Il tema della legalità  amministrativa coinvolge da tempo i poteri affidati ai giudici nella cui cognizione rientra un atto (o comportamento) espressivo di un agere pubblicistico. Non v'ਠdubbio che la naturale sedes materiae della questione coinvolge pi๠da vicino il giudice civile o amministrativo ogni qual volta si assuma leso un diritto soggettivo. Invero fin dall'introduzione della legge sull'abolizione del contenzioso amministrativo del 1865 ha preso corpo il dibattito sulla sindacabilità  dell'atto amministrativo illegittimo con la conseguente (ed eventuale) possibilità  del giudice penale di disapplicarlo qualora rilevasse ai fini della decisione. L'approccio dogmatico iniziale ਠstato favorevole alla c.d. disapplicazione penale. Il giudice poteva neutralizzare (tamquam non esset) solo in via incidentale (per occasionem) l'atto che rilevasse ai fini della decisione. Secondo questa tesi, da molti definita †œtutta processuale†�, si †œamplificava†� il potere del giudice dal momento che non distingueva tra privazione degli effetti di un atto restrittivo o di uno ampliativo della sfera giuridica del cittadino, determinandosi, segnatamente, effetti sia in melius che in pejus nei confronti del soggetto agente. Con l'avvento della Costituzione repubblicana e le modifiche al codice di procedura penale del 1989 il tradizionale approccio dogmatico sul quale si giustificava il potere dovere di disapplicazione del giudice penale sull'atto amministrativo non risulta pi๠appagante. Gli articoli 2, 4 e 5 LAC non costituiscono pi๠gli unici referenti normativi del potere-dovere di disapplicazione. L'art. 101, co. 2 Cost. (†œI giudici sono soggetti soltanto alla legge†�) e il principio di gerarchia delle fonti costituiscono degli enunciati normativi sui quali si fonda il controllo del giudice penale sulla legalità  amministrativa, che puಠcondurre in caso di non corrispondenza (rectius: conformità ) dell'atto amministrativo allo schema †œlegale†�, alla sua disapplicazione. L'effetto per il giudice penale di decidere in disparte l'atto illegittimo consegue, dunque, al potere-dovere di controllo incidentale che il giudice penale ha rispetto alla legalità  amministrativa. A maggior riprova della correttezza di questa linea evolutiva, l'art. 2 c.p.p., affermando che †œil giudice risolve ogni questione da cui dipende la decisione†�, sancisce il pi๠ampio controllo possibile del giudice penale sulla conformità  a legge dell'azione amministrativa. In questo quadro generale, preme precisare che, ferma l'insindacabilità  del merito amministrativo, il giudice penale ਠobbligato a privare di efficacia l'atto amministrativo non conforme a legge poichà© il principio di legalità  nella giurisdizione impone all'autorità  giudiziaria lato sensu intesa di applicare gli atti della pubblica amministrazione se, e in quanto, conformi alla legge, o meglio compatibili e deducibili dalla fonte primaria attributiva e regolativa del potere della pubblica amministrazione. Una volta precisato l'an del sindacato del giudice penale sull'attività  amministrativa si ਠanalizzato, pi๠nel dettaglio, l'ambito di estensione del potere di disapplicazione. Se ਠvero che parte della dottrina seguita dalla giurisprudenza a cavallo degli †˜70 e '80, ha privato, in via generalizzata, di efficacia l'atto amministrativo illegittimo non preoccupandosi delle ricadute concrete che questa †œoperazione†� aveva sulle fattispecie incriminatrici, ਠaltrettanto vero che opinioni dottrinarie discordi hanno alimentato il dibattito contribuendo ad allineare la questione lungo binari, sଠopinabili, ma maggiormente aderenti al †œsistema†� penale. La materia del controllo della legalità  amministrativa da parte del giudice penale trova, come anticipato, un addentellato costituzionale nell'art. 101, co. 2 che impone al giudice in virt๠della sua soggezione †œsoltanto alla legge†� di neutralizzare gli effetti della determinazione amministrativa illegittima. A ben vedere tale principio, una volta riconosciuto, deve conciliarsi con i principi costituzionali che regolano la materia penale. In tale contesto il giudice penale non puಠcontrollare la legalità  amministrativa dell'atto, al fine di far uso del generale potere di disapplicazione che l'ordinamento gli assegna, quando il provvedimento concorre a descrivere il comportamento vietato (ad esempio quando l'atto amministrativo costituisca presupposto negativo della condotta); essendogli ciಠprecluso dall'esistenza nel sistema di principi costituzionali che prevalgono su tale potere-dovere, inibendone l'utilizzo. Infatti, il principio di legalità  insieme ai suoi corollari; il principio di tipicità  della fattispecie, il principio di tassatività  con il connesso divieto di interpretazione analogica, il principio di irretroattività , con l'aggiunta del carattere frammentario del sistema penale, escludono in tali ipotesi l'operatività  in concreto della verifica del giudice penale sulla legalità  amministrativa. Inoltre il principio di colpevolezza, rappresentato sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte europea dei diritti dell'uomo quale aspetto fondamentale del principio di legalità , impedisce che a seguito dell' (eventuale) utilizzo della potestà  di disapplicazione sfavorevole all'agente, possa essere punito un soggetto non rimproverabile per un fatto da lui commesso, a patto di non ledere quel generale principio di affidamento sulle conseguenze riconducibili alla violazione di una data †œrealtà †� normativo-penale. Quanto detto, perà², non deve indurre l'interprete a ritenere corretto distinguere tra disapplicazione in bonam partem sempre ammessa e disapplicazione in malam partem sempre vietata. Se ਠvero che quando la privazione degli effetti di un atto amministrativo si ripercuote (provvedimento restrittivo) a favore all'agente il giudice puಠincondizionatamente ricorrere all'istituto della disapplicazione, non ਠaltrettanto vero che quando la neutralizzazione degli effetti dell'atto si riverbera a sfavore dell'agente (provvedimento ampliativo) il giudice penale non possa disapplicare. La ricerca ha evidenziato come il generale potere-dovere di controllo del giudice penale sulla legalità  amministrativa incontri i limiti derivanti dai principi penali costituzionali. Tali principi, perà², escludono la disapplicazione in malam partem, che puಠcondurre cioਠalla condanna dell'imputato, soltanto quando l'atto contribuisce a delineare la norma incriminatrice, partecipando, o operando da presupposto, nella descrizione della condotta violativa del precetto. Difatti solo quando l'atto ਠesterno alla norma incriminatrice il giudice penale puಠdisapplicare contra reum, non ostando in questo caso i principi penali costituzionali. àˆ la collocazione dell'atto in riferimento alla norma incriminatrice che condiziona la generale potestà  di disapplicazione in pejus: se esterno alla norma puಠdisapplicarlo, in caso di illegittimità , se, al contrario, concorre a descrivere il precetto della norma il poteredovere ਠinibito dai principi penali costituzionali che, in via assiologia, prevalgono sul generale principio di legalità  nella giurisdizione. La disapplicazione in bonam partem non presenta gli stessi problemi ermeneutici. Il generale potere-dovere di disapplicazione degli atti illegittimi trova, in questo caso, completo riconoscimento. La privazione degli effetti del provvedimento restrittivo esclude la configurabilità  del reato. Si ਠavvertita, inoltre, e per concludere, dalle considerazione e dalle ricostruzioni svolte l'esigenza che nella parte generale del codice penale italiano venga introdotta una norma che regoli compiutamente i rapporti tra giudice penale ed attività  amministrativa.

