ABSTRACT “L’obbligo familiare nella responsabilità contrattuale” (tesi di ricerca di G. PARDI) Come era naturale che accadesse, la recente evoluzione del danno alla persona, ipotesi paradigmatica di danno non patrimoniale, ha finito per imporre una particolare lettura della responsabilità endofamiliare. E’ un dato oramai acquisito, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, quello per cui l’unica fattispecie idonea a regolare compiutamente il fenomeno della responsabilità risarcitoria connessa alla violazione degli obblighi coniugali é la grundnorm dell’illecito aquiliano, vale a dire l’art. 2043 c.c. Persino in una recente monografia sul tema, l’ultima in ordine cronologico che abbiamo potuto analizzare, l’indagine sulla rilevanza di possibili modelli di responsabilità alternativi a quello aquiliano è stata completamente omessa. Un verdetto quasi lapidario, verrebbe da dire, espresso nella forma più incisiva: un silenzio. D’altronde, la norma sul torto, adeguatamente “collaudata” da quasi cinquant’anni, mostra una facoltà espansiva davvero non indifferente: basti pensare che ad essa l’interprete si affida per “governare” la responsabilità dello Stato nei confronti del cittadino o di un giudice di ultima istanza per errata interpretazione del diritto comunitario. Queste considerazioni sarebbero di per se sufficienti a rendere vana, e forse anche inutile, un’indagine orientata alla ricerca di altri modelli di responsabilità. Ma nel solco dell’insegnamento di Bertold Brecht e sotto la “pressione” di una riflessione “autentica”, le fondamenta di un modello imperniato sul binomio responsabilità extracontrattuale – realtà familiare hanno mostrato in più di un’occasione vistosi cedimenti, sia sul piano della coerenza sistematica, sia relativamente alle applicazioni pratiche. Non mancano, d’altronde, interrogativi che depongono in quel senso. Ad esempio: se nell’odierno ordinamento il discrimen logico fra responsabilità extracontrattuale e contrattuale si annida nella natura della situazione sostanziale violata – che vede la prima quale risposta alla lesione di diritti e la seconda quale sanzione per la violazione di obblighi – perché in un sistema che gravita intorno a precisi e specifici nessi di relazione (la realtà familiare) non è la responsabilità da inadempimento a doversi richiamare? Ponendo comunque in disparte la maggior coerenza di un modello rispetto ad un altro (obiettivo che una tesi dottrinale dovrebbe comunque ricercare), sembra opportuno precisare che i due sistemi determinano importanti ricadute sul piano pratico: si pensi, volendo esemplificare solamente, al diverso onere della prova, al diverso termine prescrizionale, alla possibile applicazione (e alle implicazioni niente affatto indifferenti) dell’art. 1225 c.c. Last but not least: si considerino le diverse modalità di produzione dell’effetto sottese alle due fattispecie di responsabilità; si vuol dire, insomma, che a favore di una ricerca in tal senso militano sopratutto implicazioni di carattere pratico. Da queste brevi considerazioni, e altri simili interrogativi, nasce il presente lavoro. L’indagine, più in particolare, ha preso le sue mosse evidenziando una breve evoluzione storica (Cap. I. Sez. I. § 1) della famiglia dal governo fascista sino alla fine del secolo scorso. La ricerca, in effetti, ha mostrato il percorso – giurisprudenziale e normativo – seguito e culminato con il prodursi di una situazione di effettiva eguaglianza nell’ambito delle relazioni coniugali. L’effettiva parità, tuttavia, è solamente una delle condizioni perché possa verificarsi una forma di responsabilità: affinché operi il noto fenomeno di sussunzione del fatto nella norma, infatti, è necessario dimostrare che l’interesse familiare, assunto come violato, sia giuridicamente rilevante (Cap. I, Sez. I. § 1.2). A tal proposito, dopo aver rammentato taluni orientamenti risalenti (ma oggi non più accolti dalla moderna dalla dottrina) propensi a “colorare” di irrilevanza giuridica le situazioni de quibus, il lavoro ha inteso dimostrare che gli obblighi sottesi all’art. 143 c.c. sono caratterizzati dal crisma della giuridicità. Queste, in sintesi, le argomentazioni richiamate: (1) la non equivoca espressione legislativa utilizzata nell’art. 143, I, c.c.; (2) la violazione dei “doveri” coniugali è valutata dal giudice in sede di separazione ai fini dell’addebito; (3) il legislatore ha espressamente inibito all’autonomia privata il “potere” di modificare il contenuto dell’atto matrimoniale (cfr.: artt. 160 - 1418, I, c.c.). Ammessa la rilevanza giuridica delle figure de quibus – e dopo aver delimitato il campo dell’indagine (Cap. I, Sez. I. § 1.3) alla sola violazione degli obblighi sottesi all’art. 143 c.c. – il passo logicamente successivo (Cap. I, Sez. I, § 1.4.) si è tradotto nell’analisi dell’evoluzione giurisprudenziale della responsabilità (risarcitoria) endofamiliare: (a) in un primo tempo, preclusa da una relazione di specialità (art. 15 c.p.) fra la norma sulla separazione e la disposizione dell’illecito aquiliano (complice anche l’impossibilità di riconoscere il risarcimento per un danno non patrimoniale al di fuori delle ipotesi di reato; cfr.: artt. 2059 c.c. e 185 c.p.); (b) in un secondo tempo, ammessa in astratto ma negata in concreto; (c) e, infine (Tribunale di Milano, Tribunale di Firenze), riconosciuta anche nella fattispecie concreta. Il fenomeno della responsabilità endofamiliare, poi, ha trovato l’avallo di un’importante decisione del giudice di legittimità nel 2005 (Cass. 9801\2005), salutata dalla letteratura quale decisum inaugurante una nuova stagione della responsabilità familiare. La pronuncia, tuttavia, è stata criticamente considerata perché la situazione fattuale portata all’attenzione della Corte non riguardava una vera e propria ipotesi di responsabilità familiare (se con tale l’espressione s’intende la responsabilità connessa alla violazione di un obbligo coniugale). La fattispecie, in effetti, vedeva un coniuge che aveva taciuto alla propria compagna la sua impotenza coeundi ma, qui la peculiarità, della malattia egli era a conoscenza prima di “contrarre” il matrimonio. In tal modo, sembra difficile sussumere quel fatto nell’ambito del genus della responsabilità familiare: non a caso, la stessa Corte fonda l’effetto (la responsabilità) non già nella violazione degli obblighi coniugali bensì osservando che “l’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, […] non può non riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro – pur in mancanza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva della costituzione di tale vincolo – un obbligo di lealtà, correttezza e di solidarietà, che si sostanzia anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente alle proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto”. E tuttavia, se l’“obbligo” è stato violato anteriormente all’unione coniugale non convince l’idea di farlo rientrare a pieno titolo nell’ambito della disciplina matrimoniale. Si consideri solamente, questo è un aspetto che dovrebbe mettere in guardia l’interprete quando affronta questo tema, che il decisum è stato ampiamente citato in una voce aggiornamento dell’enciclopedia giuridica proprio in tema della responsabilità familiare. Un volta ricostruiti (nell’ordine) (1) i profili storici ed evolutivi della famiglia, (2) la rilevanza giuridica degli obblighi familiari, (3) l’evoluzione giurisprudenziale della responsabilità endofamiliare, l’analisi ha inteso indagare la struttura dell’art. 2043 c.c. evidenziandone le implicazioni quando la norma è richiamata per regolari “illeciti” propri del contesto familiare (Cap. I, Sez. II, § 2.1 – p. 25). La ricerca, questa la conclusione, ha negato possono forme d’interferenza fra l’elemento subiettivo (dolo) e l’ingiustizia. Una simile analisi si è imposta perchè nel paragrafo immediatamente successivo (Cap. I, Sez. II, § 2.2) sono state richiamate alcune posizioni dottrinali – al momento in cui si scrive condivise dalla dottrina maggioritaria – propense a ritenere che il moderno fenomeno della responsabilità endofamiliare sarebbe un fertile terreno di elezione per la teorica dei c.d. illeciti dolosi. Secondo questa teorica, in altre parole, esisterebbero alcune realtà fattuali che assumerebbero rilevanza giuridica solamente nell’ipotesi di una condotta sorretta da un approccio psicologico analogo a quello dell’art. 43, primo alinea, c.p. A tal proposito, il lavoro ha assunto una posizione critica nei confronti della tesi da ultimo ricordata: senza revocare in dubbio il fondamento dogmatico di queste figure (peraltro a più riprese codificate dal legislatore), si è precisato che altra è l’ipotesi di un’estensione analogica di fattispecie di diritto positivo a casi non espressamente previsti, altro, e ben diverso, è l’innesto della logica sottesa all’illecito di dolo nella struttura dell’art. 2043 c.c. Volendosi limitare, in questa sede, a riportare solamente i risultati prodotti dalla nostra ricerca si ricorda che: (1) ammettere interferenze fra dolo e iniura impone di spiegare come la colpa possa rivestire, nell’art. 2043 c.c., al tempo stesso il momento costitutivo dell’elemento soggettivo nonché elisivo dell’effetto (e dunque della responsabilità); (2) la teorica degli illeciti di dolo familiari è in contraddizione insanabile con la lettera della legge essendo l’elemento soggettivo costruito sulla disgiuntiva “o” (ciò che equivale a dire che, quanto all’effetto, dolo e colpa sono fra loro equivalenti); (3) subordinare un risarcimento all’esistenza di un preciso nesso psichico (dolo) altro non significa che spostare la “causa” della responsabilità da risarcitoria a sanzionatoria. A tacere delle considerazioni che precedono, si è rilevato (Cap. I, Sez. II, § 2.3) che l’impossibilità di avvalersi dell’art. 2043 c.c. per regolare