Il fenomeno della diffusione degli accordi tra pubbliche Amministrazioni nell’azione e nell’organizzazione dei pubblici poteri è stato già da tempo e da più parti messo in luce, trovando fondamento – secondo le più attente speculazioni dottrinali condotte sul tema – in una trasformazione ordinamentale in senso pluralistico ed autonomistico. Alle radici dell’incremento dell’uso di moduli convenzionali nei rapporti tra soggetti pubblici, infatti, vi sarebbe l’affermarsi di un pluralismo effettivo e (tendenzialmente) paritario, dovuto sia al passaggio al c.d. “Stato pluriclasse”, sia agli effetti delle spinte autonomistiche che hanno condotto ad un graduale e progressivo riconoscimento di un ambito di concreta autonomia a favore degli enti territoriali minori. Le conseguenti moltiplicazioni e frammentazioni delle funzioni amministrative – con la ripartizione di esse tra distinti centri di potere – sarebbero, dunque, alla base dell’emersione dell’esigenza di ricorrere sempre più spesso a forme di collaborazione tra le diverse pubbliche Amministrazioni coinvolte in forza delle rispettive attribuzioni, onde pervenire ad una ricomposizione delle funzioni e delle competenze frammentatesi in attuazione dei principi del c.d. pluralismo istituzionale e del decentramento (artt. 5 e 114 Cost.). Il legislatore nazionale, nel farsi interprete di detta esigenza, è dapprima intervenuto mediante l’introduzione nell’ordinamento di fattispecie consensuali “ad operatività settoriale” (si considerino, a titolo esemplificativo, talune delle disposizioni di cui al d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, nonché quanto originariamente previsto dalla legge 1 marzo 1986, n. 64, in tema di intervento straordinario per il Mezzogiorno) ed in vario modo denominate (intese, convenzioni, accordi di programma, etc.), per poi giungere, con l’approvazione della legge sul procedimento amministrativo (l. n. 241/1990), ad una generalizzazione del principio della collaborazione consensuale tra pubbliche Amministrazioni, attraverso l’immissione dell’art. 15 di detta legge, volta a conferire ampia copertura legislativa alla conclusione di accordi tra soggetti pubblici per lo svolgimento di attività di interesse comune. Il comma 1 del richiamato articolo di legge sembra assegnare, in effetti, un riconoscimento generale all’eventualità che due o più enti pubblici decidano di addivenire ad una regolamentazione concordata dell’esercizio dei poteri amministrativi loro attribuiti. La normativizzazione della categoria giuridica degli accordi tra pubbliche Amministrazioni e, contestualmente, della disciplina legislativa ad essi applicabile (a mezzo del rinvio operato dall’art. 15, comma 2 della l. n. 241/1990, a talune delle disposizioni dettate dall’art. 11 della stessa legge, in tema di accordi tra p. A. e privati), seppur definitivamente risolutiva della questione preliminare circa l’ammissibilità dogmatica di fattispecie consensuali aventi ad oggetto l’esercizio di potestà pubbliche, si ritiene non abbia contribuito a risolvere taluni interrogativi che, pur se in parte già affrontati dalla dottrina amministrativistica italiana, non hanno ad oggi ancora trovato risposte univoche. Trattasi di problematiche che, partendo da questioni di teoria generale concernenti l’esatta qualificazione giuridica degli accordi in oggetto, incidono direttamente sull’individuazione dell’insieme di regole e principi giuridici cui detti accordi debbano ritenersi assoggettati. Obiettivo principale della tesi di dottorato è, pertanto, proprio quello di affrontare il problema dell’inquadramento dogmatico degli accordi tra pubbliche Amministrazioni, per poi delinearne il relativo regime giuridico applicabile. Affrontato preliminarmente il tema della natura giuridica delle fattispecie consensuali in esame – rispetto al quale, è qui il caso di ribadirlo, l’elaborazione dottrinale italiana non consente, ad oggi, la formulazione di