine che potrebbe commettere. In questa maniera, la psichiatria nella sua fase costituente comincia ad allargare il proprio raggio d’azione sull’intera società, svolgendo un ruolo di controllo e di prevenzione sulla quotidianità degli individui. La confessione, in questa prospettiva, svolge un ruolo di primo piano proprio perché attraverso di essa al potere disciplinare è consentito di indagare, secondo procedure specifiche, sulla vita dei soggetti, sugli antecedenti famigliari, sulla sessualità etc., in modo da raccogliere e reindirizzare gli elementi ottenuti quanto più esaustivamente dall’interrogatorio, dal diario, dalle memorie, in una relazione strettissima con il diritto e con le procedure giuridiche. In questa dimensione, il soggetto partecipa attivamente alla costruzione sociale del sé e viene chiamato a decidere del proprio vissuto attraverso una narrazione che punta a stabilire le basi della sua vita futura secondo precise coordinate nosografiche. Com’è noto dalle rispettive vicende biografiche, Svevo e Pirandello entrano direttamente in contatto con il sapere psichiatrico attraverso esperienze famigliari e individuali più volte utilizzate per comprendere la lettera della loro opera. È questo certamente un dato di partenza di cui sarà necessario tenere conto anche alla luce dell’iinfluenza che all’inizio del Novecento la psichiatria comincia ad esercitare complessivamente sulla vita quotidiana degli italiani. Ma, poiché alla definizione delle coordinate del potere disciplinare contribuiscono molteplici vettori culturali in una relazione complessa di interscambio, sarà necessario risalire almeno provvisoriamente a quali di questi influiscono più o meno direttamente sulla poetica dei due autori in esame. Oltre al pensiero di Schopenhauer e di Bergson, di Nietzsche e Freud, e degli scrittori, specie di area naturalista e verista, che certo svolgono un ruolo determinante nella formazione di Svevo e di Pirandello e che più volte sono giustamente emersi nelle analisi critiche in tutta la loro rilevanza conoscitiva ed ermeneutica, si tenterà anche di seguire le traiettorie tracciate da quegli autori che hanno contribuito, nella teoria come nella prassi della letteratura, a definire le coordinate che fondano la moderna nozione di soggettività. Si cercherà così di esplorare quali numerosi vettori culturali intervengono come mediatori del pensiero psichiatrico nelle opere di Svevo e Pirandello prima dell’elaborazione dei loro due ultimi romanzi. Occorrerà quindi verificare gli elementi raccolti nel corso dell’indagine confrontandoli preliminarmente con l’opera complessiva dei due autori, alla ricerca dei luoghi in cui, più che in altri, emerge un rapporto più o meno conflittuale con l’istanza disciplinare e l’adesione o meno alle pratiche di soggettivazione psichiatrica. In questa maniera sarà possibile comprendere secondo quali direzioni si delinea la costituzione delle rispettive rielaborazioni delle nozioni di identità, di individuo e di coscienza nei racconti e nei romanzi che precedono l’ultima produzione dei due autori, analizzando caso per caso i testi prescelti e la formalizzazione attraverso cui si configurano.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/154891
URN:NBN:IT:UNIPI-154891