Lo studio dell’ambito di applicazione dell’ordinamento dell’Unione europea è un tema classico ma anche molto attuale. Come mostrato nelle pagine che precedono, la pretesa semplicità della nozione si scontra con la sua reale portata applicativa negli ordinamenti degli Stati membri. Se, infatti, l’ambito di applicazione è uno strumento al servizio del giudice per determinare i confini dell’azione esercitata dall’Unione , è vero anche che lo stretto legame con il concetto di competenza attribuita all’organizzazione rende la sua definizione particolarmente complessa. Solo attraverso l’opera interpretativa demandata al giudice comunitario è quindi possibile determinare la portata del concetto e il suo rapporto con il più rigido principio di attribuzione delle competenze. Partendo da questo presupposto la nozione di ambito di applicazione è stata definita come la competenza in azione, ovvero come la modalità per definire la portata delle singole competenze attribuite all’Unione nella loro dimensione applicativa e, quindi, nella definizione di casi concreti. L’azione interpretativa attuata dalla Corte di giustizia domina, pertanto, qualsiasi discorso sullo studio dell’ambito di applicazione del diritto UE, eccezion fatta per quei casi meno problematici dove l’applicazione in concreto delle competenze attribuite ed esercitate dall’Unione appare una operazione di facile soluzione. Così, dall’evoluzione della giurisprudenza esaminata è stato possibile evidenziare la presenza di almeno cinque ipotesi distinte per determinare l’applicabilità del diritto UE in una fattispecie concreta. In primo luogo quelle situazioni in cui la normativa dell’Unione risulta direttamente applicabile e i fatti di causa presentano un legame diretto con la disciplina UE in oggetto. In secondo luogo, troviamo i casi in cui è la normativa nazionale a rientrare nel campo di applicazione del diritto europeo, attirando in tal modo l’intera fattispecie a cui essa viene applicata. Questa seconda categoria è stata, ed è tutt’ora, oggetto di una profonda analisi da parte dei giudici di Lussemburgo. Le pronunce della Corte hanno evidenziato la presenza di quattro diverse specificazioni di questo principio. La prima riguarda le circostanze in cui la norma nazionale sia stata adottata in esecuzione di una qualsiasi disposizione del diritto comunitario, anche nel caso in cui sia previsto per il legislatore nazionale un ampio margine di discrezionalità; il secondo concerne il caso in cui la disciplina interna venga a restringere in maniera legittima la portata di un diritto riconosciuto dall’ordinamento giuridico europeo, oppure, in funzione delle “esigenze imperative” invocate dallo Stato membro, impedisca o limiti l’esercizio di una libertà fondamentale del mercato; la terza ipotesi riguarda quelle norme nazionali che incidono nell’ambito di applicazione del diritto UE in quanto concorrono in qualche modo alla realizzazione degli obiettivi previsti dai trattati; e, infine, quando, pur essendo stata adottata dagli Stati membri nell’esercizio di una loro competenza esclusiva, la norma interna contestata venga a restringere la portata o a ledere un diritto fondamentale incondizionato e direttamente applicabile riconosciuto e garantito da una norma adottata dalle istituzioni europee. In tutte queste ipotesi, tuttavia, vero protagonista della esegesi giurisprudenziale rimane il solo diritto dell’Unione, la cui interpretazione risulta spesso basata sulla relazione tra il dettato normativo e gli obiettivi sottesi sia alla singola disposizione che all’intero sistema UE. Al fine di determinare l’ambito di applicazione, infatti, bisogna esaminare nel caso concreto l’opportunità di applicare la norma di diritto UE invocata per regolare la situazione oppure, in assenza di un interesse diretto, valutare la necessità di garantire per suo tramite (anche in maniera negativa) l’efficacia dell’azione UE e il conseguimento dell’obiettivo a essa sotteso. Questa operazione ha grande riflesso sulla sfera di sovranità statale: un’ampia definizione dell’ambito