Questa tesi nasce come un tentativo teoretico di rispondere a una provocazione di Cioran, per il quale «l’utopia è il grottesco in rosa». In questa sentenza, l’utopia viene definita attraverso un ossimoro che ne evidenzia gli aspetti ridicoli, come se Cioran stesse semplicemente proponendo una parodia del pensiero utopico. Scopo della tesi è mostrare il carattere dialettico di questa parodia, attraverso la quale viene diagnosticata una delle ambivalenze costitutive della coscienza utopica: la tensione antropologica verso l’idea di un bene futuro e ipotetico, a dispetto di un presente contrassegnato dalle stimmate del male. Al riguardo l’utopia risulta essere una caricatura doppiamente paradossale della storia umana perché il suo aspetto grottesco, e dunque ridicolmente mostruoso, è determinato non da un’eccessiva presenza del male, ma da una claustrofobica onnipresenza del bene. Nella letteratura critica degli ultimi anni, la posizione anti-utopica di Cioran è stata giustamente collegata sia alla sua postura scettica che al suo stile paradossale, uno stile capace di smascherare tanto le illusioni metafisiche quanto le contraffazioni ideologiche. Da questa prospettiva il «grottesco» è stato spesso considerato come un aggettivo, che connota esteticamente le paradossali conclusioni a cui giunge Cioran rispetto alla storia; tuttavia, non è stato quasi mai considerato in quanto concetto, capace di orientare teoreticamente i presupposti del pensiero cioraniano. Per questa ragione, nella parte introduttiva della tesi, propongo una dettagliata analisi storica del concetto di grottesco, per mostrare successivamente i rapporti che il simbolismo del grottesco instaura, da un lato, con l’arte ornamentale delle grottesche rinascimentali, dall’altro, con l’immaginario utopico del mondo alla rovescia. I punti di riferimento dell’indagine saranno gli studi novecenteschi di Wolfgang Kayser, Michail Bachtin e Geoffrey Harpham. Questi autori, in modi diversi, hanno mostrato che il grottesco, per quanto sia una categoria concettualmente ambivalente, attiene a tre particolari ambiti della discussione filosofica: a) l’antropologia, nella misura in cui i corpi fantasiosi e anatomicamente impossibili del bestiario grottesco impongo una riconfigurazione del rapporto tra uomo e animale e del rapporto tra mito e storia; b) l’arte, nella misura in cui questa riconfigurazione implica un capovolgimento gerarchico delle relazioni tra forma e contenuto, centro e margini, armonia e disarmonia; c) la poesia, nella misura in cui le «trasfigurazioni» (talvolta fantasiose, talvolta demoniache) delle figure grottesche e delle decorazioni arabesche hanno rappresentato, soprattutto per il Romanticismo ottocentesco, un rapporto tragico e drammatico con la sfera del «sublime». Tutti questi ambiti si relazionano, a loro volta, con il simbolo utopico-carnevalesco della maschera grottesca, che svolge la funzione di sovvertire simbolicamente e comicamente una realtà che deve cambiare, perché troppo contraddittoria e irrazionale per permanere nello stato attuale. Per Cioran, viceversa, la realtà può cambiare solo verso il peggio, ragion per cui egli rinnega le elucubrazioni utopiche di un mondo perfettibile. Ma la sua condanna non è univoca e, soprattutto, non si traduce in un’accettazione passiva della condizione presente: egli rifiuta questo mondo, proprio perché questo mondo è troppo assurdo e deforme per essere accettabile. La sua critica all’utopia, dunque, è una posizione molto complessa, nella quale sono rintracciabili i diversi elementi del simbolismo grottesco che abbiamo precedentemente elencato. Nelle sue opere Cioran tratteggia una feroce «anatomia» della storia umana, che si converte spesso in una disillusa e malinconica «nostalgia dell’altrove», come se l’utopia si traducesse non tanto in una «speranza» rivolta al futuro, quanto in un «rimpianto» di ciò che l’uomo avrebbe potuto essere. In questo frangente, il grottesco offre