Giudice penale e legalità  amministrativa

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2012

Abstract

Il tema della legalità  amministrativa coinvolge da tempo i poteri affidati ai giudici nella cui cognizione rientra un atto (o comportamento) espressivo di un agere pubblicistico. Non v'ਠdubbio che la naturale sedes materiae della questione coinvolge pi๠da vicino il giudice civile o amministrativo ogni qual volta si assuma leso un diritto soggettivo. Invero fin dall'introduzione della legge sull'abolizione del contenzioso amministrativo del 1865 ha preso corpo il dibattito sulla sindacabilità  dell'atto amministrativo illegittimo con la conseguente (ed eventuale) possibilità  del giudice penale di disapplicarlo qualora rilevasse ai fini della decisione. L'approccio dogmatico iniziale ਠstato favorevole alla c.d. disapplicazione penale. Il giudice poteva neutralizzare (tamquam non esset) solo in via incidentale (per occasionem) l'atto che rilevasse ai fini della decisione. Secondo questa tesi, da molti definita †œtutta processuale†�, si †œamplificava†� il potere del giudice dal momento che non distingueva tra privazione degli effetti di un atto restrittivo o di uno ampliativo della sfera giuridica del cittadino, determinandosi, segnatamente, effetti sia in melius che in pejus nei confronti del soggetto agente. Con l'avvento della Costituzione repubblicana e le modifiche al codice di procedura penale del 1989 il tradizionale approccio dogmatico sul quale si giustificava il potere dovere di disapplicazione del giudice penale sull'atto amministrativo non risulta pi๠appagante. Gli articoli 2, 4 e 5 LAC non costituiscono pi๠gli unici referenti normativi del potere-dovere di disapplicazione. L'art. 101, co. 2 Cost. (†œI giudici sono soggetti soltanto alla legge†�) e il principio di gerarchia delle fonti costituiscono degli enunciati normativi sui quali si fonda il controllo del giudice penale sulla legalità  amministrativa, che puಠcondurre in caso di non corrispondenza (rectius: conformità ) dell'atto amministrativo allo schema †œlegale†�, alla sua disapplicazione. L'effetto per il giudice penale di decidere in disparte l'atto illegittimo consegue, dunque, al potere-dovere di controllo incidentale che il giudice penale ha rispetto alla legalità  amministrativa. A maggior riprova della correttezza di questa linea evolutiva, l'art. 2 c.p.p., affermando che †œil giudice risolve ogni questione da cui dipende la decisione†�, sancisce il pi๠ampio controllo possibile del giudice penale sulla conformità  a legge dell'azione amministrativa. In questo quadro generale, preme precisare che, ferma l'insindacabilità  del merito amministrativo, il giudice penale ਠobbligato a privare di efficacia l'atto amministrativo non conforme a legge poichà© il principio di legalità  nella giurisdizione impone all'autorità  giudiziaria lato sensu intesa di applicare gli atti della pubblica amministrazione se, e in quanto, conformi alla legge, o meglio compatibili e deducibili dalla fonte primaria attributiva e regolativa del potere della pubblica amministrazione. Una volta precisato l'an del sindacato del giudice penale sull'attività  amministrativa si ਠanalizzato, pi๠nel dettaglio, l'ambito di estensione del potere di disapplicazione. Se ਠvero che parte della dottrina seguita dalla giurisprudenza a cavallo degli †˜70 e '80, ha privato, in via generalizzata, di efficacia l'atto amministrativo illegittimo non preoccupandosi delle ricadute concrete che questa †œoperazione†� aveva sulle fattispecie incriminatrici, ਠaltrettanto vero che opinioni dottrinarie discordi hanno alimentato il dibattito contribuendo ad allineare la questione lungo binari, sଠopinabili, ma maggiormente aderenti al †œsistema†� penale. La materia del controllo della legalità  amministrativa da parte del giudice penale trova, come anticipato, un addentellato costituzionale nell'art. 101, co. 2 che impone al giudice in virt๠della sua soggezione †œsoltanto alla legge†� di neutralizzare gli effetti della determinazione amministrativa illegittima. A ben vedere tale