Obiettivo iniziale della mia indagine era la ricostruzione dell’andamento della lotta alle superstizioni nel Regno di Napoli nella prima età moderna, con particolare riferimento alla Lucania. Le ragioni di questa scelta erano legate ad alcuni aspetti della storiografia dedicata nella seconda metà del Novecento alla regione. Le celebri ricerche consacrate da Ernesto De Martino alle comunità rurali della regione e alla persistenza in esse, nel cuore del Novecento, di una radicata familiarità con le pratiche magiche, mi invitavano ad approfondire la questione nel CinqueSeicento, nel momento in cui Chiesa e Inquisizione avevano cercato di combatterle con vigore, non solo in Italia. La storiografia riguardante la Lucania moderna non ha ignorato alcuni aspetti della questione. Basti pensare alle ricerche di Gabriele De Rosa e della sua scuola. Dalle loro indagini era scaturito come l’arretratezza della regione nel Novecento fosse anche la conseguenza della debole azione riformatrice di un clero inadeguato e ancorato ai propri privilegi. In quelle ricerche, però, era rimasto nell’ombra il rapporto tra vescovi lucani e Inquisizione, ben poco studiato, d’altra parte, anche nel resto del Sud. È stato questo, perciò, il primo problema con cui ho dovuto fare i conti. Per l’Italia meridionale, quando ho avviato la mia ricerca, le sole certezze riguardavano Napoli. Solo in una capitale affollata e ostile alla Chiesa fu possibile agli inquisitori tenere a bada sia le pratiche superstiziose, sia gli altri delitti contro la fede. Non sembra invece che nel resto del Viceregno quei controlli abbiano avuto un rilievo significativo: le iniziative dei vescovi di Sarno, i soli che, per quanto se ne sa, svolsero nel Sei-Settecento nel Sud attività inquisitoriali piuttosto assidue, non possono essere neppure lontanamente paragonate al ruolo del Sant’Ufficio nella capitale. Forte dei risultati di queste indagini, ho concentrato inizialmente gli scavi lucani sulla diocesi di Melfi, anche perché alla guida della diocesi,in anni cruciali per la lotta alle pratiche magicodiaboliche in Italia, era stato il domenicano Desiderio Scaglia, che ebbe un ruolo di primo piano nell’elaborazione delle strategie moderate di repressione della stregoneria da parte del Sant’Ufficio. Oltre tutto, gli subentrarono alla guida della diocesi lucana altri due prelati legati a lui, uno dei quali fu Deodato Scaglia, il nipote. Tuttavia i risultati degli scavi melfitani sono stati deludenti. Malgrado il ritrovamento di due piccoli, ma vivaci processi inquisitoriali intentati per pratiche magiche nel tardo ‘500, non sono affiorate in alcun modo tracce di preoccupazione particolare per la diffusione delle pratiche superstiziose. Oltretutto, gli stessi membri del clero praticavano spesso la magia, come ovunque nell’Italia moderna. Ancora più indicativi della difficoltà, per la Chiesa, di fronteggiare le superstizioni furono inoltre, nel primo Seicento, gli scontri ripetuti di Deodato Scaglia con una comunità di albanesi, legati non solo al rito greco, ma a radicate e rare credenze e pratiche magiche. Non diversi sono stati gli esiti delle ricerche condotte nella vicina diocesi pugliese di Vieste, malgrado la presenza, ai vertici della Chiesa locale, di due figure di primo piano come il domenicano Giulio Pavesi e il futuro papa Ugo Boncompagni. Per entrambi era lecito ipotizzare una forte premura per la lotta alle superstizioni, ma il quadro affiorato dalla documentazione dell’archivio diocesano locale è pressoché identico, su questo versante, a quello di Melfi. Il nodo storiografico centrale su cui invece l’insieme delle fonti reperite invita a riflettere è quello dei difficili rapporti tra autorità della Chiesa e autorità dello Stato tra Cinque e Seicento. In entrambe le diocesi, infatti, le attività dei vescovi furono caratterizzate da frequenti scontri con i governatori e con i sindaci, su questioni di forte rilievo: dai crimini comuni del clero alle ingerenze dei vescovi in problemi vitali, come quello del lavoro festivo. Per molte di esse scoppiarono lunghe controversie giurisdizionali. Al di là degli abusi di competenza inquisitoriale, di scarso rilievo a Melfi e Vieste, sono i casi di foro misto e i nodi legati alla criminalità ecclesiastica gli aspetti meglio documentati nella Lucania del Cinque-Seicento. D’altra parte, non mi sembra casuale se uno studio recente sulla cosiddetta Riforma cattolica ha sottolineato con ampiezza di riferimenti la debolezza di questo concetto storiografico. Più che a una prassi riformatrice, insomma, sembra legittimo pensare, soprattutto per i vertici della Chiesa romana, a una deliberata e costante azione di contrasto verso gli aneliti riformatori. Il concetto ‘classico’ di Controriforma, insomma, conferma tuttora la sua validità. Anche gli esiti delle mie indagini vanno in questa direzione.