una chiave di lettura originale per interpretare l’evoluzione del pensiero cioraniano dal periodo giovanile rumeno a quello francese della maturità. In un confronto serrato con i testi si mette in risalto che il giovane Cioran, di fronte al grottesco della storia – lucidamente diagnosticato già in diversi articoli degli anni Trenta – reagisce «romanticamente», affidandosi all’ideale sublime, tragico e folle della trasfigurazione. Arrivato a Parigi, e in seguito al fallimento di quella trasfigurazione, egli mette in scena una sorta di «parodia» metafisica delle sue illusioni romantiche, arrivando a celebrare, nel Précis de décomposition, «l’orrore testicolare del ridicolo di essere uomini». Questo terrore si proietterà nelle sue confutazioni dell’utopia, che egli definisce come il tentativo tragicomico «di rifare l’Eden con i mezzi della caduta, per permettere così al nuovo Adamo di conoscere i vantaggi dell’antico». Tutta questa serie di ossimori, attraverso cui Cioran delimita l’orizzonte delle utopie, sono pienamente comprensibili soltanto se inseriti nel contesto simbolico del grottesco. È ciò che è stato fatto nei quattro capitoli della tesi, grazie a uno studio minuzioso di alcune metafore del grottesco che si presentano ripetutamente nei testi cioraniani e che sono strettamente connesse al discorso utopico: la caverna, il troglodita, la prigione trasparente, il corpo squartato, il cannibale, il licantropo, l’ombra, il buffone. Nel primo capitolo ci si focalizza sulle declinazioni antropologiche della metafora della caverna e del troglodita, immagini che si richiamano sia alla condizione “paradisiaca” dell’uomo primitivo, che viveva in unisono con la natura, sia al fallimento “apocalittico” dell’uomo civile, che procede verso la catastrofe. Cioran, rielaborando in modo originale alcune riflessioni sulla città e sul riso di Simmel e di Bergson, definisce l’uomo come un «architetto delle caverne», che subisce, nel perimento moderno di una metropoli, lo stesso sentimento di angoscia esistenziale e claustrofobica che i suoi antenati dovevano aver provato nelle preistoriche spelonche. In un secondo momento, l’analisi si sposta sul versante mitologico, poiché la caverna non è soltanto la dimora del troglodita, ma anche la prigione di Saturno. E Saturno, oltre ad essere il dio del carnevale, è anche il pianeta sotto il cui segno nascono i malinconici. Attraverso un confronto con Marsilio Ficino, che aveva fatto di Saturno il patrono della sapienza filosofica, si mostra in che modo il culto dei Romantici per il genio malinconico sia erede della tradizione metafisica rinascimentale. Questo è importante per due motivi: in primo luogo perché l’Utopia di More (come si dimostra nel secondo capitolo) ripropone in chiave narrativa una speranza filosofica di matrice «saturnina»; in secondo luogo perché Cioran parla spesso di sé come di un pensatore malinconico, profondamento influenzato dalla poesia e dalla filosofia romantica. In virtù di questo, nella parte finale del capitolo si accenna un confronto con tre pensatori romantici che hanno discusso, in modo decisivo, della malinconia, del sublime e del grottesco: Friedrich Schlegel, Victor Hugo, Théophile Gautier. Nel secondo capitolo ci si dedica, per l’appunto, al tema dell’utopia, attraverso un confronto con tre autori che sono fondamentali per comprendere l’anti-utopismo di Cioran: Thomas More, Michel de Montaigne e Jonathan Swift. Dei tre, More è senz’altro quello più distante dalle posizioni di Cioran, ma la sua Utopia, se letta da una prospettiva ontologica, rivela come siano instabili i confini tra la finzione e la realtà, tra il presente e il futuro: più precisamente, mostra che le aspettative nei confronti del futuro dipendono dalle deformazioni prospettiche del presente. Tema ripreso, in chiave grottesca e parodistica, nei Viaggi di Gulliver, in cui la contrapposizione prospettica tra i microscopici lillipuziani e i giganteschi corpi degli