Le attività civili, industriali e agricole sono responsabili del rilascio di inquinanti nell’ambiente. Tra le diverse fonti, la contaminazione del suolo da parte di metalli e matalloidi è una problematica di grande attualità. Contestualmente, la legislazione in materia di gestione e protezione ambientale di molti Paesi attribuisce alle tecnologie di bonifica biologiche, meno costose e di minor impatto ambientale, una rinnovata importanza, al pari dei più invasivi metodi di depurazione fisico-chimici. Il presente studio riguarda il primo tentativo in Italia di applicazione della fitodecontaminazione in situ di un’area – sita a Torviscosa, Udine – marcatamente inquinata da metalli e inclusa nell’elenco nazionale dei siti prioritari per la bonifica (D.M. 468/2001). A partire dagli anni Trenta e per diversi anni, nel sito sono state scaricate ceneri di pirite derivanti dall’arrostimento del minerale pirite per l’estrazione dello zolfo. Le ceneri sono risultate marcatamente contaminate da vari metalli come arsenico, cadmio, rame, piombo e zinco. A termine del periodo industriale, lo scarto industriale è stato ricoperto con uno strato di 0,15 m di terreno di riporto non inquinato ma ricco in scheletro. A causa delle particolari caratteristiche negative del substrato, struttura fisica alterata, carenza di nutrienti e delle sfavorevoli condizioni idrologiche, la flora spontanea che ha colonizzato negli anni il sito è risultata essere rada e inadeguata allo svolgimento di un efficiente processo fitoestrattivo. La realizzazione dell’impianto di fitoestrazione con specie da biomassa ha richiesto una cura particolare nella gestione del suolo e un adeguamento delle tecniche di coltivazione. In merito alla lavorazione del terreno, la coltivazione delle piante è avvenuta dopo aratura ed in comparazione con tecniche di ripuntatura, rispettivamente al fine di diluire le ceneri con il terreno di riporto e di mantenere uno strato superficiale non inquinato. In situ sono state coltivate specie arboree (Populus alba L., P. nigra L., P. tremula L., Salix alba L.) ed erbacee di interesse agrario (Helianthus annuus L., Lolium multiflorum Lam., Medicago sativa L., Raphanus sativus L. var. oleiformis Pers.), valutando la produzione di biomassa, l’accumulo di metalli ed il possibile ruolo dell’apparato radicale. In generale, un maggiore accrescimento radicale (lunghezza) è risultato correlato positivamente alla concentrazione di metalli raggiunta nei tessuti epigei, ma non con la loro rimozione. Nelle ceneri, l’aratura ha peggiorato l’accrescimento radicale di quasi tutte le specie saggiate a causa della maggiore presenza (totale e biodisponibile) di metalli rispetto alla ripuntatura. Nel sito di Torviscosa, l’asportazione di inquinanti è risultata generalmente modesta a causa della scarsa produttività vegetale, e ha riguardato quasi esclusivamente lo zinco. Pioppo e salice sono stati comunque in grado di stabilizzare una porzione considerevole di metalli pesanti a livello radicale, suggerendo che i sistemi SRC (Short Rotation Coppice) possano fornire anche un importante contributo nella fitostabilizzazione. Questa possibilità sembra invece essere meno realistica per le radici fibrose delle colture erbacee, a causa del loro intenso e rapido turnover. Si rende tuttavia necessaria una precisa quantificazione della produttività radicale e del tempo di ritenzione dei metalli nelle radici fittonanti. I