una conclusione univoca –, l’indagine è mossa dall’intento di individuare lo “statuto giuridico” degli accordi tra pubbliche Amministrazioni, verificando, da un lato, il grado di applicabilità delle disposizioni e dei principi di derivazione civilistica espressamente richiamati (per rinvio) dagli artt. 15 e 11 della l. n. 241/1990, e dall’altro, l’incidenza dei “contrappesi” pubblicistici volti a garantire la costante funzionalizzazione dell’uso del potere amministrativo al perseguimento degli interessi pubblici della cui cura risultino attributarie le Amministrazioni “contraenti”. Il tentativo è quello di stabilire, pertanto, la misura e il modo attraverso cui bilanciare, nelle diverse fasi della negoziazione, della conclusione e dell’esecuzione degli accordi tra soggetti pubblici, la contestuale operatività di principi pubblicistici e principi civilistici, al fine non solo di dar conto della complessità dei problemi sin qui già evidenziati dalle più recenti elaborazioni dottrinali, ma di proporre nuove opzioni interpretative in grado di fornire una soluzione alle questioni ad oggi lasciate ancora irrisolte o sullo sfondo. Tra queste ultime, pare opportuno evidenziare come spicchino per particolare problematicità – e sono state, pertanto, oggetto di particolare attenzione nell’ambito dell’attività di ricerca – le tematiche della vincolatività delle statuizioni convenzionali concordemente individuate dalle pubbliche Amministrazioni “stipulanti”, e della perdurante titolarità, in capo alle stesse, dei tipici poteri di autotutela posti a garanzia della già richiamata funzionalizzazione del potere amministrativo al pubblico interesse. Il mancato rinvio, da parte dell’art. 15, comma 2 della l. n. 241/1990, alla norma di cui all’art. 11, comma 4 della stessa legge (sulla facoltà dell’Amministrazione di recedere, per sopravvenienze di pubblico interesse e comunque previo indennizzo, dall’accordo stipulato con un soggetto privato) ha determinato incertezze interpretative di assoluto rilievo. Sul punto, infatti, possono ad oggi registrarsi almeno due distinti orientamenti dottrinali. Secondo una prima interpretazione, il mancato rinvio alla disposizione sul recesso contenuta nel suddetto art. 11, comma 4 della l. n. 241/1990 sarebbe diretto a sancire l’impossibilità, per i soggetti pubblici contraenti, di sottrarsi unilateralmente – seppur per sopravvenuti motivi di pubblico interesse – all’osservanza delle determinazioni convenzionalmente pattuite. Il che troverebbe giustificazione – secondo detta ricostruzione – nel valore “equiordinato” degli interessi pubblici in gioco, rispettivamente perseguiti dalle diverse parti dell’accordo. Secondo altra parte della dottrina, invece, l’omesso richiamo della suddetta disposizione sul potere di recesso non sarebbe da interpretarsi quale ostacolo ad un suo concreto esercizio, bensì come implicito riconoscimento dell’esclusione della sussistenza dell’obbligo, per l’Amministrazione recedente, di corrispondere un indennizzo a favore delle Amministrazioni che siano chiamate a subire detto recesso. In verità, entrambi i richiamati orientamenti non appaiono soddisfacenti. Se da un lato, infatti, la tesi circa un implicito divieto di recesso nei rapporti convenzionali tra pubbliche Amministrazioni – pur nella sopravvenienza di ragioni di pubblico interesse – si scontra evidentemente in modo insanabile con la già richiamata esigenza di garantire la relazione funzionale tra uso dei poteri amministrativi e perseguimento degli interessi pubblici, dall’altro, l’esclusione, per l’Amministrazione recedente, dell’obbligo di corresponsione di un indennizzo a favore delle altre parti dell’accordo destinatarie del recesso, non pare sia supportata da alcuna adeguata motivazione che spieghi la non indennizzabilità degli (eventuali) danni patrimoniali causati dall’Amministrazione che decida di liberarsi unilateralmente dagli impegni assunti in via pattizia.