di applicazione della norma UE restringe di pari misura lo spazio di autonomia lasciato al diritto nazionale. È di tutta evidenza, infatti, come l’ambito di applicazione sia una nozione di frontiera e, quindi, ogni qual volta il giudice interpreta il campo di applicazione di una norma di diritto UE egli interpreta ipso facto anche la portata dei poteri rimasti in capo agli Stati membri. Nel merito, invece, si è visto che la definizione dell’ambito di applicazione delle competenze UE ha subito nel tempo un processo di continua espansione: un’estensione in primo luogo dovuta alla lettura combinata delle basi giuridiche contenute nei trattati con gli obiettivi sempre più vasti attribuiti all’organizzazione. In secondo luogo, invece, è stato in ragione della necessità di garantire la massima efficacia alle norme UE che i giudici di Lussemburgo hanno concesso loro una portata amplissima, anche al di là di quanto stabilito dalla formale ripartizione delle competenze contenuta nella normativa pattizia. Nonostante l’eccezionale vis espansiva che ha caratterizzato l’ampliamento della sfera di efficacia del diritto UE è, tuttavia, altrettanto evidente che permangono dei limiti alla sua applicazione. La sfida per il giurista positivo, quindi, consiste nell’individuare all’interno del complesso sistema integrato che caratterizza i rapporti tra Unione europea e Stati membri, quali siano questi limiti applicativi e quali conseguenze derivano per la soluzione di casi concreti . Possiamo ancora oggi affermare che ci sono ambiti che l’Unione non disciplina e non è neppure titolata a regolare. Tra i molti possiamo ricordare il fatto che essa non possiede corpi di polizia né un proprio esercito; non provvede a regolare i regimi pensionistici o di previdenza sociale; non regola neppure il settore della sanità, il quale rimane di esclusiva competenza nazionale. All’organizzazione, infatti, non sono stati attribuiti i poteri necessari, le competenze, per poter emanare disposizioni precettive in questi settori. Tuttavia, l’Unione, in particolare attraverso l’operato della Corte di giustizia, ha mostrato una marcata inclinazione a controllare anche l’esercizio dei poteri residuali rimasti in capo agli Stati membri, specialmente nell’ipotesi in cui le regole nazionali mettano a rischio le libertà di circolazione intracomunitarie. In questo settore, infatti, come già ricordato la Corte sembra essere indifferente all’allocazione di competenze sancita dai trattati. L’applicabilità delle libertà fondamentali del trattato va al di là del mero dato testuale visibile e, potenzialmente, si estende a regolare ogni situazione nazionale dove il giudice interno o la Corte di giustizia ritengano che sia a rischio lo stesso perseguimento delle finalità ad esse sottese. Forse è in ragione degli ampi effetti attribuiti alle disposizioni di questo settore che i giudici di Lussemburgo continuano proprio qui a mantenere in vita, ancora oggi, uno dei pochi (se non l’unico) limiti di principio all’espansione dell’ambito di applicazione del diritto UE, ovvero il principio dell’inapplicabilità del diritto dell’Unione in situazioni puramente interne. In presenza di una situazione puramente interna, infatti, la giurisprudenza comunitaria ha affermato che l’applicazione delle norme sulla libera circolazione è esclusa a priori. Nel terzo capitolo, pertanto, si è cercato di evidenziare i caratteri fondamentali posti a fondamento di questo principio come esplicitati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Il risultato del percorso di ricostruzione effettuato evidenzia come questo genere di situazioni si realizzi solo qualora alcun elemento di estraneità (transnazionalità) sia presente né nei fatti di causa da cui origina il procedimento nazionale né nelle norme nazionali applicabili nel giudizio de quo. In altre parole, quindi, una situazione puramente interna è solo quella situazione contenziosa in cui, in ragione di fatti di causa che non presentano alcun elemento di estraneità (assenza di transnazionalità materiale) e in