abitanti di Brobdignac rivela, in controluce, la miseria dell’uomo: un animale razionale incapace di accettare le proprie reali dimensioni e ridicolmente incline a credersi più grande di quel che è. Cioran si riconosce esplicitamente in questa denuncia misantropica e considera Swift «l’autore che h[a] ammirato di più». Nella bibliografia critica di Cioran, però, sono pochi i riferimenti a Swift. Si è cercato di rispondere a questa lacuna per evidenziare un aspetto che non era stato ancora notato: il carattere «fisiologico» del pensiero cioraniano non è soltanto erede della «metafisica organicistica» di Nietzsche e Schopenhauer, ma ha anche evidenti affinità con il grottesco corporeo swiftiano. A tal proposito, inoltre, ci siamo soffermati sullo scetticismo di Montaigne, che, negli Essais, fa del suo corpo il punto di convergenza dei propri dubbi verso la realtà circostante. In particolare, abbiamo esaminato il saggio Dei cannibali, in considerazione del fatto che Cioran riprenderà, in modo distopico, il tema dell’antropofagia. Nel terzo capitolo, abbiamo confrontato da un punto di vista paradigmatico la Repubblica platonica con la critica all’utopia di Cioran: se Platone aveva elaborato la sua kallipolis per indicare il modello teorico a cui attenersi per realizzare la giustizia sociale, Cioran nega “antiplatonicamente” la possibilità stessa di ottemperare al bene, come se si stesse chiedendo: Visto che ci si muove solo per fare il male, perché non si dovrebbe fare nulla? Per rispondere a questa interrogativo, cercheremo di mostrare il carattere paradossalmente “normativo” del cioraniano invito al distacco e alla rinuncia di qualsiasi tipo di azione. Il confronto tra i due autori partirà da un’attenta analisi, da un punto di vista antropologico, del mito della caverna platonica, per vedere in che senso la condizione dei prigionieri del VII libro della Repubblica si possa relazionare allo scetticismo e alla tragica «passione del reale» di Cioran. In seguito, ci focalizzeremo sul ritratto del tiranno di Platone per confrontarlo con quello proposto da Cioran nel saggio À l’école des tyrans. Per fare questo dovremmo anche misurarci con il personaggio “platonico” di Trasimaco e con quello “cioraniano” di De Maistre, nel tentativo di approfondire il rapporto che Cioran instaura tra regime rivoluzionario e pensiero reazionario, tra ideologia e utopia: o la vanità di tutte le riforme. Questo problema viene ripreso nel quarto capitolo grazie a un parallelismo tra Cioran e Salomone, tra il pensatore marginale che aspirava alla saggezza di un clochard e il saggio sovrano dell’antichità che aveva proclamato la vanità di tutte le cose. L’assoluta e disarmante lucidità delle visioni di Salomone evocano le «rivelazioni della morte» di Lev Šestov e «l’esperienza dell’abisso» di Benjamin Fondane, altri due pensatori decisivi nella formazione di Cioran, il quale, similmente a loro, era «continuamente in lotta contro la tirannia e la nullità delle evidenze». E proprio richiamandoci a Fondane, nella parte conclusiva del lavoro ci concentriamo su Baudelaire, che, nel saggio su Quelques caricaturistes français, ha qualificato il grottesco come una forma di «creazione», come un tipo di «comico assoluto» che tanto più si avvicina al sublime quanto più si confonde con una sensazione di vertigine. Riscontriamo lo stesso genere di smarrimento nell’opera di Cioran, che diceva di essersi aggirato «con molte precauzioni, […] nei paraggi delle profondità, per spillar loro qualche vertigine e poi svignarsela, come uno scroccone dell’abisso». Cioran, nella sua disarmante analisi della storia e dell’uomo, è stato anche uno scroccone dell’utopia e – agli antipodi da ogni visione statica e immutabile della realtà – non ha fatto altro che porsi in modo paradossale e umoristico la più seria e la più platonica delle domande: che cosa non dobbiamo fare per non peggiorare ulteriormente il mondo. Questa caverna della sofferenza umana.