Il recesso dagli accordi tra pubbliche Amministrazioni. Profili di diritto interno e comparato
SANTACROCE, CLEMENTE PIO
2010
Abstract
Il fenomeno della diffusione degli accordi tra pubbliche Amministrazioni nell’azione e nell’organizzazione dei pubblici poteri è stato già da tempo e da più parti messo in luce, trovando fondamento – secondo le più attente speculazioni dottrinali condotte sul tema – in una trasformazione ordinamentale in senso pluralistico ed autonomistico. Alle radici dell’incremento dell’uso di moduli convenzionali nei rapporti tra soggetti pubblici, infatti, vi sarebbe l’affermarsi di un pluralismo effettivo e (tendenzialmente) paritario, dovuto sia al passaggio al c.d. “Stato pluriclasse”, sia agli effetti delle spinte autonomistiche che hanno condotto ad un graduale e progressivo riconoscimento di un ambito di concreta autonomia a favore degli enti territoriali minori. Le conseguenti moltiplicazioni e frammentazioni delle funzioni amministrative – con la ripartizione di esse tra distinti centri di potere – sarebbero, dunque, alla base dell’emersione dell’esigenza di ricorrere sempre più spesso a forme di collaborazione tra le diverse pubbliche Amministrazioni coinvolte in forza delle rispettive attribuzioni, onde pervenire ad una ricomposizione delle funzioni e delle competenze frammentatesi in attuazione dei principi del c.d. pluralismo istituzionale e del decentramento (artt. 5 e 114 Cost.). Il legislatore nazionale, nel farsi interprete di detta esigenza, è dapprima intervenuto mediante l’introduzione nell’ordinamento di fattispecie consensuali “ad operatività settoriale” (si considerino, a titolo esemplificativo, talune delle disposizioni di cui al d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, nonché quanto originariamente previsto dalla legge 1 marzo 1986, n. 64, in tema di intervento straordinario per il Mezzogiorno) ed in vario modo denominate (intese, convenzioni, accordi di programma, etc.), per poi giungere, con l’approvazione della legge sul procedimento amministrativo (l. n. 241/1990), ad una generalizzazione del principio della collaborazione consensuale tra pubbliche Amministrazioni, attraverso l’immissione dell’art. 15 di detta legge, volta a conferire ampia copertura legislativa alla conclusione di accordi tra soggetti pubblici per lo svolgimento di attività di interesse comune. Il comma 1 del richiamato articolo di legge sembra assegnare, in effetti, un riconoscimento generale all’eventualità che due o più enti pubblici decidano di addivenire ad una regolamentazione concordata dell’esercizio dei poteri amministrativi loro attribuiti. La normativizzazione della categoria giuridica degli accordi tra pubbliche Amministrazioni e, contestualmente, della disciplina legislativa ad essi applicabile (a mezzo del rinvio operato dall’art. 15, comma 2 della l. n. 241/1990, a talune delle disposizioni dettate dall’art. 11 della stessa legge, in tema di accordi tra p. A. e privati), seppur definitivamente risolutiva della questione preliminare circa l’ammissibilità dogmatica di fattispecie consensuali aventi ad oggetto l’esercizio di potestà pubbliche, si ritiene non abbia contribuito a risolvere taluni interrogativi che, pur se in parte già affrontati dalla dottrina amministrativistica italiana, non hanno ad oggi ancora trovato risposte univoche. Trattasi di problematiche che, partendo da questioni di teoria generale concernenti l’esatta qualificazione giuridica degli accordi in oggetto, incidono direttamente sull’individuazione dell’insieme di regole e principi giuridici cui detti accordi debbano ritenersi assoggettati. Obiettivo principale della tesi di dottorato è, pertanto, proprio quello di affrontare il problema dell’inquadramento dogmatico degli accordi tra pubbliche Amministrazioni, per poi delinearne il relativo regime giuridico applicabile. Affrontato preliminarmente il tema della natura giuridica delle fattispecie consensuali in esame – rispetto al quale, è qui il caso di ribadirlo, l’elaborazione dottrinale italiana non consente, ad