I vescovi e i conflitti della Controriforma nel Mezzogiorno d'Italia (1563-1644). Le diocesi di Melfi e Vieste

ROMANO, FRANCESCA VERA
2023

Abstract

Obiettivo iniziale della mia indagine era la ricostruzione dell’andamento della lotta alle superstizioni nel Regno di Napoli nella prima età moderna, con particolare riferimento alla Lucania. Le ragioni di questa scelta erano legate ad alcuni aspetti della storiografia dedicata nella seconda metà del Novecento alla regione. Le celebri ricerche consacrate da Ernesto De Martino alle comunità rurali della regione e alla persistenza in esse, nel cuore del Novecento, di una radicata familiarità con le pratiche magiche, mi invitavano ad approfondire la questione nel CinqueSeicento, nel momento in cui Chiesa e Inquisizione avevano cercato di combatterle con vigore, non solo in Italia. La storiografia riguardante la Lucania moderna non ha ignorato alcuni aspetti della questione. Basti pensare alle ricerche di Gabriele De Rosa e della sua scuola. Dalle loro indagini era scaturito come l’arretratezza della regione nel Novecento fosse anche la conseguenza della debole azione riformatrice di un clero inadeguato e ancorato ai propri privilegi. In quelle ricerche, però, era rimasto nell’ombra il rapporto tra vescovi lucani e Inquisizione, ben poco studiato, d’altra parte, anche nel resto del Sud. È stato questo, perciò, il primo problema con cui ho dovuto fare i conti. Per l’Italia meridionale, quando ho avviato la mia ricerca, le sole certezze riguardavano Napoli. Solo in una capitale affollata e ostile alla Chiesa fu possibile agli inquisitori tenere a bada sia le pratiche superstiziose, sia gli altri delitti contro la fede. Non sembra invece che nel resto del Viceregno quei controlli abbiano avuto un rilievo significativo: le iniziative dei vescovi di Sarno, i soli che, per quanto se ne sa, svolsero nel Sei-Settecento nel Sud attività inquisitoriali piuttosto assidue, non possono essere neppure lontanamente paragonate al ruolo del Sant’Ufficio nella capitale. Forte dei risultati di queste indagini, ho concentrato inizialmente gli scavi lucani sulla diocesi di Melfi, anche perché alla guida della diocesi,in anni cruciali per la lotta alle pratiche magicodiaboliche in Italia, era stato il domenicano Desiderio Scaglia, che ebbe un ruolo di primo piano nell’elaborazione delle strategie moderate di repressione della stregoneria da parte del Sant’Ufficio. Oltre tutto, gli subentrarono alla guida della diocesi lucana altri due prelati legati a lui, uno dei quali fu Deodato Scaglia, il nipote. Tuttavia i risultati degli scavi melfitani sono stati deludenti. Malgrado il ritrovamento di due piccoli, ma vivaci processi inquisitoriali intentati per pratiche magiche nel tardo ‘500, non sono affiorate in alcun modo tracce di preoccupazione particolare per la diffusione delle pratiche superstiziose. Oltretutto, gli stessi membri del clero praticavano spesso la magia, come ovunque nell’Italia moderna. Ancora più indicativi della difficoltà, per la Chiesa, di fronteggiare le superstizioni furono inoltre, nel primo Seicento, gli scontri ripetuti di Deodato Scaglia con una comunità di albanesi, legati non solo al rito greco, ma a radicate e rare credenze e pratiche magiche. Non diversi sono stati gli esiti delle ricerche condotte nella vicina diocesi pugliese di Vieste, malgrado la presenza, ai vertici della Chiesa locale, di due figure di primo piano come il domenicano Giulio Pavesi e il futuro papa Ugo Boncompagni. Per entrambi era lecito ipotizzare una forte premura per la lotta alle superstizioni, ma il quadro affiorato dalla documentazione dell’archivio diocesano locale è pressoché identico, su questo versante, a quello di Melfi. Il nodo storiografico centrale su cui invece l’insieme delle fonti reperite invita a riflettere è quello dei difficili rapporti tra autorità della Chiesa e autorità dello Stato tra Cinque e Seicento. In entrambe le diocesi, infatti, le attività dei vescovi furono caratterizzate da frequenti scontri con i governatori e con i sindaci, su questioni di forte rilievo: dai crimini comuni del clero alle ingerenze dei vescovi in problemi vitali, come quello del lavoro festivo. Per molte di esse scoppiarono lunghe controversie giurisdizionali. Al di là degli abusi di competenza inquisitoriale, di scarso rilievo a Melfi e Vieste, sono i casi di foro misto e i nodi legati alla criminalità ecclesiastica gli aspetti meglio documentati nella Lucania del Cinque-Seicento. D’altra parte, non mi sembra casuale se uno studio recente sulla cosiddetta Riforma cattolica ha sottolineato con ampiezza di riferimenti la debolezza di questo concetto storiografico. Più che a una prassi riformatrice, insomma, sembra legittimo pensare, soprattutto per i vertici della Chiesa romana, a una deliberata e costante azione di contrasto verso gli aneliti riformatori. Il concetto ‘classico’ di Controriforma, insomma, conferma tuttora la sua validità. Anche gli esiti delle mie indagini vanno in questa direzione.
20-mag-2023
Italiano
Controriforma; inquisizione; tribunali vescovili; pratiche popolari; lotta alle superstizioni; conflitti giurisdizionali; minoranza greco-albanese
FRAJESE, VITTORIO
BETTA, EMANUELE
Università degli Studi di Roma "La Sapienza"
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14242/102638
Il codice NBN di questa tesi è URN:NBN:IT:UNIROMA1-102638