Cioran e l'Utopia. Prospettive del grottesco
Vanini, Paolo
2017
Abstract
Questa tesi nasce come un tentativo teoretico di rispondere a una provocazione di Cioran, per il quale «l’utopia è il grottesco in rosa». In questa sentenza, l’utopia viene definita attraverso un ossimoro che ne evidenzia gli aspetti ridicoli, come se Cioran stesse semplicemente proponendo una parodia del pensiero utopico. Scopo della tesi è mostrare il carattere dialettico di questa parodia, attraverso la quale viene diagnosticata una delle ambivalenze costitutive della coscienza utopica: la tensione antropologica verso l’idea di un bene futuro e ipotetico, a dispetto di un presente contrassegnato dalle stimmate del male. Al riguardo l’utopia risulta essere una caricatura doppiamente paradossale della storia umana perché il suo aspetto grottesco, e dunque ridicolmente mostruoso, è determinato non da un’eccessiva presenza del male, ma da una claustrofobica onnipresenza del bene. Nella letteratura critica degli ultimi anni, la posizione anti-utopica di Cioran è stata giustamente collegata sia alla sua postura scettica che al suo stile paradossale, uno stile capace di smascherare tanto le illusioni metafisiche quanto le contraffazioni ideologiche. Da questa prospettiva il «grottesco» è stato spesso considerato come un aggettivo, che connota esteticamente le paradossali conclusioni a cui giunge Cioran rispetto alla storia; tuttavia, non è stato quasi mai considerato in quanto concetto, capace di orientare teoreticamente i presupposti del pensiero cioraniano. Per questa ragione, nella parte introduttiva della tesi, propongo una dettagliata analisi storica del concetto di grottesco, per mostrare successivamente i rapporti che il simbolismo del grottesco instaura, da un lato, con l’arte ornamentale delle grottesche rinascimentali, dall’altro, con l’immaginario utopico del mondo alla rovescia. I punti di riferimento dell’indagine saranno gli studi novecenteschi di Wolfgang Kayser, Michail Bachtin e Geoffrey Harpham. Questi autori, in modi diversi, hanno mostrato che il grottesco, per quanto sia una categoria concettualmente ambivalente, attiene a tre particolari ambiti della discussione filosofica: a) l’antropologia, nella misura in cui i corpi fantasiosi e anatomicamente impossibili del bestiario grottesco impongo una riconfigurazione del rapporto tra uomo e animale e del rapporto tra mito e storia; b) l’arte, nella misura in cui questa riconfigurazione implica un capovolgimento gerarchico delle relazioni tra forma e contenuto, centro e margini, armonia e disarmonia; c) la poesia, nella misura in cui le «trasfigurazioni» (talvolta fantasiose, talvolta demoniache) delle figure grottesche e delle decorazioni arabesche hanno rappresentato, soprattutto per il Romanticismo ottocentesco, un rapporto tragico e drammatico con la sfera del «sublime». Tutti questi ambiti si relazionano, a loro volta, con il simbolo utopico-carnevalesco della maschera grottesca, che svolge la funzione di sovvertire simbolicamente e comicamente una realtà che deve cambiare, perché troppo contraddittoria e irrazionale per permanere nello stato attuale. Per Cioran, viceversa, la realtà può cambiare solo verso il peggio, ragion per cui egli rinnega le elucubrazioni utopiche di un mondo perfettibile. Ma la sua condanna non è univoca e, soprattutto, non si traduce in un’accettazione passiva della condizione presente: egli rifiuta questo mondo, proprio perché questo mondo è troppo assurdo e deforme per essere accettabile. La sua critica all’utopia, dunque, è una posizione molto complessa, nella quale sono rintracciabili i diversi elementi del simbolismo grottesco che abbiamo precedentemente elencato. Nelle sue opere Cioran tratteggia una feroce «anatomia» della storia umana, che si converte spesso in una disillusa e malinconica «nostalgia dell’altrove», come se l’utopia si traducesse non tanto in una «speranza» rivolta al futuro, quanto in un «rimpianto» di ciò che l’uomo avrebbe potuto essere. In questo frangente, il