violazioni sottese a realtà familiari è dovuta ad un limite connaturato alla struttura di quella norma, come è dimostrato quando l’interprete sussume l’obbligo coniugale ora nella condotta, ora nell’ingiustizia. Evidenziate le problematiche che caratterizzano l’illecito extracontrattuale, e ponendo la premessa che nel sistema i modelli d’imputazione di un danno sono due, si pone allo studioso il problema relativo all’ammissibilità di una responsabilità contrattuale in ambito familiare. Ma onde evitare facili (e pericolosi) apriorismi, sembra opportuno premettere che in tanto può parlarsi di responsabilità da inadempimento in quanto esista una relazione obbligatoria poi rimasta inadempiuta. In via preliminare, i variegati e compositi obblighi coniugali hanno suggerito (Cap. I. Sez. III, § 3.1) di tener distinti le situazioni giuridiche a rilevanza patrimoniale (assistenza materiale, obbligo di contribuzione) da quelle aventi natura personale (fedeltà, coabitazione, assistenza morale) e perciò non patrimoniale. Per una maggior chiarezza dell’esposizione, si è ritenuto opportuno dedicare alla loro indagine sezioni distinte (rispettivamente: Cap. I, Sez. III e Cap. I, Sez. IV). Poiché il dato positivo risulta particolarmente magmatico (art. 143 c.c.), si è tentato di ricostruire dogmaticamente le relazioni coniugali avvalendosi di un procedimento logico inferenziale di tipo induttivo. Questo, più in particolare, l’iter metodologico seguito: si è osservata la morfologia dei rapporti che si instaurano dopo l’attenuazione di taluni obblighi matrimoniali nella fase della separazione personale (cfr. artt. 150 e ss.) ovvero al venir meno del rapporto a seguito del divorzio per valutare eventuali profili di somiglianza, in ordine quomodo, fra le relazioni che insistono in costanza di matrimonio e quelle che si registrano subordinatamente ad uno degli eventi indicati. Avviando la riflessione dalla disciplina dettata in tema di divorzio (Cap. I. Sez. III, § 3.2), si è rilevato che la relazione obbligatoria propria degli ex coniugi – che vede nella solidarietà post familiare la sua legittimazione e nella legge la sua fonte – presenta particolari momenti di contatto con l’obbligo di assistenza materiale contemplato dall’art. 143 c.c. Secondo una consolidata dottrina e giurisprudenza infatti, il giudice, nel liquidare l’entità della prestazione, deve assumere come base primaria l’integrazione necessaria per consentire all’ex coniuge di mantenere il livello di vita matrimoniale, e procedere tenendo conto a) delle condizioni dei coniugi, b) delle ragioni della decisione e c) del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio. Tali parametri, adeguandosi (anche) sulla pregressa attività coniugale, costituiscono un limite invalicabile alla possibilità di attribuire al divorziato un’utilità superiore rispetto a quella che era a lui dovuta in regime di matrimonio ma evidenziano al tempo stesso la stretta relazione che avvince, sotto il profilo patrimoniale, il prima al dopo: la stretta inerenza che lega, in altre parole, quel dato rapporto giuridico obbligatorio alla situazione immediatamente pregressa, imponendo all’obbligazione di modellarsi su quella e consentendo al beneficiario di conservare “quel” tenore di vita in precedenza goduto. Si noti incidentalmente che, pur venendo qui in considerazione un vero e proprio rapporto obbligatorio, anche nella legge sul divorzio compare (non a caso?) l’espressione “obbligo”. I “confini” dell’assistenza materiale (Cap. I. Sez. III, § 3.3), però, risultano più nitidi quando l’interprete studia la realtà giuridica sottesa all’assegno di mantenimento il quale, secondo il pensiero di una dottrina, costituisce “una vera e propria forma di prosecuzione […] dell’obbligo di mantenimento sussistente in costanza di matrimonio”. Si tratta di un’osservazione particolarmente utile per il lavoro, che acquista maggior spessore quando si considera che “la separazione non rappresenta il fatto costitutivo di un nuovo diritto (a differenza che nel caso di assegno divorzile), sebbene una vicenda idonea a produrre una modificazione di un obbligo che trova già nella disciplina del rapporto matrimoniale il suo titolo”. Emerge in questo modo, forse in maniera ancor più nitida rispetto a quanto visto in tema divorzio, quella linea di continuità che, legando ancora una volta il prima al dopo, pone in evidenza (non già la genesi bensì un mutamento del titolo da cui discende) un rapporto patrimoniale teso, in una prospettiva assiologica, a realizzare interessi connaturati alla persona umana. E, naturalmente, sembra confermare che l’espressione “assistenza materiale” sia in realtà allusiva di un istituto che ha una sua precisa etimologia: ob ligatio. Ponendo poi in disparte l’analisi degli istituti sottesi alle fasi patologiche della familia (Cap. I. Sez. III, § 3.4), l’indagine si è spinta oltre cercando di confermare l’esistenza di rapporti obbligatori nell’ambito del matrimonio nella sua prospettiva, per così dire, “fisiologica”, passando così in rassegna le fattispecie sottese agli artt. 146, III – 148 (e 147) – 143 c.c. La prima fattispecie (146, III, c.c.) si è dimostrata di particolare interesse per i nostri fini, avendo il legislatore predisposto un particolare mezzo di tutela per chi rifiuta o omette di adempiere il suo obbligo di mantenimento. In realtà non è tanto la struttura della fattispecie che interessa (incidentalmente analizzata per ragioni di completezza) quanto la particolarità del mezzo di tutela: il sequestro, infatti, è un istituto processuale notoriamente destinato a garantire la tutela di crediti patrimoniali costituendo, per ciò solo, la prova più evidente di una relazione obbligatoria in costanza di matrimonio. Un altro indizio dell’esistenza di relazioni obbligatorie è stato ricavato (Cap. I. Sez. III, § 3.5) dal combinato disposto degli artt. 147 – 148 c.c., anche se la redazione testuale di non facile lettura dell’art. 148 c.c. ha preliminarmente imposto al lavoro di chiarirne l’oggettività giuridica. Una volta assolto un simile compito è stato possibile indagare funditus sui rapporti fra le due disposizioni in considerazione dell’inciso contemplato dall’art. 148 c.c. (“i coniugi devono adempiere l’obbligazione prevista dalla norma precedente...”). In effetti, l’indagine si è interrogata sulla seguente questione: quale fra i tre obblighi previsti dall’art. 147 c.c. è soggetto alla disciplina degli artt. 1218 e ss. c.c.? A tal proposito, si è richiamato un orientamento costante della dottrina e propenso a scomporre, in una prospettiva analitica, il contenuto dei vari obblighi coniugali di cui al 147 c.c. ed a richiamare la disciplina sottesa agli artt. 1218 ss. c.c. solo per quelle relazioni caratterizzate da profili di patrimonialità (il mantenimento); per contro, la stessa dottrina nega forme d’“inadempimento” per le altre tipologie di rapporti. Tuttavia, una simile tesi non sembra considerare che il legislatore, nel configurare il “come” dell’adempimento, esplicitamente ha inteso riferirsi tanto al lavoro professionale quanto a quello casalingo, omettendo volutamente di dare rilievo alle differenze somatiche e/o strutturali che caratterizzano le due figure. Se, infatti, nel lavoro professionale, naturaliter orientato alla produzione di reddito, la patrimonialità investe l’utilità del prodotto del rapporto obbligatorio, in quello casalingo, viceversa, venendo in considerazione al più un risparmio di spesa, l’elemento patrimoniale é in funzione non già della qualificazione del rapporto bensì quale momento della sua lesione. Tanto afferma la giurisprudenza quando riconosce al coniuge casalingo, a seguito delle lesioni da lui subite per sinistri stradali, oltre al danno alla salute (danno biologico) altresì quello patrimoniale (sotto il profilo del danno emergente) conseguente alla diminuzione della capacità lavorativa. In altre parole, la patrimonialità non investe l’utilità connessa (tramite la prestazione) all’obbligo del soggetto debitore ma ne costituisce un derivato, una qualifica necessaria per il prodursi dell’obbligazione risarcitoria. Risulta difficile, allora, ritenere che una simile forma di lavoro possa integrarsi nel(l’obbligo di) mantenimento (rectius: assistenza materiale) quando la stessa è per sua natura incapace di generare un reddito. L’adesione ad una simile tesi pone così l’interprete di fronte alla seguente alternativa: negare valore alla lettera della legge ritenendo che il legislatore abbia errato nel parificare, ai fini dell’effetto, il mantenimento al lavoro casalingo; tentare un’interpretazione rispettosa del dato positivo, domandandosi se all’espressione “obbligazione” non sia in realtà possibile ascrivere, non già un diverso significato, quanto una diversa funzione. Una funzione, in altre parole, che è più facile comprendere quando si richiama alla mente un procedimento logico che risponde al nome di connessione. La connessione, più in particolare, è un istituto (solo incidentalmente studiato in quanto non strettamente inerente al lavoro) soventemente utilizzato dal legislatore per legare fra loro due (o più) elementi di una fattispecie per il conseguimento di un dato risultato senza privarle, al contempo, della loro autonomia in relazione a diversi effetti. E’ un fenomeno di frequente applicazione nel sistema; volendo esemplificare si pensi a: le disposizioni contemplate nel Libro I, Titolo I, Capo I, Sezione IV del codice di rito (cfr.: artt. 31-36 c.p.c.) relative alle modificazioni della competenza per ragioni di connessione; l’art. 81 del c.p. in tema di reato continuato; l’ipotesi in cui una parte stipuli più contratti di assicurazione presso diversi assicuratori per assicurarsi nei confronti di un medesimo sinistro (art. 1910 c.c.). Come si vede, nelle tre ipotesi precedentemente richiamate, i fatti costitutivi