principio, una volta riconosciuto, deve conciliarsi con i principi costituzionali che regolano la materia penale. In tale contesto il giudice penale non puಠcontrollare la legalità  amministrativa dell'atto, al fine di far uso del generale potere di disapplicazione che l'ordinamento gli assegna, quando il provvedimento concorre a descrivere il comportamento vietato (ad esempio quando l'atto amministrativo costituisca presupposto negativo della condotta); essendogli ciಠprecluso dall'esistenza nel sistema di principi costituzionali che prevalgono su tale potere-dovere, inibendone l'utilizzo. Infatti, il principio di legalità  insieme ai suoi corollari; il principio di tipicità  della fattispecie, il principio di tassatività  con il connesso divieto di interpretazione analogica, il principio di irretroattività , con l'aggiunta del carattere frammentario del sistema penale, escludono in tali ipotesi l'operatività  in concreto della verifica del giudice penale sulla legalità  amministrativa. Inoltre il principio di colpevolezza, rappresentato sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte europea dei diritti dell'uomo quale aspetto fondamentale del principio di legalità , impedisce che a seguito dell' (eventuale) utilizzo della potestà  di disapplicazione sfavorevole all'agente, possa essere punito un soggetto non rimproverabile per un fatto da lui commesso, a patto di non ledere quel generale principio di affidamento sulle conseguenze riconducibili alla violazione di una data †œrealtà †� normativo-penale. Quanto detto, perà², non deve indurre l'interprete a ritenere corretto distinguere tra disapplicazione in bonam partem sempre ammessa e disapplicazione in malam partem sempre vietata. Se ਠvero che quando la privazione degli effetti di un atto amministrativo si ripercuote (provvedimento restrittivo) a favore all'agente il giudice puಠincondizionatamente ricorrere all'istituto della disapplicazione, non ਠaltrettanto vero che quando la neutralizzazione degli effetti dell'atto si riverbera a sfavore dell'agente (provvedimento ampliativo) il giudice penale non possa disapplicare. La ricerca ha evidenziato come il generale potere-dovere di controllo del giudice penale sulla legalità  amministrativa incontri i limiti derivanti dai principi penali costituzionali. Tali principi, perà², escludono la disapplicazione in malam partem, che puಠcondurre cioਠalla condanna dell'imputato, soltanto quando l'atto contribuisce a delineare la norma incriminatrice, partecipando, o operando da presupposto, nella descrizione della condotta violativa del precetto. Difatti solo quando l'atto ਠesterno alla norma incriminatrice il giudice penale puಠdisapplicare contra reum, non ostando in questo caso i principi penali costituzionali. àˆ la collocazione dell'atto in riferimento alla norma incriminatrice che condiziona la generale potestà  di disapplicazione in pejus: se esterno alla norma puಠdisapplicarlo, in caso di illegittimità , se, al contrario, concorre a descrivere il precetto della norma il poteredovere ਠinibito dai principi penali costituzionali che, in via assiologia, prevalgono sul generale principio di legalità  nella giurisdizione. La disapplicazione in bonam partem non presenta gli stessi problemi ermeneutici. Il generale potere-dovere di disapplicazione degli atti illegittimi trova, in questo caso, completo riconoscimento. La privazione degli effetti del provvedimento restrittivo esclude la configurabilità  del reato. Si ਠavvertita, inoltre, e per concludere, dalle considerazione e dalle ricostruzioni svolte l'esigenza che nella parte generale del codice penale italiano venga introdotta una norma che regoli compiutamente i rapporti tra giudice penale ed attività  amministrativa.
2012
it
atto amministrativo
Categorie ISI-CRUI::Scienze giuridiche::Law
disapplicazione penale
legalità 
Scienze giuridiche
Settori Disciplinari MIUR::Scienze giuridiche::DIRITTO PENALE
sindacato
Università degli Studi Roma Tre
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14242/252286
Il codice NBN di questa tesi è URN:NBN:IT:UNIROMA3-252286