grottesco offre una chiave di lettura originale per interpretare l’evoluzione del pensiero cioraniano dal periodo giovanile rumeno a quello francese della maturità. In un confronto serrato con i testi si mette in risalto che il giovane Cioran, di fronte al grottesco della storia – lucidamente diagnosticato già in diversi articoli degli anni Trenta – reagisce «romanticamente», affidandosi all’ideale sublime, tragico e folle della trasfigurazione. Arrivato a Parigi, e in seguito al fallimento di quella trasfigurazione, egli mette in scena una sorta di «parodia» metafisica delle sue illusioni romantiche, arrivando a celebrare, nel Précis de décomposition, «l’orrore testicolare del ridicolo di essere uomini». Questo terrore si proietterà nelle sue confutazioni dell’utopia, che egli definisce come il tentativo tragicomico «di rifare l’Eden con i mezzi della caduta, per permettere così al nuovo Adamo di conoscere i vantaggi dell’antico». Tutta questa serie di ossimori, attraverso cui Cioran delimita l’orizzonte delle utopie, sono pienamente comprensibili soltanto se inseriti nel contesto simbolico del grottesco. È ciò che è stato fatto nei quattro capitoli della tesi, grazie a uno studio minuzioso di alcune metafore del grottesco che si presentano ripetutamente nei testi cioraniani e che sono strettamente connesse al discorso utopico: la caverna, il troglodita, la prigione trasparente, il corpo squartato, il cannibale, il licantropo, l’ombra, il buffone. Nel primo capitolo ci si focalizza sulle declinazioni antropologiche della metafora della caverna e del troglodita, immagini che si richiamano sia alla condizione “paradisiaca” dell’uomo primitivo, che viveva in unisono con la natura, sia al fallimento “apocalittico” dell’uomo civile, che procede verso la catastrofe. Cioran, rielaborando in modo originale alcune riflessioni sulla città e sul riso di Simmel e di Bergson, definisce l’uomo come un «architetto delle caverne», che subisce, nel perimento moderno di una metropoli, lo stesso sentimento di angoscia esistenziale e claustrofobica che i suoi antenati dovevano aver provato nelle preistoriche spelonche. In un secondo momento, l’analisi si sposta sul versante mitologico, poiché la caverna non è soltanto la dimora del troglodita, ma anche la prigione di Saturno. E Saturno, oltre ad essere il dio del carnevale, è anche il pianeta sotto il cui segno nascono i malinconici. Attraverso un confronto con Marsilio Ficino, che aveva fatto di Saturno il patrono della sapienza filosofica, si mostra in che modo il culto dei Romantici per il genio malinconico sia erede della tradizione metafisica rinascimentale. Questo è importante per due motivi: in primo luogo perché l’Utopia di More (come si dimostra nel secondo capitolo) ripropone in chiave narrativa una speranza filosofica di matrice «saturnina»; in secondo luogo perché Cioran parla spesso di sé come di un pensatore malinconico, profondamento influenzato dalla poesia e dalla filosofia romantica. In virtù di questo, nella parte finale del capitolo si accenna un confronto con tre pensatori romantici che hanno discusso, in modo decisivo, della malinconia, del sublime e del grottesco: Friedrich Schlegel, Victor Hugo, Théophile Gautier. Nel secondo capitolo ci si dedica, per l’appunto, al tema dell’utopia, attraverso un confronto con tre autori che sono fondamentali per comprendere l’anti-utopismo di Cioran: Thomas More, Michel de Montaigne e Jonathan Swift. Dei tre, More è senz’altro quello più distante dalle posizioni di Cioran, ma la sua Utopia, se letta da una prospettiva ontologica, rivela come siano instabili i confini tra la finzione e la realtà, tra il presente e il futuro: più precisamente, mostra che le aspettative nei confronti del futuro dipendono dalle deformazioni prospettiche del presente. Tema ripreso, in chiave grottesca e parodistica, nei Viaggi di Gulliver, in cui la contrapposizione prospettica tra i microscopici lillipuziani e i giganteschi corpi degli abitanti di Brobdignac rivela, in