di un data fattispecie sono presi in considerazione per un diverso effetto da un’altra fattispecie (nell’ordinamento processuale, la causa accessoria segue, se la parte intende avvalersene, la causa principale; nell’ordinamento penale, più ipotesi di reato sono unificate ai fini della pena; plurimi contratti di assicurazione sono in relazione d’indifferenza l’uno con l’altro – tanto che uno può essere invalido senza che il vizio si trasmetta agli altri – sebbene le fattispecie siano unificate fra loro in vista dell’effetto idoneo a determinare una soglia al quantum che il debitore, in caso di sinistro, è tenuto a pagare) senza perdere la loro rilevanza in relazione a diverse finalità. Avvalendosi di una simile lettura, non è sembrato implausibile ritenere che il legislatore, con l’espressione “obbligazione prevista dalla norma precedente” (art. 148 c.c.) in cui sostanzia tanto il lavoro professionale quanto quello casalingo, ha inteso connettere i tre obblighi ad una comune disciplina, quella del rapporto obbligatorio, facendo seguire al loro inadempimento una forma di responsabilità contrattuale. Una volta chiarito che l’espressione contemplata nell’art. 143, II, c.c. (“assistenza materiale”), analogamente al mantenimento di cui al 147 c.c., è in realtà sinonimo di obbligazione, come una parte della dottrina d’altronde ritiene, si pone all’interprete un nuovo problema: fino a che punto, infatti, è possibile richiamare la disciplina sottesa all’inadempimento senza violare la specialità del diritto di famiglia? Allo studioso viene così demandato il delicato compito di “conformare” la struttura obbligatoria tenendo in debita considerazione i principi sottesi al Libro I: un problema di non poco spessore se è vero che l’attività interpretativa incontra, specie sotto questo aspetto, limiti particolarmente stringenti. Il fenomeno è stato indagato analizzando due profilo: l’uno, relativo all’aspetto estrinseco della struttura obbligatoria (vale a dire: compatibilità delle posizioni giuridiche familiari con le caratteristiche dell’obbligo e del credito); l’altro, all’opposto, inerente la “conformazione” delle logiche sottese alla realtà contrattuale da parte del microuniverso familiare. Sotto un profilo rigorosamente strutturale si è osservato che le situazioni giuridiche soggettive intorno alle quali gravita il vinculum iuris non pongono problemi di significativa rilevanza quando sono “calate” nel contesto familiare: l’obbligo, al pari del credito (si pensi al credito alimentare), sarà incedibile (perché connesso allo status di coniuge) e dunque privo della facoltà di disposizione (relativamente alla pretesa; infra) Qualche difficoltà sorge invece quando si passa ad analizzare il secondo piano: anche il buon senso, d’altronde, suggerisce che il coniuge non possa essere parificato ad un comune debitore. La chiave di volta che risolve il problema sembra annidarsi in un principio che, mutuato dalla disciplina penalistica, prende il nome di “principio di offensività” (avallato anche da alcuni recenti interventi della Suprema Corte, da un lato, e del Giudice delle leggi, dall’altro). Più in particolare, postulando che la lesione dell’interesse familiare è subordinata ad un’offesa significativa – qualificata dal principio di solidarietà familiare (artt. 2 – 29 Cost) e ammessa dalla giurisprudenza a Sezioni Unite – risulta possibile differenziare i criteri che regolano l’inadempimento dell’obbligazione coniugale da quelli che operano nell’ambito di un normale rapporto debito – credito. Una volta dimostrato che l’obbligazione, e conseguentemente la responsabilità contrattuale, può ben operare nell’ambito delle relazioni coniugali, l’indagine (Cap. I. Sez. IV, § 4.1) ha inteso passare in rassegna le varie motivazioni che la dottrina ha valorizzato per negare ingresso al modello di cui agli artt. 1218 e ss. c.c. nell’ambito degli obblighi personali. In effetti, la ricerca ha rilevato che le obiezioni mosse a questo modello non sono poi così numerose come potrebbe prima facie sembrare. Le più rilevanti, infatti, si avvalgono delle seguenti argomentazioni: la prima (Cap. I. Sez. IV, § 4.2) fa leva sul rapporto di specialità fra separazione e addebito (oggi venuto meno) e muove dall’impossibilità d’individuare nella relazione familiari a rilevanza personale una prestazione patrimonialmente valutabile (obiezione, questa, particolarmente consistente); (Cap. I. Sez. IV, § 4.3) la seconda, viceversa, ritiene che la diretta incidenza della persona nel vinculum familiare impedisca, per ciò solo, il ricorso alle logiche obbligatorie; la terza, infine, (Cap. I. Sez. IV, § 4.4) muove dal presupposto che il matrimonio non sia un contratto e, conseguentemente, nega che dalla violazione di un obbligo coniugale possa sorgere una responsabilità contrattuale. In realtà, l’unica obiezione che sembra porsi a presidio della responsabilità aquiliana è solamente la prima: vale a dire, quella che identifica nella prestazione il comportamento del coniuge (lato sensu: debitore). Questa tesi, tuttavia, muove da una premessa ben specifica: essa presuppone l’adesione alla c.d. teoria personalistica del rapporto obbligatorio e, conseguentemente, della responsabilità contrattuale. In altre parole, in questa linea di pensiero si annida il convincimento che l’oggetto del (diritto di) credito non sia il bene dovuto ovvero, per dirla con Hartmann, l’utilità sottesa al rapporto, bensì il comportamento del debitore identificato nella “prestazione” la quale, in ossequio al disposto dell’art. 1174 c.c., deve assumere rilievo patrimoniale. Sorge così il vero problema che l’indagine si trova a dover affrontare: volendo applicare il modello contrattuale agli obblighi di natura personale si deve previamente dimostrare che la prestazione non è il comportamento del debitore. Ma un simile risultato può essere perseguito a patto di passare in rassegna le più importanti tesi elaborate dalla dogmatica negli anni 50. Da considerare, come si evince dagli stessi lavori preparatori al codice, che lo stesso compilatore espressamente avvertì che era compito della dottrina definire l’obbligazione e compito del legislatore provvedere alla sua disciplina. Il capitolo secondo ha così inteso indagare funditus la struttura del rapporto obbligatorio analizzando, uno per uno, i presupposti strutturali dell’obbligatio. Relativamente all’oggetto dell’obbligo (Cap. II. Sez. I, § 1.1) e aderendo alle coordinate proposte da un’autorevole dottrina, si è condivisa la tesi che lo identifica nel comportamento del debitore; l’oggetto del credito, invece, è stato individuato (non già nel comportamento ma) nell’utilità sottesa al contegno debitorio. La conclusione è particolarmente interessante costituendo il primo (ma fondamentale) passo che consente di scindere il comportamento dalla prestazione. L’impostazione risente in qualche misura della concezione patrimonialista del rapporto obbligatorio, maggiormente persuasiva (ancorché con taluni contemperamenti) rispetto a quella personalistica, e trova un saldo referente testuale sia nella norma sull’adempimento del terzo. Come si è osservato, l’adesione al modello personalistico pone l’interprete al seguente dilemma: “o si comprende nel contenuto dell’obbligazione qualunque attività idonea a raggiungere il risultato, non solo l’attività del debitore ma anche l’attività di terzi, e ciò è assurdo; oppure, limitando il riferimento del diritto di credito al comportamento del debitore, [si] rinuncia […] a spiegare l’istituto dell’adempimento del terzo alla stregua del concetto di obbligazione e ciò è dogmaticamente arbitrario”. Altro referente normativo è costituito, come si diceva, dalla disciplina dettata in tema di mora del creditore (artt. 1206 e ss. c.c.): se nella mora ex latere creditoris, l’offerta formale presuppone necessariamente la possibilità di adempimento e il risultato viene a mancare (non già in virtù dell’impossibilità sopravvenuta ma) per il contegno del creditore allora ne consegue che l’utilità ipostatizzata nel rapporto non può realizzarsi. Non sorgendo in capo all’obbligato alcuna responsabilità, si può inferire che il risultato cui tende l’obbligazione esula dal comportamento dell’obbligato. Perché insistere su questi aspetti così (apparentemente) inutili e lontani da una tesi che si propone di studiare il modello di responsabilità di un obbligo familiare? Se quanto precede è vero, allora è possibile escludere interferenze fra obbligo e credito, pervenendo ad una soluzione diametralmente opposto alla concezione personalistica del rapporto obbligatorio per la quale l’obbligo è, invece, il comportamento debitorio (a sua volta compendiato nell’oggetto del credito il quale, a sua volta, viene identificato nella prestazione). Nel modello da noi proposto, invece, credito e obbligo “viaggiano” per così dire su binari paralleli ma distinti. Per una maggiore chiarezza del ragionamento sin qui esposto, si omette di accennare al § 1.2, (Cap. II. Sez. I, § 1.2, p. 76), e si perviene immediatamente alle implicazioni sottese alle precedenti conclusioni. (Cap. II. Sez. I, § 1.3) Si è già detto della non interferenza fra obbligo e credito: si è poi ricordato che secondo la concezione personalistica l’oggetto del credito è la prestazione (ossia il comportamento). Si supponga, allora, la stipulazione di una clausola penale nell’ipotesi in cui un coniugi violi, ad esempio, il suo obbligo di fedeltà e si valuti come risponde il modello personalistico. Posto che la penale è fonte di obbligazione (1173 – 1382 c.c.), la prestazione è patrimoniale secondo quanto disposto dall’art. 1174 c.c. Ma in questo modello, la prestazione è l’oggetto del credito il quale, a sua volta, è il comportamento del coniuge. A questo punto, l’obbligo di fedeltà acquista i connotati della patrimonialità (clausola penale) e della non patrimonialità (atto matrimoniale) in considerazione della fonte che lo regola. La conclusione sembra scontata e forse anche perentoria: la tesi non convince. In tal modo crediamo di aver posto in essere il difetto più significativo dell’impostazione personalistica: legando il momento patrimoniale al comportamento senza scinderlo dall’utilità, si viene a determinare una conseguente attrazione della qualifica patrimoniale all’oggetto dell’obbligo, con le conseguenze poc’anzi osservate. Viceversa, quando si dimostra che il risultato non è compendiato nel comportamento (essendone sì collegato ma concettualmente distinto da quello) il problema non ha più ragione di porsi: anzi, emerge invece il vantaggio di restituire alla prestazione una sua autonomia oltre che propria, specifica, funzione. Conviene allora domandarsi quale sia la chiave di volta che consente di legare fra loro due situazioni giuridiche (credito e obbligo) per le quali non sembrerebbero esistere alcuna reciproca interferenza. Quale è, in altre parole, la premessa che consente di legare fra loro queste due situazioni? La risposta si annida nella natura necessariamente relazionale dell’obbligazione: ob ligatio. Di seguito, si elencano i passaggi logici che hanno consentito allo scrivente di proporre una diversa definizione di prestazione. Si è già detto che (1) il risultato da realizzare costituisce un elemento non compendiabile (e, dunque, ad esso estraneo) al contegno del debitore; per contro, abbiamo ritenuto corretto (2) ravvisare l’oggetto del credito nell’utilità (da realizzare) sottesa al vinculum iuris. (3) Si è, infine, negato che fenomeni di interferenza fra le due situazioni giuridiche possano ravvisarsi sul piano dei rispettivi oggetti delle figure giuridiche o, ancora, sul piano dei rispettivi contenuti (nel senso di sussumere il contenuto della prima posizione nell’altra). Se non che, (4) l’obligatio, almeno stando alla sua originaria fonte, in quanto iuris vinculum quo necessitatis astringimur alicuius solvendae rei, è, e rimane, elemento normativo di relazione fra due situazioni. La prestazione, allora, diventa l’unico elemento nell’ambito del quale è possibile registrare la convergenza e l’interferenza delle due predette situazioni: essa, infatti, può definirsi come quell’entità (logica) che l’ordinamento utilizza al fine di delineare un nesso che, ponendo in relazione il contegno al risultato e così legando il factum debitoris all’utilitas facti (piano orizzontale), predispone e definisce il parametro cui rapportare (il contegno e valutare così) l’esatta realizzazione dell’interesse ipostatizzato nel rapporto (piano verticale). Così definita, la prestazione diventa un’entità logica normativa completamente separata dal contegno dell’obbligato e consente di attrarre nell’obbligo anche il comportamento del coniuge. Non solo: il contegno del coniuge, aderendo a queste coordinate interpretative, rimane completamente svincolato dal problema della patrimonialità della prestazione. E ad un simile risultato non sarebbe stato possibile pervenire se lo scrivente non si fosse attardato sull’analisi dei testi – di tutt’altro che agevole lettura in verità – della dogmatica degli anni 50- 60’. Una volta definita la prestazione nel seguente modo, l’indagine ha avviato una riflessione (Cap. II. Sez. I, § 1.4, p. 81) sulle implicazioni ad essa sottese quando si passano al vaglio critico gli orientamenti dottrinali avanzati in tema dei criteri che governano la responsabilità contrattuale. Il passo logicamente successivo si è tradotto (Cap. II. Sez. I, §§ 1.5) nello stabilire il significato da ascrivere all’espressione “suscettibilità di valutazione economica”. Anche qui, si è ritenuto utile avviare la riflessione adottando una prospettiva storica (dal secondo dopo guerra ad oggi) e cercando di individuare le cause che la dottrina aveva individuato per negare il risarcimento di interessi non patrimoniali dedotti in obligatione. La nostra ricerca ha evidenziato che l’impossibilità di risarcire interessi non patrimoniali veniva giustificata dalla dottrina dell’epoca non già richiamando (presunti) limiti strutturali intrinseci al rapporto obbligatorio bensì rilevando l’incoerenza di un sistema il quale non poteva contemplare, allo stesso tempo, limiti stringenti per l’illecito aquilano e non prevederne alcuno per quello contrattuale. Venuta meno una simile barriera ad opera di una recente pronuncia a Sezioni Unite della Corte (ma già prima: Cass. S.U. 6582\2006), l’indagine si è fatta carico di fornire una possibile risposta a cosa debba intendersi con l’espressione “suscettibilità di valutazione economica”. A tal proposito, abbiamo ritenuto opportuno premettere (Cap. II. Sez. I, §§ 1.6,) che una simile qualifica può essere correttamente intesa quando l’interprete analizza le modalità di produzione di un effetto proprio delle norme che ineriscono a modelli di responsabilità. Si pensi, esemplificando, al bene salute il quale, limitandoci ad evidenziare le sue caratteristiche più rilevanti, gode delle note qualifiche dell’indisponibilità, imprescrittibilità, irrinunciabilità e intrasmissibilità. Ebbene, una volta leso, il suo prodotto (l’obbligazione risarcitoria) è un qualcosa di estremamente diverso dall’interesse originario e costituendone un quid novi è governato da regole e princìpi niente affatto analoghi in quanto disponibile, prescrittibile, rinunciabile, trasmissibile. Come si vede, l’equazione interesse (o utilità) – danno è concepita dal legislatore in modo da risultare insensibile alla tipologia di utilità considerata: ciò consente di affermare che, ai fini della responsabilità, è del tutto irrilevante la natura dell’interesse leso. E in tal modo, un’altra tessera del mosaico si aggiunge alla possibilità di concepire una responsabilità contrattuale per lesioni familiare dato che la persona, in quello specifico rapporto, è intimamente implicata. In realtà, se si ammette che l’interesse è in presa diretta con le norme sul risarcimento del danno (e non è da queste condizionato eccezion fatta per le modalità di liquidazione del quantum debeatur – art. 1226 c.c.), si può arrivare a sostenere che l’espressione “suscettibilità di valutazione economica” altro non sottintende se non un criterio guida che, innestandosi nel processo di trasmutazione, consente di valutare la rilevanza di pregiudizi che l’ordinamento giuridico, in un dato momento e/o in un dato contesto giuridico, individua come meritevoli di tutela a fini risarcitori. Un’applicazione pratica può ravvisarsi proprio nell’ipotesi del contratto con effetti protettivi nei confronti di terzi. Il lavoro, poi, si è fatto carico di replicare a talune obiezioni avanzate da alcuni Autori. Secondo una linea di pensiero, infatti, esisterebbero talune ipotesi in cui verrebbe meno quella relazione fra interesse e danno da noi postulata. Si richiama, in tal senso, l’ipotesi dell’inadempimento di alcuni musicisti ingaggiati per suonare ad una festa: la lesione dell’interesse, si afferma, non darebbe luogo in questa fattispecie ad alcun pregiudizio risarcibile. Si è però ribattuto che sottesa all’ipotesi de qua giace l’adesione alla nota teorica della Differenztheorie elaborata da (F.) Momnsen secondo cui il danno patrimoniale sussiste quando, calcolata la somma dei valori economici che avrebbero formato il patrimonio del soggetto se l’inadempimento non si fosse verificato e la somma risultante a seguito di tale illecito, la differenza algebrica fra le due somme è negativa. Ma l’oggetto (cioè: entità patrimoniali) della tesi ne segna anche il limite ultimo di operatività non potendo trovare applicazione per utilità non patrimoniali le quali, peraltro, non rientrano nell’oggetto dell’obbligo e dunque non sono dedotte nello fattispecie negoziale ipotizzata dall’A. Individuati e ricostruiti gli elementi fondamentali del rapporto obbligatorio, la tesi ha indagato il fenomeno dell’obbligazione senza prestazione (Cap. II. Sez. II, § 2.). Dopo aver brevemente ricostruito il fenomeno della responsabilità precontrattuale (Cap. II. Sez. II, § 2.1) – il quale costituisce il punto di partenza che fonda la premessa per costruzione dogmatica della tesi da ultimo ricordata – il lavoro ha esternato alcune considerazioni critiche sulla teorica dell’obbligazione senza prestazione, prendendone le distanze (Cap. II. Sez. II, § 2.2). Ricostruita in questi termini la questione, e dopo aver dimostrato che la prestazione (a) non è il comportamento del debitore e che (b) vi è insensibilità fra interesse e danno, l’indagine (Cap. III. Sez. I, § 1.1.) è ritornata sul tema che si era proposto di studiare qualificando gli obblighi personali, sia pur con quell’innegabile specificità (più volte ribadita nel corso dell’intero lavoro) propria del diritto familiare, come obbligazioni con prestazioni apatrimoniali. Analogo iter metodologico (Cap. III. Sez. I, § 1.2) è stato proposto per il credito familiare (dove, in considerazione della totale assenza di contributi sul tema, l’analisi della dogmatica condotta nel capitolo precedente ha costituito un bagaglio culturale fondamentale per individuare i tratti comuni e differenziali). Infine (Cap. III. Sez. I, § 1.3), abbiamo rassegnato le nostre conclusioni ritenendo che per la lesione di obblighi a rilevanza personale e patrimoniale è il sistema contrattuale a doversi richiamare. Una conclusione che si pone all’esito di un percorso, crediamo, il più possibile coerente nell’intera trama concettuale del lavoro e che certamente, al di là delle perplessità che pure si possono esternare (e, auspichiamo, saranno esternate), rappresenta comunque un’impostazione originale del problema
L'obbligo familiare nella responsabilità contrattuale
2009
Abstract