risultati ottenuti presso il Woolston New Cut Canal (Inghilterra, UK), parte integrante di questa tesi, indicano che l’ammendamento della matrice inquinata con piccole quantità di cemento (1%) o di carbonato di calcio (1%) può contribuire a stabilizzare diversi metalli pesanti. Questo ridurrebbe la dispersione atmosferica e il dilavamento degli inquinanti, permettendo allo stesso tempo alle piante di migliorare la produttività per effetto della minore frazione di metalli biodisponibili. Tra le colture saggiate, il rafano (Raphanus sativus var. oleiformis) ha dimostrato un elevato grado di adattamento alle ceneri di pirite, raggiungendo un buon potenziale produttivo e interessanti asportazioni di metalli. L’interesse per questa specie è stato pertanto esteso anche a sperimentazioni in ambiente controllato per studiare l’applicazione di auxine, acidi umici e sostanze chelanti. L’applicazione ripetuta al suolo di acido indolbutirrico (IBA) non ha fornito i risultati attesi avendo ridotto l’accrescimento vegetale e l’accumulo di metalli sia a 0,1 che 1 mg IBA kg-1. L’ormone ha invece fatto incrementare la lunghezza radicale tramite applicazioni fogliari a 10 mg IBA L-1. Stimolazione dell’accrescimento radicale e miglioramenti del bilancio fitoestrattivo sono stati ottenuti con modeste applicazioni al suolo (0,1 g kg-1) di acidi umici (HA), verosimilmente per l’attività ormono-simile e del debole effetto chelante. Dosi superiori di HA (1 g kg-1), un’opzione estremamente costosa su larga scala, non sono risultate efficaci, a causa del prevalente effetto fitotossico. L’applicazione di acido etilendiaminodisuccinico (EDDS), un chelante meno persistente e più facilmente biodegradabile del ben noto acido etilendiaminotetracetico (EDTA), è stata sperimentata sia in Raphanus sativus var. oleiformis che in Brassica carinata A. Braun, ma solo raramente si sono osservati miglioramenti della fitoestrazione. L’EDDS ha infatti sempre aumentato la concentrazione di metalli nei tessuti epigei, indipendentemente dalla dose (2,5 e 5 mmol kg-1) applicata poco prima della raccolta, ma la riduzione di biomassa è stata più marcata. Un’altra strategia possibile di gestione del chelante, ovvero applicazioni ripetute a basso dosaggio durante il ciclo colturale (1 mmol kg-1 × 5 volte), è risultata meno efficace a causa della considerevole fitotossicità e dell’aumento incontrollato di metalli lisciviati. Questi risultati suggeriscono che l’EDDS, analogamente ad altri chelanti, possa essere applicato proficuamente e senza rischi ambientali una settimana prima della raccolta a dosi moderate (2,5 mmol kg-1), indipendentemente dalla specie vegetale considerata. Si può concludere che la gestione di siti inquinati da metalli pesanti tramite coperture vegetali agrarie e forestali possiede indubbiamente un importante valore paesaggistico, ma solo raramente può diventare una strategia concreta in condizioni estreme come quelle causate dalle ceneri di pirite. In queste circostanze la fitostabilizzazione è un’opzione da valutare con attenzione ed in termini di complementarietà alla fitoestrazione. Una corretta scelta delle specie e il perfezionamento delle tecniche agronomiche, così come il miglioramento delle condizioni chimico-fisiche della matrice inquinata e l’individuazione di trattamenti specifici, possono tuttavia rendere queste tecnologie ecocompatibili più efficaci e applicabili su larga scala.

