the case of Mont Blanc sets us questions about anthropocene, our relation with land.
Il caso del Monte Bianco, prima ancora che questioni sullo scioglimento dei ghiacciai, sulla sicurezza, sulla prevenzione e sulla gestione del rischio, ci pone delle domande epocali sull’Antropocene, sul nostro modello economico, sul nostro rapporto col territorio, l’ambiente e l’ecosistema, sul modo di concepire il turismo, lo sport, sul nostro modo di costruire e vivere il territorio, sulle nostre istituzioni, sulla rappresentanza e la partecipazione di chi agisce sul territorio. Come scrive l’antropologa Elena Bougleux, il cambiamento climatico è una questione che riguarda al tempo stesso aspetti “estremamente scientifici” e aspetti “completamente sociali”: « non esiste evidenza significativa, aspetto problematico né discorso sul clima senza una società che lo vive, lo commenta, lo misura, lo confronta con il proprio passato, tanto recente quanto lontano ». Il discorso che ruota attorno ai cambiamenti climatici, proprio in quanto descrive dei “cambiamenti”, implica uno stato precedente di normalità, un “prima”, rispetto al “poi” del loro verificarsi. Anzi, si potrebbe dire, ha senso proprio in funzione di un preesistente stato di “normalità”. Come nozione, quella di “cambiamento climatico” si può dire che « esiste in quanto esito complesso di un processo di costruzione sociale della nozione di clima “normale” ». Ma che cosa intendiamo per “normale”, quando ci riferiamo alla nozione di clima? Conosciamo lo stato preesistente? E quali sono i riferimenti a cui ci rifacciamo per decretarne un avvenuto mutamento? In base a cosa lo possiamo stabilire? Un ruolo essenziale, come è logico, lo gioca la Storia, o meglio, le tante storie che su questa nozione vengono a convergere: la storia climatica, fatta di scale di misurazione, dati quantitativi, ma anche qualitativi — basti pensare ai lavori di Le Roy Ladurie che qui avremo modo di discutere ampiamente —, e la storia di quelle società che nel tempo ne hanno osservato e interpretato gli effetti, adattandosi costantemente. Il clima è dunque l’effetto di una evoluzione e di una negoziazione reciproche nel corso del tempo, tra “dato climatico misurato” e “significato sociale attribuito”. Queste due dimensioni vanno intese nel loro “senso evolutivo”, “legate alla storia”, “mutevoli nel tempo”. Il concetto stesso di clima richiede allora una continua negoziazione di significati, mai dati una volta per tutte, e un « compromesso continuo e instabile tra il quadro quantitativo registrato e lo scenario soggettivo percepito ». Parlare di clima, e farlo “sulle Alpi dell’Antropocene” significa includere nel discorso tutta una serie di nozioni, che vanno dalle serie storiche ai modelli matematici, dai dati di memoria alle “memorie di futuro” fino agli scenari calcolati o attesi, e ai rischi e ai disastri. Parlare di clima significa trattare elementi « così epistemologicamente diversi da non avere neanche termini descrittivi comuni che li racchiudano tutti ». Inoltre, ricorda ancora Bougleux, queste nozioni “vivono vite diverse”, con “cronologie distinte”, che possono essere valide, o coerenti, oppure utili su diverse scale, in epoche diverse, e in diversi spazi, ma che non possono esser prese e accostate senza un’operazione critica o analitica. « Forse è possibile per alcune classi di scienziati arrivare ad una definizione localmente coerente di clima, ma di certo non si arriva a disegnare una nozione accettabile e coerente di cambiamento del clima per gruppi estesi di persone, per esperti di diverse discipline, attraverso lunghi periodi di tempo ».
Il cambiamento in-visibile: l’area del Monte Bianco tra antropocene, cambiamenti climatici e diniego.
DALL'O, ELISABETTA
2018
Abstract
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/76776
URN:NBN:IT:UNIMIB-76776