ABSTRACT “L’obbligo familiare nella responsabilità contrattuale” (tesi di ricerca di G. PARDI) Come era naturale che accadesse, la recente evoluzione del danno alla persona, ipotesi paradigmatica di danno non patrimoniale, ha finito per imporre una particolare lettura della responsabilità endofamiliare. E’ un dato oramai acquisito, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, quello per cui l’unica fattispecie idonea a regolare compiutamente il fenomeno della responsabilità risarcitoria connessa alla violazione degli obblighi coniugali é la grundnorm dell’illecito aquiliano, vale a dire l’art. 2043 c.c. Persino in una recente monografia sul tema, l’ultima in ordine cronologico che abbiamo potuto analizzare, l’indagine sulla rilevanza di possibili modelli di responsabilità alternativi a quello aquiliano è stata completamente omessa. Un verdetto quasi lapidario, verrebbe da dire, espresso nella forma più incisiva: un silenzio. D’altronde, la norma sul torto, adeguatamente “collaudata” da quasi cinquant’anni, mostra una facoltà espansiva davvero non indifferente: basti pensare che ad essa l’interprete si affida per “governare” la responsabilità dello Stato nei confronti del cittadino o di un giudice di ultima istanza per errata interpretazione del diritto comunitario. Queste considerazioni sarebbero di per se sufficienti a rendere vana, e forse anche inutile, un’indagine orientata alla ricerca di altri modelli di responsabilità. Ma nel solco dell’insegnamento di Bertold Brecht e sotto la “pressione” di una riflessione “autentica”, le fondamenta di un modello imperniato sul binomio responsabilità extracontrattuale – realtà familiare hanno mostrato in più di un’occasione vistosi cedimenti, sia sul piano della coerenza sistematica, sia relativamente alle applicazioni pratiche. Non mancano, d’altronde, interrogativi che depongono in quel senso. Ad esempio: se nell’odierno ordinamento il discrimen logico fra responsabilità extracontrattuale e contrattuale si annida nella natura della situazione sostanziale violata – che vede la prima quale risposta alla lesione di diritti e la seconda quale sanzione per la violazione di obblighi – perché in un sistema che gravita intorno a precisi e specifici nessi di relazione (la realtà familiare) non è la responsabilità da inadempimento a doversi richiamare? Ponendo comunque in disparte la maggior coerenza di un modello rispetto ad un altro (obiettivo che una tesi dottrinale dovrebbe comunque ricercare), sembra opportuno precisare che i due sistemi determinano importanti ricadute sul piano pratico: si pensi, volendo esemplificare solamente, al diverso onere della prova, al diverso termine prescrizionale, alla possibile applicazione (e alle implicazioni niente affatto indifferenti) dell’art. 1225 c.c. Last but not least: si considerino le diverse modalità di produzione dell’effetto sottese alle due fattispecie di responsabilità; si vuol dire, insomma, che a favore di una ricerca in tal senso militano sopratutto implicazioni di carattere pratico. Da queste brevi considerazioni, e altri simili interrogativi, nasce il presente lavoro. L’indagine, più in particolare, ha preso le sue mosse evidenziando una breve evoluzione storica (Cap. I. Sez. I. § 1) della famiglia dal governo fascista sino alla fine del secolo scorso. La ricerca, in effetti, ha mostrato il percorso – giurisprudenziale e normativo – seguito e culminato con il prodursi di una situazione di effettiva eguaglianza nell’ambito delle relazioni coniugali. L’effettiva parità, tuttavia, è solamente una delle condizioni perché possa verificarsi una forma di responsabilità: affinché operi il noto fenomeno di sussunzione del fatto nella norma, infatti, è necessario dimostrare che l’interesse familiare, assunto come violato, sia giuridicamente rilevante (Cap. I, Sez. I. § 1.2). A tal proposito, dopo aver rammentato taluni orientamenti risalenti (ma oggi non più accolti dalla moderna dalla dottrina) propensi a “colorare” di irrilevanza giuridica le situazioni de quibus, il lavoro ha inteso dimostrare che gli obblighi sottesi all’art. 143 c.c. sono caratterizzati dal crisma della giuridicità. Queste, in sintesi, le argomentazioni richiamate: (1) la non equivoca espressione legislativa utilizzata nell’art. 143, I, c.c.; (2) la violazione dei “doveri” coniugali è valutata dal giudice in sede di separazione ai fini dell’addebito; (3) il legislatore ha espressamente inibito all’autonomia privata il “potere” di modificare il contenuto dell’atto matrimoniale (cfr.: artt. 160 - 1418, I, c.c.). Ammessa la rilevanza giuridica delle figure de quibus – e dopo aver delimitato il campo dell’indagine (Cap. I, Sez. I. § 1.3) alla sola violazione degli obblighi sottesi all’art. 143 c.c. – il passo logicamente successivo (Cap. I, Sez. I, § 1.4.) si è tradotto nell’analisi dell’evoluzione giurisprudenziale della responsabilità (risarcitoria) endofamiliare: (a) in un primo tempo, preclusa da una relazione di specialità (art. 15 c.p.) fra la norma sulla separazione e la disposizione dell’illecito aquiliano (complice anche l’impossibilità di riconoscere il risarcimento per un danno non patrimoniale al di fuori delle ipotesi di reato; cfr.: artt. 2059 c.c. e 185 c.p.); (b) in un secondo tempo, ammessa in astratto ma negata in concreto; (c) e, infine (Tribunale di Milano, Tribunale di Firenze), riconosciuta anche nella fattispecie concreta. Il fenomeno della responsabilità endofamiliare, poi, ha trovato l’avallo di un’importante decisione del giudice di legittimità nel 2005 (Cass. 9801\2005), salutata dalla letteratura quale decisum inaugurante una nuova stagione della responsabilità familiare. La pronuncia, tuttavia, è stata criticamente considerata perché la situazione fattuale portata all’attenzione della Corte non riguardava una vera e propria ipotesi di responsabilità familiare (se con tale l’espressione s’intende la responsabilità connessa alla violazione di un obbligo coniugale). La fattispecie, in effetti, vedeva un coniuge che aveva taciuto alla propria compagna la sua impotenza coeundi ma, qui la peculiarità, della malattia egli era a conoscenza prima di “contrarre” il matrimonio. In tal modo, sembra difficile sussumere quel fatto nell’ambito del genus della responsabilità familiare: non a caso, la stessa Corte fonda l’effetto (la responsabilità) non già nella violazione degli obblighi coniugali bensì osservando che “l’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, […] non può non riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro – pur in mancanza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva della costituzione di tale vincolo – un obbligo di lealtà, correttezza e di solidarietà, che si sostanzia anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente alle proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto”. E tuttavia, se l’“obbligo” è stato violato anteriormente all’unione coniugale non convince l’idea di farlo rientrare a pieno titolo nell’ambito della disciplina matrimoniale. Si consideri solamente, questo è un aspetto che dovrebbe mettere in guardia l’interprete quando affronta questo tema, che il decisum è stato ampiamente citato in una voce aggiornamento dell’enciclopedia giuridica proprio in tema della responsabilità familiare. Un volta ricostruiti (nell’ordine) (1) i profili storici ed evolutivi della famiglia, (2) la rilevanza giuridica degli obblighi familiari, (3) l’evoluzione giurisprudenziale della responsabilità endofamiliare, l’analisi ha inteso indagare la struttura dell’art. 2043 c.c. evidenziandone le implicazioni quando la norma è richiamata per regolari “illeciti” propri del contesto familiare (Cap. I, Sez. II, § 2.1 – p. 25). La ricerca, questa la conclusione, ha negato possono forme d’interferenza fra l’elemento subiettivo (dolo) e l’ingiustizia. Una simile analisi si è imposta perchè nel paragrafo immediatamente successivo (Cap. I, Sez. II, § 2.2) sono state richiamate alcune posizioni dottrinali – al momento in cui si scrive condivise dalla dottrina maggioritaria – propense a ritenere che il moderno fenomeno della responsabilità endofamiliare sarebbe un fertile terreno di elezione per la teorica dei c.d. illeciti dolosi. Secondo questa teorica, in altre parole, esisterebbero alcune realtà fattuali che assumerebbero rilevanza giuridica solamente nell’ipotesi di una condotta sorretta da un approccio psicologico analogo a quello dell’art. 43, primo alinea, c.p. A tal proposito, il lavoro ha assunto una posizione critica nei confronti della tesi da ultimo ricordata: senza revocare in dubbio il fondamento dogmatico di queste figure (peraltro a più riprese codificate dal legislatore), si è precisato che altra è l’ipotesi di un’estensione analogica di fattispecie di diritto positivo a casi non espressamente previsti, altro, e ben diverso, è l’innesto della logica sottesa all’illecito di dolo nella struttura dell’art. 2043 c.c. Volendosi limitare, in questa sede, a riportare solamente i risultati prodotti dalla nostra ricerca si ricorda che: (1) ammettere interferenze fra dolo e iniura impone di spiegare come la colpa possa rivestire, nell’art. 2043 c.c., al tempo stesso il momento costitutivo dell’elemento soggettivo nonché elisivo dell’effetto (e dunque della responsabilità); (2) la teorica degli illeciti di dolo familiari è in contraddizione insanabile con la lettera della legge essendo l’elemento soggettivo costruito sulla disgiuntiva “o” (ciò che equivale a dire che, quanto all’effetto, dolo e colpa sono fra loro equivalenti); (3) subordinare un risarcimento all’esistenza di un preciso nesso psichico (dolo) altro non significa che spostare la “causa” della responsabilità da risarcitoria a sanzionatoria. A tacere delle considerazioni che precedono, si è rilevato (Cap. I, Sez. II, § 2.3) che l’impossibilità di avvalersi dell’art. 2043 c.c. per regolare violazioni sottese a realtà familiari è dovuta ad un limite connaturato alla struttura di quella norma, come è dimostrato