ragione di norme interne che non creano ostacolo sufficiente agli scambi intracomunitari (assenza di transnazionalità normativa), la disciplina UE sulla libera circolazione non può trovare alcuna applicazione. Parte della dottrina e alcuni Avvocati Generali della Corte hanno spesso indirizzato la propria attenzione alla ricerca dei soli elementi transfrontalieri concreti, tralasciando l’importanza del fattore di collegamento normativo per l’esistenza di questa categoria. Al contrario, la giurisprudenza della Corte, su tutti si ricorderà il caso Pistre, ha mostrato come anche l’analisi degli ostacoli alla libera circolazione prodotti dalla normativa statale, e non solo la presenza di elementi di transnazionalità materiale, sia ugualmente necessaria per configurare una situazione puramente interna stricto sensu. Tuttavia, dal case law esaminato si evince come la contemporanea presenza di questi due elementi costitutivi della categoria sia raramente messa in luce nel dispositivo delle sentenze. L’assenza di transnazionalità normativa non è spesso evidenziata dai giudici europei ma, come visto, essa è implicitamente presente in quanto requisito necessario per l’esistenza di una situazione puramente interna. L’auspicio, pertanto, è quello che la Corte di giustizia nella sua giurisprudenza futura possa sempre esplicitare il ragionamento sotteso alle pronunce in materia di situazioni puramente interne, dando il giusto risalto a entrambi gli elementi costitutivi della categoria, materiali e normativi. Sembra, infatti, importante conseguire la maggiore chiarezza possibile nella applicazione di questo principio, anche al fine di evitare incomprensioni circa la legittimità per l’ordinamento dell’Unione di alcuni fenomeni correlati, ma altrettanto importanti, come quello delle discriminazioni a rovescio e della competenza della Corte di giustizia a rispondere a quesiti pregiudiziali sollevati anche in casi del genere.
L'ambito di applicazione del diritto UE e le situazioni puramente interne
AMARITI, ALBERTO
2014
Abstract
Lo studio dell’ambito di applicazione dell’ordinamento dell’Unione europea è un tema classico ma anche molto attuale. Come mostrato nelle pagine che precedono, la pretesa semplicità della nozione si scontra con la sua reale portata applicativa negli ordinamenti degli Stati membri. Se, infatti, l’ambito di applicazione è uno strumento al servizio del giudice per determinare i confini dell’azione esercitata dall’Unione , è vero anche che lo stretto legame con il concetto di competenza attribuita all’organizzazione rende la sua definizione particolarmente complessa. Solo attraverso l’opera interpretativa demandata al giudice comunitario è quindi possibile determinare la portata del concetto e il suo rapporto con il più rigido principio di attribuzione delle competenze. Partendo da questo presupposto la nozione di ambito di applicazione è stata definita come la competenza in azione, ovvero come la modalità per definire la portata delle singole competenze attribuite all’Unione nella loro dimensione applicativa e, quindi, nella definizione di casi concreti. L’azione interpretativa attuata dalla Corte di giustizia domina, pertanto, qualsiasi discorso sullo studio dell’ambito di applicazione del diritto UE, eccezion fatta per quei casi meno problematici dove l’applicazione in concreto delle competenze attribuite ed esercitate dall’Unione appare una operazione di facile soluzione. Così, dall’evoluzione della giurisprudenza esaminata è stato possibile evidenziare la presenza di almeno cinque ipotesi distinte per determinare l’applicabilità del diritto UE in una fattispecie concreta. In primo luogo quelle situazioni in cui la normativa dell’Unione risulta direttamente applicabile e i fatti di causa presentano un legame diretto con la disciplina UE in oggetto. In secondo luogo, troviamo i casi in cui è la normativa nazionale a rientrare nel campo di applicazione del diritto europeo, attirando in tal modo l’intera fattispecie a cui essa viene applicata. Questa seconda categoria è stata, ed è