controluce, la miseria dell’uomo: un animale razionale incapace di accettare le proprie reali dimensioni e ridicolmente incline a credersi più grande di quel che è. Cioran si riconosce esplicitamente in questa denuncia misantropica e considera Swift «l’autore che h[a] ammirato di più». Nella bibliografia critica di Cioran, però, sono pochi i riferimenti a Swift. Si è cercato di rispondere a questa lacuna per evidenziare un aspetto che non era stato ancora notato: il carattere «fisiologico» del pensiero cioraniano non è soltanto erede della «metafisica organicistica» di Nietzsche e Schopenhauer, ma ha anche evidenti affinità con il grottesco corporeo swiftiano. A tal proposito, inoltre, ci siamo soffermati sullo scetticismo di Montaigne, che, negli Essais, fa del suo corpo il punto di convergenza dei propri dubbi verso la realtà circostante. In particolare, abbiamo esaminato il saggio Dei cannibali, in considerazione del fatto che Cioran riprenderà, in modo distopico, il tema dell’antropofagia. Nel terzo capitolo, abbiamo confrontato da un punto di vista paradigmatico la Repubblica platonica con la critica all’utopia di Cioran: se Platone aveva elaborato la sua kallipolis per indicare il modello teorico a cui attenersi per realizzare la giustizia sociale, Cioran nega “antiplatonicamente” la possibilità stessa di ottemperare al bene, come se si stesse chiedendo: Visto che ci si muove solo per fare il male, perché non si dovrebbe fare nulla? Per rispondere a questa interrogativo, cercheremo di mostrare il carattere paradossalmente “normativo” del cioraniano invito al distacco e alla rinuncia di qualsiasi tipo di azione. Il confronto tra i due autori partirà da un’attenta analisi, da un punto di vista antropologico, del mito della caverna platonica, per vedere in che senso la condizione dei prigionieri del VII libro della Repubblica si possa relazionare allo scetticismo e alla tragica «passione del reale» di Cioran. In seguito, ci focalizzeremo sul ritratto del tiranno di Platone per confrontarlo con quello proposto da Cioran nel saggio À l’école des tyrans. Per fare questo dovremmo anche misurarci con il personaggio “platonico” di Trasimaco e con quello “cioraniano” di De Maistre, nel tentativo di approfondire il rapporto che Cioran instaura tra regime rivoluzionario e pensiero reazionario, tra ideologia e utopia: o la vanità di tutte le riforme. Questo problema viene ripreso nel quarto capitolo grazie a un parallelismo tra Cioran e Salomone, tra il pensatore marginale che aspirava alla saggezza di un clochard e il saggio sovrano dell’antichità che aveva proclamato la vanità di tutte le cose. L’assoluta e disarmante lucidità delle visioni di Salomone evocano le «rivelazioni della morte» di Lev Šestov e «l’esperienza dell’abisso» di Benjamin Fondane, altri due pensatori decisivi nella formazione di Cioran, il quale, similmente a loro, era «continuamente in lotta contro la tirannia e la nullità delle evidenze». E proprio richiamandoci a Fondane, nella parte conclusiva del lavoro ci concentriamo su Baudelaire, che, nel saggio su Quelques caricaturistes français, ha qualificato il grottesco come una forma di «creazione», come un tipo di «comico assoluto» che tanto più si avvicina al sublime quanto più si confonde con una sensazione di vertigine. Riscontriamo lo stesso genere di smarrimento nell’opera di Cioran, che diceva di essersi aggirato «con molte precauzioni, […] nei paraggi delle profondità, per spillar loro qualche vertigine e poi svignarsela, come uno scroccone dell’abisso». Cioran, nella sua disarmante analisi della storia e dell’uomo, è stato anche uno scroccone dell’utopia e – agli antipodi da ogni visione statica e immutabile della realtà – non ha fatto altro che porsi in modo paradossale e umoristico la più seria e la più platonica delle domande: che cosa non dobbiamo fare per non peggiorare ulteriormente il mondo. Questa caverna della sofferenza umana.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/177728
URN:NBN:IT:UNITN-177728