quando l’interprete sussume l’obbligo coniugale ora nella condotta, ora nell’ingiustizia. Evidenziate le problematiche che caratterizzano l’illecito extracontrattuale, e ponendo la premessa che nel sistema i modelli d’imputazione di un danno sono due, si pone allo studioso il problema relativo all’ammissibilità di una responsabilità contrattuale in ambito familiare. Ma onde evitare facili (e pericolosi) apriorismi, sembra opportuno premettere che in tanto può parlarsi di responsabilità da inadempimento in quanto esista una relazione obbligatoria poi rimasta inadempiuta. In via preliminare, i variegati e compositi obblighi coniugali hanno suggerito (Cap. I. Sez. III, § 3.1) di tener distinti le situazioni giuridiche a rilevanza patrimoniale (assistenza materiale, obbligo di contribuzione) da quelle aventi natura personale (fedeltà, coabitazione, assistenza morale) e perciò non patrimoniale. Per una maggior chiarezza dell’esposizione, si è ritenuto opportuno dedicare alla loro indagine sezioni distinte (rispettivamente: Cap. I, Sez. III e Cap. I, Sez. IV). Poiché il dato positivo risulta particolarmente magmatico (art. 143 c.c.), si è tentato di ricostruire dogmaticamente le relazioni coniugali avvalendosi di un procedimento logico inferenziale di tipo induttivo. Questo, più in particolare, l’iter metodologico seguito: si è osservata la morfologia dei rapporti che si instaurano dopo l’attenuazione di taluni obblighi matrimoniali nella fase della separazione personale (cfr. artt. 150 e ss.) ovvero al venir meno del rapporto a seguito del divorzio per valutare eventuali profili di somiglianza, in ordine quomodo, fra le relazioni che insistono in costanza di matrimonio e quelle che si registrano subordinatamente ad uno degli eventi indicati. Avviando la riflessione dalla disciplina dettata in tema di divorzio (Cap. I. Sez. III, § 3.2), si è rilevato che la relazione obbligatoria propria degli ex coniugi – che vede nella solidarietà post familiare la sua legittimazione e nella legge la sua fonte – presenta particolari momenti di contatto con l’obbligo di assistenza materiale contemplato dall’art. 143 c.c. Secondo una consolidata dottrina e giurisprudenza infatti, il giudice, nel liquidare l’entità della prestazione, deve assumere come base primaria l’integrazione necessaria per consentire all’ex coniuge di mantenere il livello di vita matrimoniale, e procedere tenendo conto a) delle condizioni dei coniugi, b) delle ragioni della decisione e c) del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio. Tali parametri, adeguandosi (anche) sulla pregressa attività coniugale, costituiscono un limite invalicabile alla possibilità di attribuire al divorziato un’utilità superiore rispetto a quella che era a lui dovuta in regime di matrimonio ma evidenziano al tempo stesso la stretta relazione che avvince, sotto il profilo patrimoniale, il prima al dopo: la stretta inerenza che lega, in altre parole, quel dato rapporto giuridico obbligatorio alla situazione immediatamente pregressa, imponendo all’obbligazione di modellarsi su quella e consentendo al beneficiario di conservare “quel” tenore di vita in precedenza goduto. Si noti incidentalmente che, pur venendo qui in considerazione un vero e proprio rapporto obbligatorio, anche nella legge sul divorzio compare (non a caso?) l’espressione “obbligo”. I “confini” dell’assistenza materiale (Cap. I. Sez. III, § 3.3), però, risultano più nitidi quando l’interprete studia la realtà giuridica sottesa all’assegno di mantenimento il quale, secondo il pensiero di una dottrina, costituisce “una vera e propria forma di prosecuzione […] dell’obbligo di mantenimento sussistente in costanza di matrimonio”. Si tratta di un’osservazione particolarmente utile per il lavoro, che acquista maggior spessore quando si considera che “la separazione non rappresenta il fatto costitutivo di un nuovo diritto (a differenza che nel caso di assegno divorzile), sebbene una vicenda idonea a produrre una modificazione di un obbligo che trova già nella disciplina del rapporto matrimoniale il suo titolo”. Emerge in questo modo, forse in maniera ancor più nitida rispetto a quanto visto in tema divorzio, quella linea di continuità che, legando ancora una volta il prima al dopo, pone in evidenza (non già la genesi bensì un mutamento del titolo da cui discende) un rapporto patrimoniale teso, in una prospettiva assiologica, a realizzare interessi connaturati alla persona umana. E, naturalmente, sembra confermare che l’espressione “assistenza materiale” sia in realtà allusiva di un istituto che ha una sua precisa etimologia: ob ligatio. Ponendo poi in disparte l’analisi degli istituti sottesi alle fasi patologiche della familia (Cap. I. Sez. III, § 3.4), l’indagine si è spinta oltre cercando di confermare l’esistenza di rapporti obbligatori nell’ambito del matrimonio nella sua prospettiva, per così dire, “fisiologica”, passando così in rassegna le fattispecie sottese agli artt. 146, III – 148 (e 147) – 143 c.c. La prima fattispecie (146, III, c.c.) si è dimostrata di particolare interesse per i nostri fini, avendo il legislatore predisposto un particolare mezzo di tutela per chi rifiuta o omette di adempiere il suo obbligo di mantenimento. In realtà non è tanto la struttura della fattispecie che interessa (incidentalmente analizzata per ragioni di completezza) quanto la particolarità del mezzo di tutela: il sequestro, infatti, è un istituto processuale notoriamente destinato a garantire la tutela di crediti patrimoniali costituendo, per ciò solo, la prova più evidente di una relazione obbligatoria in costanza di matrimonio. Un altro indizio dell’esistenza di relazioni obbligatorie è stato ricavato (Cap. I. Sez. III, § 3.5) dal combinato disposto degli artt. 147 – 148 c.c., anche se la redazione testuale di non facile lettura dell’art. 148 c.c. ha preliminarmente imposto al lavoro di chiarirne l’oggettività giuridica. Una volta assolto un simile compito è stato possibile indagare funditus sui rapporti fra le due disposizioni in considerazione dell’inciso contemplato dall’art. 148 c.c. (“i coniugi devono adempiere l’obbligazione prevista dalla norma precedente...”). In effetti, l’indagine si è interrogata sulla seguente questione: quale fra i tre obblighi previsti dall’art. 147 c.c. è soggetto alla disciplina degli artt. 1218 e ss. c.c.? A tal proposito, si è richiamato un orientamento costante della dottrina e propenso a scomporre, in una prospettiva analitica, il contenuto dei vari obblighi coniugali di cui al 147 c.c. ed a richiamare la disciplina sottesa agli artt. 1218 ss. c.c. solo per quelle relazioni caratterizzate da profili di patrimonialità (il mantenimento); per contro, la stessa dottrina nega forme d’“inadempimento” per le altre tipologie di rapporti. Tuttavia, una simile tesi non sembra considerare che il legislatore, nel configurare il “come” dell’adempimento, esplicitamente ha inteso riferirsi tanto al lavoro professionale quanto a quello casalingo, omettendo volutamente di dare rilievo alle differenze somatiche e/o strutturali che caratterizzano le due figure. Se, infatti, nel lavoro professionale, naturaliter orientato alla produzione di reddito, la patrimonialità investe l’utilità del prodotto del rapporto obbligatorio, in quello casalingo, viceversa, venendo in considerazione al più un risparmio di spesa, l’elemento patrimoniale é in funzione non già della qualificazione del rapporto bensì quale momento della sua lesione. Tanto afferma la giurisprudenza quando riconosce al coniuge casalingo, a seguito delle lesioni da lui subite per sinistri stradali, oltre al danno alla salute (danno biologico) altresì quello patrimoniale (sotto il profilo del danno emergente) conseguente alla diminuzione della capacità lavorativa. In altre parole, la patrimonialità non investe l’utilità connessa (tramite la prestazione) all’obbligo del soggetto debitore ma ne costituisce un derivato, una qualifica necessaria per il prodursi dell’obbligazione risarcitoria. Risulta difficile, allora, ritenere che una simile forma di lavoro possa integrarsi nel(l’obbligo di) mantenimento (rectius: assistenza materiale) quando la stessa è per sua natura incapace di generare un reddito. L’adesione ad una simile tesi pone così l’interprete di fronte alla seguente alternativa: negare valore alla lettera della legge ritenendo che il legislatore abbia errato nel parificare, ai fini dell’effetto, il mantenimento al lavoro casalingo; tentare un’interpretazione rispettosa del dato positivo, domandandosi se all’espressione “obbligazione” non sia in realtà possibile ascrivere, non già un diverso significato, quanto una diversa funzione. Una funzione, in altre parole, che è più facile comprendere quando si richiama alla mente un procedimento logico che risponde al nome di connessione. La connessione, più in particolare, è un istituto (solo incidentalmente studiato in quanto non strettamente inerente al lavoro) soventemente utilizzato dal legislatore per legare fra loro due (o più) elementi di una fattispecie per il conseguimento di un dato risultato senza privarle, al contempo, della loro autonomia in relazione a diversi effetti. E’ un fenomeno di frequente applicazione nel sistema; volendo esemplificare si pensi a: le disposizioni contemplate nel Libro I, Titolo I, Capo I, Sezione IV del codice di rito (cfr.: artt. 31-36 c.p.c.) relative alle modificazioni della competenza per ragioni di connessione; l’art. 81 del c.p. in tema di reato continuato; l’ipotesi in cui una parte stipuli più contratti di assicurazione presso diversi assicuratori per assicurarsi nei confronti di un medesimo sinistro (art. 1910 c.c.). Come si vede, nelle tre ipotesi precedentemente richiamate, i fatti costitutivi di un data fattispecie sono presi in considerazione per un diverso effetto da un’altra fattispecie (nell’ordinamento processuale, la