tutt’ora, oggetto di una profonda analisi da parte dei giudici di Lussemburgo. Le pronunce della Corte hanno evidenziato la presenza di quattro diverse specificazioni di questo principio. La prima riguarda le circostanze in cui la norma nazionale sia stata adottata in esecuzione di una qualsiasi disposizione del diritto comunitario, anche nel caso in cui sia previsto per il legislatore nazionale un ampio margine di discrezionalità; il secondo concerne il caso in cui la disciplina interna venga a restringere in maniera legittima la portata di un diritto riconosciuto dall’ordinamento giuridico europeo, oppure, in funzione delle “esigenze imperative” invocate dallo Stato membro, impedisca o limiti l’esercizio di una libertà fondamentale del mercato; la terza ipotesi riguarda quelle norme nazionali che incidono nell’ambito di applicazione del diritto UE in quanto concorrono in qualche modo alla realizzazione degli obiettivi previsti dai trattati; e, infine, quando, pur essendo stata adottata dagli Stati membri nell’esercizio di una loro competenza esclusiva, la norma interna contestata venga a restringere la portata o a ledere un diritto fondamentale incondizionato e direttamente applicabile riconosciuto e garantito da una norma adottata dalle istituzioni europee. In tutte queste ipotesi, tuttavia, vero protagonista della esegesi giurisprudenziale rimane il solo diritto dell’Unione, la cui interpretazione risulta spesso basata sulla relazione tra il dettato normativo e gli obiettivi sottesi sia alla singola disposizione che all’intero sistema UE. Al fine di determinare l’ambito di applicazione, infatti, bisogna esaminare nel caso concreto l’opportunità di applicare la norma di diritto UE invocata per regolare la situazione oppure, in assenza di un interesse diretto, valutare la necessità di garantire per suo tramite (anche in maniera negativa) l’efficacia dell’azione UE e il conseguimento dell’obiettivo a essa sotteso. Questa operazione ha grande riflesso sulla sfera di sovranità statale: un’ampia definizione dell’ambito di applicazione della norma UE restringe di pari misura lo spazio di autonomia lasciato al diritto nazionale. È di tutta evidenza, infatti, come l’ambito di applicazione sia una nozione di frontiera e, quindi, ogni qual volta il giudice interpreta il campo di applicazione di una norma di diritto UE egli interpreta ipso facto anche la portata dei poteri rimasti in capo agli Stati membri. Nel merito, invece, si è visto che la definizione dell’ambito di applicazione delle competenze UE ha subito nel tempo un processo di continua espansione: un’estensione in primo luogo dovuta alla lettura combinata delle basi giuridiche contenute nei trattati con gli obiettivi sempre più vasti attribuiti all’organizzazione. In secondo luogo, invece, è stato in ragione della necessità di garantire la massima efficacia alle norme UE che i giudici di Lussemburgo hanno concesso loro una portata amplissima, anche al di là di quanto stabilito dalla formale ripartizione delle competenze contenuta nella normativa pattizia. Nonostante l’eccezionale vis espansiva che ha caratterizzato l’ampliamento della sfera di efficacia del diritto UE è, tuttavia, altrettanto evidente che permangono dei limiti alla sua applicazione. La sfida per il giurista positivo, quindi, consiste nell’individuare all’interno del complesso sistema integrato che caratterizza i rapporti tra Unione europea e Stati membri, quali siano questi limiti applicativi e quali conseguenze derivano per la soluzione di casi concreti . Possiamo ancora oggi affermare che ci sono ambiti che l’Unione non disciplina e non è neppure titolata a regolare. Tra i molti possiamo ricordare il fatto che essa non possiede corpi di polizia né un proprio esercito; non provvede a regolare i regimi pensionistici o di previdenza sociale; non regola neppure il settore della sanità, il quale rimane di esclusiva competenza nazionale. All’organizzazione, infatti, non sono stati attribuiti i poteri necessari, le competenze, per poter emanare disposizioni precettive in questi