L’ultima Riforma del processo civile (D. lgs n. 149/2022) ha (re)introdotto un istituto che, nel corso delle varie riforme processuali, ha conosciuto un percorso travagliato: il tentativo di conciliazione obbligatorio. La conciliazione giudiziale rappresenta una modalità di risoluzione della controversia che si svolge nel corso del processo, mediante l’intervento del giudice, al fine di giungere ad una soluzione amichevole della lite civile. Questo istituto ha assunto, diversamente dalle precedenti regolamentazioni, una sua propria e distinta connotazione se si considera che interviene in un momento del processo in cui la materia del contendere è stata già fissata, per effetto del nuovo regime delle preclusioni assertive e istruttorie, antecedenti la prima udienza di comparizione personale delle parti. La previsione di un intervento, obbligatorio, del giudice in funzione conciliativa, con la rinnovata struttura del processo ordinario di cognizione, richiede ulteriori riflessioni sull’istituto de quo. Appare, pertanto, attuale il dibattito sulla natura stessa della conciliazione giudiziale, la quale, sebbene conduca ad un esito diverso rispetto a quello tradizionale del processo, id est la sentenza, conserva nondimeno un’efficacia giurisdizionale, che ha consentito di ascriverla nella categoria dei cosiddetti equivalenti giurisdizionali. Questa categorizzazione, lungi da rappresentare un mero esercizio classificatorio, comporta degli effetti sulla natura processuale dell’istituto e sul suo rapporto con la funzione giurisdizionale. In particolare, questo lavoro si propone di sostenere la tesi per cui la conciliazione giudiziale non rappresenta una transazione, una rinuncia all’azione o un riconoscimento del diritto che si verifica nel corso del processo; al contrario, si configura come un autonomo istituto del processo. Essa tende, infatti, ad una risoluzione della lite per mezzo di un iter che assicura il rispetto delle garanzie costituzionali del giusto processo. Il giudice, investito di una speciale forma di giurisdizione, quella conciliativa, ha il compito di favorire una risoluzione giusta, raggiunta a mezzo di valutazioni di diritto o d’equità. La natura processuale della conciliazione e le caratteristiche della giurisdizione conciliativa si rivelano così funzionali a osservare le conseguenze dell’istituto, nella nuova veste assunta, sul processo. La prima conseguenza è di natura propriamente dogmatica, riguardando il componimento come scopo. L’evoluzione della funzione giurisdizionale, affiancata da una più generale evoluzione legislativa dei mezzi di risoluzione alternativa alla controversia, (ri)porta l’attenzione sull’analisi dello/degli scopo/i del processo. La possibilità che il processo contenzioso si concluda con un accordo tra le parti, stimolato e diretto da un giudice, anziché con una sentenza, implica un interesse dello Stato nella preservazione della pace tra i consociati, distinto dall’originario intento della funzione giurisdizionale di attuazione del diritto. Il processo, dunque, tende (anche) ad un componimento della lite ma non un componimento qualsiasi che le parti potrebbero raggiungere extra litem, bensì un componimento giusto. La seconda conseguenza è di tipo sistematico ed effettuale. Essa attiene ai riflessi che il componimento come istituto può avere sul procedimento ordinario di cognizione con riguardo, in particolare, alla fase introduttiva, di trattazione e decisoria. Questi riflessi aprono infatti la via alla fenomenologia della conciliazione, consentendo la disamina di problemi che l’istituto pone in relazione ad alcuni aspetti di diritto e sostanziale, e processuale. L’indagine è così arricchita di alcune riflessioni di natura comparatistica, in particolare con il processo americano, in cui il settlement rappresenta ormai un esito pressoché naturale del processo, a seguito di una lunga trasformazione della fase del pretrial, ormai dominante.

Il componimento della lite civile. Tra autonomia privata e giurisdizione.

CIRILLO, STEFANIA
2024

Abstract

L’ultima Riforma del processo civile (D. lgs n. 149/2022) ha (re)introdotto un istituto che, nel corso delle varie riforme processuali, ha conosciuto un percorso travagliato: il tentativo di conciliazione obbligatorio. La conciliazione giudiziale rappresenta una modalità di risoluzione della controversia che si svolge nel corso del processo, mediante l’intervento del giudice, al fine di giungere ad una soluzione amichevole della lite civile. Questo istituto ha assunto, diversamente dalle precedenti regolamentazioni, una sua propria e distinta connotazione se si considera che interviene in un momento del processo in cui la materia del contendere è stata già fissata, per effetto del nuovo regime delle preclusioni assertive e istruttorie, antecedenti la prima udienza di comparizione personale delle parti. La previsione di un intervento, obbligatorio, del giudice in funzione conciliativa, con la rinnovata struttura del processo ordinario di cognizione, richiede ulteriori riflessioni sull’istituto de quo. Appare, pertanto, attuale il dibattito sulla natura stessa della conciliazione giudiziale, la quale, sebbene conduca ad un esito diverso rispetto a quello tradizionale del processo, id est la sentenza, conserva nondimeno un’efficacia giurisdizionale, che ha consentito di ascriverla nella categoria dei cosiddetti equivalenti giurisdizionali. Questa categorizzazione, lungi da rappresentare un mero esercizio classificatorio, comporta degli effetti sulla natura processuale dell’istituto e sul suo rapporto con la funzione giurisdizionale. In particolare, questo lavoro si propone di sostenere la tesi per cui la conciliazione giudiziale non rappresenta una transazione, una rinuncia all’azione o un riconoscimento del diritto che si verifica nel corso del processo; al contrario, si configura come un autonomo istituto del processo. Essa tende, infatti, ad una risoluzione della lite per mezzo di un iter che assicura il rispetto delle garanzie costituzionali del giusto processo. Il giudice, investito di una speciale forma di giurisdizione, quella conciliativa, ha il compito di favorire una risoluzione giusta, raggiunta a mezzo di valutazioni di diritto o d’equità. La natura processuale della conciliazione e le caratteristiche della giurisdizione conciliativa si rivelano così funzionali a osservare le conseguenze dell’istituto, nella nuova veste assunta, sul processo. La prima conseguenza è di natura propriamente dogmatica, riguardando il componimento come scopo. L’evoluzione della funzione giurisdizionale, affiancata da una più generale evoluzione legislativa dei mezzi di risoluzione alternativa alla controversia, (ri)porta l’attenzione sull’analisi dello/degli scopo/i del processo. La possibilità che il processo contenzioso si concluda con un accordo tra le parti, stimolato e diretto da un giudice, anziché con una sentenza, implica un interesse dello Stato nella preservazione della pace tra i consociati, distinto dall’originario intento della funzione giurisdizionale di attuazione del diritto. Il processo, dunque, tende (anche) ad un componimento della lite ma non un componimento qualsiasi che le parti potrebbero raggiungere extra litem, bensì un componimento giusto. La seconda conseguenza è di tipo sistematico ed effettuale. Essa attiene ai riflessi che il componimento come istituto può avere sul procedimento ordinario di cognizione con riguardo, in particolare, alla fase introduttiva, di trattazione e decisoria. Questi riflessi aprono infatti la via alla fenomenologia della conciliazione, consentendo la disamina di problemi che l’istituto pone in relazione ad alcuni aspetti di diritto e sostanziale, e processuale. L’indagine è così arricchita di alcune riflessioni di natura comparatistica, in particolare con il processo americano, in cui il settlement rappresenta ormai un esito pressoché naturale del processo, a seguito di una lunga trasformazione della fase del pretrial, ormai dominante.
18-giu-2024
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Il codice NBN di questa tesi è URN:NBN:IT:UNIBOCCONI-157281