La presente ricerca ha ad oggetto i vari profili di responsabilità contrattuale del socio in epoca classica, sia nei loro rapporti interni, sia nei confronti dei terzi creditori. In particolare, la prima parte della ricerca, che si apre con un primo capitolo sul tema della determinazione delle quote sociali e della partecipazione del socio agli utili e alle perdite, ha come obiettivo quello di esplorare il tema della responsabilità contrattuale dei soci, a partire dal diritto romano classico, dalla prospettiva dei loro rapporti interni, questione che da anni vede i romanisti divisi, in un’accesa disputa dottrinale, tra quanti sostengono che la responsabilità del socio fosse limitata al solo dolo, quale perfetta antitesi della bona fides implicata nel rapporto sociale, e quanti, al contrario, ritengono che già in epoca classica la colpa abbia concorso a delineare il quadro della responsabilità interna in ambito societario. La ricerca di una soluzione unitaria in questo ambito è resa particolarmente ardua da una casistica giurisprudenziale che oscilla tra casi che sembrano dare rilevanza unicamente agli inadempimenti dolosi del socio e casi che, al contrario, estendono la responsabilità alla colpa, talvolta peraltro concepita come culpa in concreto, quale violazione della c.d. diligentia quam in suis. Analizzata, quindi, la disciplina della responsabilità dei soci nei loro rapporti interni, la seconda parte della ricerca si propone di riprendere e discutere l’assioma per cui la societas romana non avrebbe avuto alcun riflesso nei riguardi dei terzi, con la conseguenza che, in assenza di autonomia patrimoniale, delle obbligazioni assunte dalla società avrebbero risposto unicamente e individualmente i singoli soci. La consacrazione di tale principio, che ha quasi sempre incontrato voci unanimi di consenso nell’ambito della dottrina romanistica, e che si fonda sull’efficacia meramente obbligatoria dei contratti romani, trova espressione, secondo la communis opinio, in un passo di Ulpiano (Ulp. 31 ad ed., D. 17.2.20: socii mei socius meus socius non est), dal quale sembrerebbe emergere che i rapporti che in qualunque modo venivano conclusi tra uno o più soci ed i terzi investivano esclusivamente gli individui che avevano partecipato all’atto. Il principio appena enunciato, tuttavia, soffriva talune eccezioni, sulle quali la secondo parte della ricerca si sofferma con particolare attenzione. Oltre ai casi delle societates publicanorum, fornite di personalità giuridica, e delle societates argentariorum, per le quali è pacificamente attestata alla fine dell’epoca classica la solidarietà dei socii, fondata sul vincolo sociale, sia dal lato attivo sia dal lato passivo, che non presentano particolari problemi interpretativi, assumono grande rilievo altre due ipotesi più controverse e riguardanti due tipi di società che con ogni probabilità hanno rivestito un ruolo tutt’altro che marginale nell’ambito dell’economia romana: la società di navigazione e la società venaliciaria. Tali ipotesi di eccezione, vera o apparente, al generale principio dell’irrilevanza del rapporto sociale nei confronti dei soggetti terzi, sono state rese oggetto, nel corso della ricerca, di attenta analisi, nell’intento di verificare l’effettiva estensione di questa area di limitazione od esclusione del principio stesso, dal momento che i tipi di societas che vengono in questo senso considerati dovevano verosimilmente rappresentare una porzione tutt’altro che marginale del mondo economico romano.
La responsabilità del socio in diritto romano classico
RECLA, NICOLA
2015
Abstract
La presente ricerca ha ad oggetto i vari profili di responsabilità contrattuale del socio in epoca classica, sia nei loro rapporti interni, sia nei confronti dei terzi creditori. In particolare, la prima parte della ricerca, che si apre con un primo capitolo sul tema della determinazione delle quote sociali e della partecipazione del socio agli utili e alle perdite, ha come obiettivo quello di esplorare il tema della responsabilità contrattuale dei soci, a partire dal diritto romano classico, dalla prospettiva dei loro rapporti interni, questione che da anni vede i romanisti divisi, in un’accesa disputa dottrinale, tra quanti sostengono che la responsabilità del socio fosse limitata al solo dolo, quale perfetta antitesi della bona fides implicata nel rapporto sociale, e quanti, al contrario, ritengono che già in epoca classica la colpa abbia concorso a delineare il quadro della responsabilità interna in ambito societario. La ricerca di una soluzione unitaria in questo ambito è resa particolarmente ardua da una casistica giurisprudenziale che oscilla tra casi che sembrano dare rilevanza unicamente agli inadempimenti dolosi del socio e casi che, al contrario, estendono la responsabilità alla colpa, talvolta peraltro concepita come culpa in concreto, quale violazione della c.d. diligentia quam in suis. Analizzata, quindi, la disciplina della responsabilità dei soci nei loro rapporti interni, la seconda parte della ricerca si propone di riprendere e discutere l’assioma per cui la societas romana non avrebbe avuto alcun riflesso nei riguardi dei terzi, con la conseguenza che, in assenza di autonomia patrimoniale, delle obbligazioni assunte dalla società avrebbero risposto unicamente e individualmente i singoli soci. La consacrazione di tale principio, che ha quasi sempre incontrato voci unanimi di consenso nell’ambito della dottrina romanistica, e che si fonda sull’efficacia meramente obbligatoria dei contratti romani, trova espressione, secondo la communis opinio, in un passo di Ulpiano (Ulp. 31 ad ed., D. 17.2.20: socii mei socius meus socius non est), dal quale sembrerebbe emergere che i rapporti che in qualunque modo venivano conclusi tra uno o più soci ed i terzi investivano esclusivamente gli individui che avevano partecipato all’atto. Il principio appena enunciato, tuttavia, soffriva talune eccezioni, sulle quali la secondo parte della ricerca si sofferma con particolare attenzione. Oltre ai casi delle societates publicanorum, fornite di personalità giuridica, e delle societates argentariorum, per le quali è pacificamente attestata alla fine dell’epoca classica la solidarietà dei socii, fondata sul vincolo sociale, sia dal lato attivo sia dal lato passivo, che non presentano particolari problemi interpretativi, assumono grande rilievo altre due ipotesi più controverse e riguardanti due tipi di società che con ogni probabilità hanno rivestito un ruolo tutt’altro che marginale nell’ambito dell’economia romana: la società di navigazione e la società venaliciaria. Tali ipotesi di eccezione, vera o apparente, al generale principio dell’irrilevanza del rapporto sociale nei confronti dei soggetti terzi, sono state rese oggetto, nel corso della ricerca, di attenta analisi, nell’intento di verificare l’effettiva estensione di questa area di limitazione od esclusione del principio stesso, dal momento che i tipi di societas che vengono in questo senso considerati dovevano verosimilmente rappresentare una porzione tutt’altro che marginale del mondo economico romano.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/73759
URN:NBN:IT:UNIMIB-73759