settori. Tuttavia, l’Unione, in particolare attraverso l’operato della Corte di giustizia, ha mostrato una marcata inclinazione a controllare anche l’esercizio dei poteri residuali rimasti in capo agli Stati membri, specialmente nell’ipotesi in cui le regole nazionali mettano a rischio le libertà di circolazione intracomunitarie. In questo settore, infatti, come già ricordato la Corte sembra essere indifferente all’allocazione di competenze sancita dai trattati. L’applicabilità delle libertà fondamentali del trattato va al di là del mero dato testuale visibile e, potenzialmente, si estende a regolare ogni situazione nazionale dove il giudice interno o la Corte di giustizia ritengano che sia a rischio lo stesso perseguimento delle finalità ad esse sottese. Forse è in ragione degli ampi effetti attribuiti alle disposizioni di questo settore che i giudici di Lussemburgo continuano proprio qui a mantenere in vita, ancora oggi, uno dei pochi (se non l’unico) limiti di principio all’espansione dell’ambito di applicazione del diritto UE, ovvero il principio dell’inapplicabilità del diritto dell’Unione in situazioni puramente interne. In presenza di una situazione puramente interna, infatti, la giurisprudenza comunitaria ha affermato che l’applicazione delle norme sulla libera circolazione è esclusa a priori. Nel terzo capitolo, pertanto, si è cercato di evidenziare i caratteri fondamentali posti a fondamento di questo principio come esplicitati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Il risultato del percorso di ricostruzione effettuato evidenzia come questo genere di situazioni si realizzi solo qualora alcun elemento di estraneità (transnazionalità) sia presente né nei fatti di causa da cui origina il procedimento nazionale né nelle norme nazionali applicabili nel giudizio de quo. In altre parole, quindi, una situazione puramente interna è solo quella situazione contenziosa in cui, in ragione di fatti di causa che non presentano alcun elemento di estraneità (assenza di transnazionalità materiale) e in ragione di norme interne che non creano ostacolo sufficiente agli scambi intracomunitari (assenza di transnazionalità normativa), la disciplina UE sulla libera circolazione non può trovare alcuna applicazione. Parte della dottrina e alcuni Avvocati Generali della Corte hanno spesso indirizzato la propria attenzione alla ricerca dei soli elementi transfrontalieri concreti, tralasciando l’importanza del fattore di collegamento normativo per l’esistenza di questa categoria. Al contrario, la giurisprudenza della Corte, su tutti si ricorderà il caso Pistre, ha mostrato come anche l’analisi degli ostacoli alla libera circolazione prodotti dalla normativa statale, e non solo la presenza di elementi di transnazionalità materiale, sia ugualmente necessaria per configurare una situazione puramente interna stricto sensu. Tuttavia, dal case law esaminato si evince come la contemporanea presenza di questi due elementi costitutivi della categoria sia raramente messa in luce nel dispositivo delle sentenze. L’assenza di transnazionalità normativa non è spesso evidenziata dai giudici europei ma, come visto, essa è implicitamente presente in quanto requisito necessario per l’esistenza di una situazione puramente interna. L’auspicio, pertanto, è quello che la Corte di giustizia nella sua giurisprudenza futura possa sempre esplicitare il ragionamento sotteso alle pronunce in materia di situazioni puramente interne, dando il giusto risalto a entrambi gli elementi costitutivi della categoria, materiali e normativi. Sembra, infatti, importante conseguire la maggiore chiarezza possibile nella applicazione di questo principio, anche al fine di evitare incomprensioni circa la legittimità per l’ordinamento dell’Unione di alcuni fenomeni correlati, ma altrettanto importanti, come quello delle discriminazioni a rovescio e della competenza della Corte di giustizia a rispondere a quesiti pregiudiziali sollevati anche in casi del genere.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/76279
URN:NBN:IT:UNIMIB-76279