causa accessoria segue, se la parte intende avvalersene, la causa principale; nell’ordinamento penale, più ipotesi di reato sono unificate ai fini della pena; plurimi contratti di assicurazione sono in relazione d’indifferenza l’uno con l’altro – tanto che uno può essere invalido senza che il vizio si trasmetta agli altri – sebbene le fattispecie siano unificate fra loro in vista dell’effetto idoneo a determinare una soglia al quantum che il debitore, in caso di sinistro, è tenuto a pagare) senza perdere la loro rilevanza in relazione a diverse finalità. Avvalendosi di una simile lettura, non è sembrato implausibile ritenere che il legislatore, con l’espressione “obbligazione prevista dalla norma precedente” (art. 148 c.c.) in cui sostanzia tanto il lavoro professionale quanto quello casalingo, ha inteso connettere i tre obblighi ad una comune disciplina, quella del rapporto obbligatorio, facendo seguire al loro inadempimento una forma di responsabilità contrattuale. Una volta chiarito che l’espressione contemplata nell’art. 143, II, c.c. (“assistenza materiale”), analogamente al mantenimento di cui al 147 c.c., è in realtà sinonimo di obbligazione, come una parte della dottrina d’altronde ritiene, si pone all’interprete un nuovo problema: fino a che punto, infatti, è possibile richiamare la disciplina sottesa all’inadempimento senza violare la specialità del diritto di famiglia? Allo studioso viene così demandato il delicato compito di “conformare” la struttura obbligatoria tenendo in debita considerazione i principi sottesi al Libro I: un problema di non poco spessore se è vero che l’attività interpretativa incontra, specie sotto questo aspetto, limiti particolarmente stringenti. Il fenomeno è stato indagato analizzando due profilo: l’uno, relativo all’aspetto estrinseco della struttura obbligatoria (vale a dire: compatibilità delle posizioni giuridiche familiari con le caratteristiche dell’obbligo e del credito); l’altro, all’opposto, inerente la “conformazione” delle logiche sottese alla realtà contrattuale da parte del microuniverso familiare. Sotto un profilo rigorosamente strutturale si è osservato che le situazioni giuridiche soggettive intorno alle quali gravita il vinculum iuris non pongono problemi di significativa rilevanza quando sono “calate” nel contesto familiare: l’obbligo, al pari del credito (si pensi al credito alimentare), sarà incedibile (perché connesso allo status di coniuge) e dunque privo della facoltà di disposizione (relativamente alla pretesa; infra) Qualche difficoltà sorge invece quando si passa ad analizzare il secondo piano: anche il buon senso, d’altronde, suggerisce che il coniuge non possa essere parificato ad un comune debitore. La chiave di volta che risolve il problema sembra annidarsi in un principio che, mutuato dalla disciplina penalistica, prende il nome di “principio di offensività” (avallato anche da alcuni recenti interventi della Suprema Corte, da un lato, e del Giudice delle leggi, dall’altro). Più in particolare, postulando che la lesione dell’interesse familiare è subordinata ad un’offesa significativa – qualificata dal principio di solidarietà familiare (artt. 2 – 29 Cost) e ammessa dalla giurisprudenza a Sezioni Unite – risulta possibile differenziare i criteri che regolano l’inadempimento dell’obbligazione coniugale da quelli che operano nell’ambito di un normale rapporto debito – credito. Una volta dimostrato che l’obbligazione, e conseguentemente la responsabilità contrattuale, può ben operare nell’ambito delle relazioni coniugali, l’indagine (Cap. I. Sez. IV, § 4.1) ha inteso passare in rassegna le varie motivazioni che la dottrina ha valorizzato per negare ingresso al modello di cui agli artt. 1218 e ss. c.c. nell’ambito degli obblighi personali. In effetti, la ricerca ha rilevato che le obiezioni mosse a questo modello non sono poi così numerose come potrebbe prima facie sembrare. Le più rilevanti, infatti, si avvalgono delle seguenti argomentazioni: la prima (Cap. I. Sez. IV, § 4.2) fa leva sul rapporto di specialità fra separazione e addebito (oggi venuto meno) e muove dall’impossibilità d’individuare nella relazione familiari a rilevanza personale una prestazione patrimonialmente valutabile (obiezione, questa, particolarmente consistente); (Cap. I. Sez. IV, § 4.3) la seconda, viceversa, ritiene che la diretta incidenza della persona nel vinculum familiare impedisca, per ciò solo, il ricorso alle logiche obbligatorie; la terza, infine, (Cap. I. Sez. IV, § 4.4) muove dal presupposto che il matrimonio non sia un contratto e, conseguentemente, nega che dalla violazione di un obbligo coniugale possa sorgere una responsabilità contrattuale. In realtà, l’unica obiezione che sembra porsi a presidio della responsabilità aquiliana è solamente la prima: vale a dire, quella che identifica nella prestazione il comportamento del coniuge (lato sensu: debitore). Questa tesi, tuttavia, muove da una premessa ben specifica: essa presuppone l’adesione alla c.d. teoria personalistica del rapporto obbligatorio e, conseguentemente, della responsabilità contrattuale. In altre parole, in questa linea di pensiero si annida il convincimento che l’oggetto del (diritto di) credito non sia il bene dovuto ovvero, per dirla con Hartmann, l’utilità sottesa al rapporto, bensì il comportamento del debitore identificato nella “prestazione” la quale, in ossequio al disposto dell’art. 1174 c.c., deve assumere rilievo patrimoniale. Sorge così il vero problema che l’indagine si trova a dover affrontare: volendo applicare il modello contrattuale agli obblighi di natura personale si deve previamente dimostrare che la prestazione non è il comportamento del debitore. Ma un simile risultato può essere perseguito a patto di passare in rassegna le più importanti tesi elaborate dalla dogmatica negli anni 50. Da considerare, come si evince dagli stessi lavori preparatori al codice, che lo stesso compilatore espressamente avvertì che era compito della dottrina definire l’obbligazione e compito del legislatore provvedere alla sua disciplina. Il capitolo secondo ha così inteso indagare funditus la struttura del rapporto obbligatorio analizzando, uno per uno, i presupposti strutturali dell’obbligatio. Relativamente all’oggetto dell’obbligo (Cap. II. Sez. I, § 1.1) e aderendo alle coordinate proposte da un’autorevole dottrina, si è condivisa la tesi che lo identifica nel comportamento del debitore; l’oggetto del credito, invece, è stato individuato (non già nel comportamento ma) nell’utilità sottesa al contegno debitorio. La conclusione è particolarmente interessante costituendo il primo (ma fondamentale) passo che consente di scindere il comportamento dalla prestazione. L’impostazione risente in qualche misura della concezione patrimonialista del rapporto obbligatorio, maggiormente persuasiva (ancorché con taluni contemperamenti) rispetto a quella personalistica, e trova un saldo referente testuale sia nella norma sull’adempimento del terzo. Come si è osservato, l’adesione al modello personalistico pone l’interprete al seguente dilemma: “o si comprende nel contenuto dell’obbligazione qualunque attività idonea a raggiungere il risultato, non solo l’attività del debitore ma anche l’attività di terzi, e ciò è assurdo; oppure, limitando il riferimento del diritto di credito al comportamento del debitore, [si] rinuncia […] a spiegare l’istituto dell’adempimento del terzo alla stregua del concetto di obbligazione e ciò è dogmaticamente arbitrario”. Altro referente normativo è costituito, come si diceva, dalla disciplina dettata in tema di mora del creditore (artt. 1206 e ss. c.c.): se nella mora ex latere creditoris, l’offerta formale presuppone necessariamente la possibilità di adempimento e il risultato viene a mancare (non già in virtù dell’impossibilità sopravvenuta ma) per il contegno del creditore allora ne consegue che l’utilità ipostatizzata nel rapporto non può realizzarsi. Non sorgendo in capo all’obbligato alcuna responsabilità, si può inferire che il risultato cui tende l’obbligazione esula dal comportamento dell’obbligato. Perché insistere su questi aspetti così (apparentemente) inutili e lontani da una tesi che si propone di studiare il modello di responsabilità di un obbligo familiare? Se quanto precede è vero, allora è possibile escludere interferenze fra obbligo e credito, pervenendo ad una soluzione diametralmente opposto alla concezione personalistica del rapporto obbligatorio per la quale l’obbligo è, invece, il comportamento debitorio (a sua volta compendiato nell’oggetto del credito il quale, a sua volta, viene identificato nella prestazione). Nel modello da noi proposto, invece, credito e obbligo “viaggiano” per così dire su binari paralleli ma distinti. Per una maggiore chiarezza del ragionamento sin qui esposto, si omette di accennare al § 1.2, (Cap. II. Sez. I, § 1.2, p. 76), e si perviene immediatamente alle implicazioni sottese alle precedenti conclusioni. (Cap. II. Sez. I, § 1.3) Si è già detto della non interferenza fra obbligo e credito: si è poi ricordato che secondo la concezione personalistica l’oggetto del credito è la prestazione (ossia il comportamento). Si supponga, allora, la stipulazione di una clausola penale nell’ipotesi in cui un coniugi violi, ad esempio, il suo obbligo di fedeltà e si valuti come risponde il modello personalistico. Posto che la penale è fonte di obbligazione (1173 – 1382 c.c.), la prestazione è patrimoniale secondo quanto disposto dall’art. 1174 c.c. Ma in questo modello, la prestazione è l’oggetto del credito il quale, a sua volta, è il comportamento del coniuge. A questo punto, l’obbligo di fedeltà acquista i connotati della patrimonialità (clausola penale) e della non patrimonialità (atto matrimoniale) in considerazione della fonte che lo regola. La conclusione sembra scontata e forse anche perentoria: la