oggi, la formulazione di una conclusione univoca –, l’indagine è mossa dall’intento di individuare lo “statuto giuridico” degli accordi tra pubbliche Amministrazioni, verificando, da un lato, il grado di applicabilità delle disposizioni e dei principi di derivazione civilistica espressamente richiamati (per rinvio) dagli artt. 15 e 11 della l. n. 241/1990, e dall’altro, l’incidenza dei “contrappesi” pubblicistici volti a garantire la costante funzionalizzazione dell’uso del potere amministrativo al perseguimento degli interessi pubblici della cui cura risultino attributarie le Amministrazioni “contraenti”. Il tentativo è quello di stabilire, pertanto, la misura e il modo attraverso cui bilanciare, nelle diverse fasi della negoziazione, della conclusione e dell’esecuzione degli accordi tra soggetti pubblici, la contestuale operatività di principi pubblicistici e principi civilistici, al fine non solo di dar conto della complessità dei problemi sin qui già evidenziati dalle più recenti elaborazioni dottrinali, ma di proporre nuove opzioni interpretative in grado di fornire una soluzione alle questioni ad oggi lasciate ancora irrisolte o sullo sfondo. Tra queste ultime, pare opportuno evidenziare come spicchino per particolare problematicità – e sono state, pertanto, oggetto di particolare attenzione nell’ambito dell’attività di ricerca – le tematiche della vincolatività delle statuizioni convenzionali concordemente individuate dalle pubbliche Amministrazioni “stipulanti”, e della perdurante titolarità, in capo alle stesse, dei tipici poteri di autotutela posti a garanzia della già richiamata funzionalizzazione del potere amministrativo al pubblico interesse. Il mancato rinvio, da parte dell’art. 15, comma 2 della l. n. 241/1990, alla norma di cui all’art. 11, comma 4 della stessa legge (sulla facoltà dell’Amministrazione di recedere, per sopravvenienze di pubblico interesse e comunque previo indennizzo, dall’accordo stipulato con un soggetto privato) ha determinato incertezze interpretative di assoluto rilievo. Sul punto, infatti, possono ad oggi registrarsi almeno due distinti orientamenti dottrinali. Secondo una prima interpretazione, il mancato rinvio alla disposizione sul recesso contenuta nel suddetto art. 11, comma 4 della l. n. 241/1990 sarebbe diretto a sancire l’impossibilità, per i soggetti pubblici contraenti, di sottrarsi unilateralmente – seppur per sopravvenuti motivi di pubblico interesse – all’osservanza delle determinazioni convenzionalmente pattuite. Il che troverebbe giustificazione – secondo detta ricostruzione – nel valore “equiordinato” degli interessi pubblici in gioco, rispettivamente perseguiti dalle diverse parti dell’accordo. Secondo altra parte della dottrina, invece, l’omesso richiamo della suddetta disposizione sul potere di recesso non sarebbe da interpretarsi quale ostacolo ad un suo concreto esercizio, bensì come implicito riconoscimento dell’esclusione della sussistenza dell’obbligo, per l’Amministrazione recedente, di corrispondere un indennizzo a favore delle Amministrazioni che siano chiamate a subire detto recesso. In verità, entrambi i richiamati orientamenti non appaiono soddisfacenti. Se da un lato, infatti, la tesi circa un implicito divieto di recesso nei rapporti convenzionali tra pubbliche Amministrazioni – pur nella sopravvenienza di ragioni di pubblico interesse – si scontra evidentemente in modo insanabile con la già richiamata esigenza di garantire la relazione funzionale tra uso dei poteri amministrativi e perseguimento degli interessi pubblici, dall’altro, l’esclusione, per l’Amministrazione recedente, dell’obbligo di corresponsione di un indennizzo a favore delle altre parti dell’accordo destinatarie del recesso, non pare sia supportata da alcuna adeguata motivazione che spieghi la non indennizzabilità degli (eventuali) danni patrimoniali causati dall’Amministrazione che decida di liberarsi unilateralmente dagli impegni assunti in via pattizia.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/110578
URN:NBN:IT:UNIPD-110578