tesi non convince. In tal modo crediamo di aver posto in essere il difetto più significativo dell’impostazione personalistica: legando il momento patrimoniale al comportamento senza scinderlo dall’utilità, si viene a determinare una conseguente attrazione della qualifica patrimoniale all’oggetto dell’obbligo, con le conseguenze poc’anzi osservate. Viceversa, quando si dimostra che il risultato non è compendiato nel comportamento (essendone sì collegato ma concettualmente distinto da quello) il problema non ha più ragione di porsi: anzi, emerge invece il vantaggio di restituire alla prestazione una sua autonomia oltre che propria, specifica, funzione. Conviene allora domandarsi quale sia la chiave di volta che consente di legare fra loro due situazioni giuridiche (credito e obbligo) per le quali non sembrerebbero esistere alcuna reciproca interferenza. Quale è, in altre parole, la premessa che consente di legare fra loro queste due situazioni? La risposta si annida nella natura necessariamente relazionale dell’obbligazione: ob ligatio. Di seguito, si elencano i passaggi logici che hanno consentito allo scrivente di proporre una diversa definizione di prestazione. Si è già detto che (1) il risultato da realizzare costituisce un elemento non compendiabile (e, dunque, ad esso estraneo) al contegno del debitore; per contro, abbiamo ritenuto corretto (2) ravvisare l’oggetto del credito nell’utilità (da realizzare) sottesa al vinculum iuris. (3) Si è, infine, negato che fenomeni di interferenza fra le due situazioni giuridiche possano ravvisarsi sul piano dei rispettivi oggetti delle figure giuridiche o, ancora, sul piano dei rispettivi contenuti (nel senso di sussumere il contenuto della prima posizione nell’altra). Se non che, (4) l’obligatio, almeno stando alla sua originaria fonte, in quanto iuris vinculum quo necessitatis astringimur alicuius solvendae rei, è, e rimane, elemento normativo di relazione fra due situazioni. La prestazione, allora, diventa l’unico elemento nell’ambito del quale è possibile registrare la convergenza e l’interferenza delle due predette situazioni: essa, infatti, può definirsi come quell’entità (logica) che l’ordinamento utilizza al fine di delineare un nesso che, ponendo in relazione il contegno al risultato e così legando il factum debitoris all’utilitas facti (piano orizzontale), predispone e definisce il parametro cui rapportare (il contegno e valutare così) l’esatta realizzazione dell’interesse ipostatizzato nel rapporto (piano verticale). Così definita, la prestazione diventa un’entità logica normativa completamente separata dal contegno dell’obbligato e consente di attrarre nell’obbligo anche il comportamento del coniuge. Non solo: il contegno del coniuge, aderendo a queste coordinate interpretative, rimane completamente svincolato dal problema della patrimonialità della prestazione. E ad un simile risultato non sarebbe stato possibile pervenire se lo scrivente non si fosse attardato sull’analisi dei testi – di tutt’altro che agevole lettura in verità – della dogmatica degli anni 50- 60’. Una volta definita la prestazione nel seguente modo, l’indagine ha avviato una riflessione (Cap. II. Sez. I, § 1.4, p. 81) sulle implicazioni ad essa sottese quando si passano al vaglio critico gli orientamenti dottrinali avanzati in tema dei criteri che governano la responsabilità contrattuale. Il passo logicamente successivo si è tradotto (Cap. II. Sez. I, §§ 1.5) nello stabilire il significato da ascrivere all’espressione “suscettibilità di valutazione economica”. Anche qui, si è ritenuto utile avviare la riflessione adottando una prospettiva storica (dal secondo dopo guerra ad oggi) e cercando di individuare le cause che la dottrina aveva individuato per negare il risarcimento di interessi non patrimoniali dedotti in obligatione. La nostra ricerca ha evidenziato che l’impossibilità di risarcire interessi non patrimoniali veniva giustificata dalla dottrina dell’epoca non già richiamando (presunti) limiti strutturali intrinseci al rapporto obbligatorio bensì rilevando l’incoerenza di un sistema il quale non poteva contemplare, allo stesso tempo, limiti stringenti per l’illecito aquilano e non prevederne alcuno per quello contrattuale. Venuta meno una simile barriera ad opera di una recente pronuncia a Sezioni Unite della Corte (ma già prima: Cass. S.U. 6582\2006), l’indagine si è fatta carico di fornire una possibile risposta a cosa debba intendersi con l’espressione “suscettibilità di valutazione economica”. A tal proposito, abbiamo ritenuto opportuno premettere (Cap. II. Sez. I, §§ 1.6,) che una simile qualifica può essere correttamente intesa quando l’interprete analizza le modalità di produzione di un effetto proprio delle norme che ineriscono a modelli di responsabilità. Si pensi, esemplificando, al bene salute il quale, limitandoci ad evidenziare le sue caratteristiche più rilevanti, gode delle note qualifiche dell’indisponibilità, imprescrittibilità, irrinunciabilità e intrasmissibilità. Ebbene, una volta leso, il suo prodotto (l’obbligazione risarcitoria) è un qualcosa di estremamente diverso dall’interesse originario e costituendone un quid novi è governato da regole e princìpi niente affatto analoghi in quanto disponibile, prescrittibile, rinunciabile, trasmissibile. Come si vede, l’equazione interesse (o utilità) – danno è concepita dal legislatore in modo da risultare insensibile alla tipologia di utilità considerata: ciò consente di affermare che, ai fini della responsabilità, è del tutto irrilevante la natura dell’interesse leso. E in tal modo, un’altra tessera del mosaico si aggiunge alla possibilità di concepire una responsabilità contrattuale per lesioni familiare dato che la persona, in quello specifico rapporto, è intimamente implicata. In realtà, se si ammette che l’interesse è in presa diretta con le norme sul risarcimento del danno (e non è da queste condizionato eccezion fatta per le modalità di liquidazione del quantum debeatur – art. 1226 c.c.), si può arrivare a sostenere che l’espressione “suscettibilità di valutazione economica” altro non sottintende se non un criterio guida che, innestandosi nel processo di trasmutazione, consente di valutare la rilevanza di pregiudizi che l’ordinamento giuridico, in un dato momento e/o in un dato contesto giuridico, individua come meritevoli di tutela a fini risarcitori. Un’applicazione pratica può ravvisarsi proprio nell’ipotesi del contratto con effetti protettivi nei confronti di terzi. Il lavoro, poi, si è fatto carico di replicare a talune obiezioni avanzate da alcuni Autori. Secondo una linea di pensiero, infatti, esisterebbero talune ipotesi in cui verrebbe meno quella relazione fra interesse e danno da noi postulata. Si richiama, in tal senso, l’ipotesi dell’inadempimento di alcuni musicisti ingaggiati per suonare ad una festa: la lesione dell’interesse, si afferma, non darebbe luogo in questa fattispecie ad alcun pregiudizio risarcibile. Si è però ribattuto che sottesa all’ipotesi de qua giace l’adesione alla nota teorica della Differenztheorie elaborata da (F.) Momnsen secondo cui il danno patrimoniale sussiste quando, calcolata la somma dei valori economici che avrebbero formato il patrimonio del soggetto se l’inadempimento non si fosse verificato e la somma risultante a seguito di tale illecito, la differenza algebrica fra le due somme è negativa. Ma l’oggetto (cioè: entità patrimoniali) della tesi ne segna anche il limite ultimo di operatività non potendo trovare applicazione per utilità non patrimoniali le quali, peraltro, non rientrano nell’oggetto dell’obbligo e dunque non sono dedotte nello fattispecie negoziale ipotizzata dall’A. Individuati e ricostruiti gli elementi fondamentali del rapporto obbligatorio, la tesi ha indagato il fenomeno dell’obbligazione senza prestazione (Cap. II. Sez. II, § 2.). Dopo aver brevemente ricostruito il fenomeno della responsabilità precontrattuale (Cap. II. Sez. II, § 2.1) – il quale costituisce il punto di partenza che fonda la premessa per costruzione dogmatica della tesi da ultimo ricordata – il lavoro ha esternato alcune considerazioni critiche sulla teorica dell’obbligazione senza prestazione, prendendone le distanze (Cap. II. Sez. II, § 2.2). Ricostruita in questi termini la questione, e dopo aver dimostrato che la prestazione (a) non è il comportamento del debitore e che (b) vi è insensibilità fra interesse e danno, l’indagine (Cap. III. Sez. I, § 1.1.) è ritornata sul tema che si era proposto di studiare qualificando gli obblighi personali, sia pur con quell’innegabile specificità (più volte ribadita nel corso dell’intero lavoro) propria del diritto familiare, come obbligazioni con prestazioni apatrimoniali. Analogo iter metodologico (Cap. III. Sez. I, § 1.2) è stato proposto per il credito familiare (dove, in considerazione della totale assenza di contributi sul tema, l’analisi della dogmatica condotta nel capitolo precedente ha costituito un bagaglio culturale fondamentale per individuare i tratti comuni e differenziali). Infine (Cap. III. Sez. I, § 1.3), abbiamo rassegnato le nostre conclusioni ritenendo che per la lesione di obblighi a rilevanza personale e patrimoniale è il sistema contrattuale a doversi richiamare. Una conclusione che si pone all’esito di un percorso, crediamo, il più possibile coerente nell’intera trama concettuale del lavoro e che certamente, al di là delle perplessità che pure si possono esternare (e, auspichiamo, saranno esternate), rappresenta comunque un’impostazione originale del problemaFile | Dimensione | Formato | |
---|---|---|---|
Tesi.pdf
embargo fino al 26/11/2049
Tipologia:
Altro materiale allegato
Dimensione
2.06 MB
Formato
Adobe PDF
|
2.06 MB | Adobe PDF |
I documenti in UNITESI sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.
https://hdl.handle.net/20.500.14242/154910
URN:NBN:IT:UNIPI-154910