Improving phytoremediation efficiency in metal-polluted wastes

BANDIERA, MARIANNA
2010

Abstract

Le attività civili, industriali e agricole sono responsabili del rilascio di inquinanti nell’ambiente. Tra le diverse fonti, la contaminazione del suolo da parte di metalli e matalloidi è una problematica di grande attualità. Contestualmente, la legislazione in materia di gestione e protezione ambientale di molti Paesi attribuisce alle tecnologie di bonifica biologiche, meno costose e di minor impatto ambientale, una rinnovata importanza, al pari dei più invasivi metodi di depurazione fisico-chimici. Il presente studio riguarda il primo tentativo in Italia di applicazione della fitodecontaminazione in situ di un’area – sita a Torviscosa, Udine – marcatamente inquinata da metalli e inclusa nell’elenco nazionale dei siti prioritari per la bonifica (D.M. 468/2001). A partire dagli anni Trenta e per diversi anni, nel sito sono state scaricate ceneri di pirite derivanti dall’arrostimento del minerale pirite per l’estrazione dello zolfo. Le ceneri sono risultate marcatamente contaminate da vari metalli come arsenico, cadmio, rame, piombo e zinco. A termine del periodo industriale, lo scarto industriale è stato ricoperto con uno strato di 0,15 m di terreno di riporto non inquinato ma ricco in scheletro. A causa delle particolari caratteristiche negative del substrato, struttura fisica alterata, carenza di nutrienti e delle sfavorevoli condizioni idrologiche, la flora spontanea che ha colonizzato negli anni il sito è risultata essere rada e inadeguata allo svolgimento di un efficiente processo fitoestrattivo. La realizzazione dell’impianto di fitoestrazione con specie da biomassa ha richiesto una cura particolare nella gestione del suolo e un adeguamento delle tecniche di coltivazione. In merito alla lavorazione del terreno, la coltivazione delle piante è avvenuta dopo aratura ed in comparazione con tecniche di ripuntatura, rispettivamente al fine di diluire le ceneri con il terreno di riporto e di mantenere uno strato superficiale non inquinato. In situ sono state coltivate specie arboree (Populus alba L., P. nigra L., P. tremula L., Salix alba L.) ed erbacee di interesse agrario (Helianthus annuus L., Lolium multiflorum Lam., Medicago sativa L., Raphanus sativus L. var. oleiformis Pers.), valutando la produzione di biomassa, l’accumulo di metalli ed il possibile ruolo dell’apparato radicale. In generale, un maggiore accrescimento radicale (lunghezza) è risultato correlato positivamente alla concentrazione di metalli raggiunta nei tessuti epigei, ma non con la loro rimozione. Nelle ceneri, l’aratura ha peggiorato l’accrescimento radicale di quasi tutte le specie saggiate a causa della maggiore presenza (totale e biodisponibile) di metalli rispetto alla ripuntatura. Nel sito di Torviscosa, l’asportazione di inquinanti è risultata generalmente modesta a causa della scarsa produttività vegetale, e ha riguardato quasi esclusivamente lo zinco. Pioppo e salice sono stati comunque in grado di stabilizzare una porzione considerevole di metalli pesanti a livello radicale, suggerendo che i sistemi SRC (Short Rotation Coppice) possano fornire anche un importante contributo nella fitostabilizzazione. Questa possibilità sembra invece essere meno realistica per le radici fibrose delle colture erbacee, a causa del loro intenso e rapido turnover. Si rende tuttavia necessaria una precisa quantificazione della produttività radicale e del tempo di ritenzione dei metalli nelle radici fittonanti. I risultati ottenuti presso il Woolston New Cut Canal (Inghilterra, UK), parte integrante di questa tesi, indicano che l’ammendamento della matrice inquinata con piccole quantità di cemento (1%) o di carbonato di calcio (1%) può contribuire a stabilizzare diversi metalli pesanti. Questo ridurrebbe la dispersione atmosferica e il dilavamento degli inquinanti, permettendo allo stesso tempo alle piante di migliorare la produttività per effetto della minore frazione di metalli biodisponibili. Tra le colture saggiate, il rafano (Raphanus sativus var. oleiformis) ha dimostrato un elevato grado di adattamento alle ceneri di pirite, raggiungendo un buon potenziale produttivo e interessanti asportazioni di metalli. L’interesse per questa specie è stato pertanto esteso anche a sperimentazioni in ambiente controllato per studiare l’applicazione di auxine, acidi umici e sostanze chelanti. L’applicazione ripetuta al suolo di acido indolbutirrico (IBA) non ha fornito i risultati attesi avendo ridotto l’accrescimento vegetale e l’accumulo di metalli sia a 0,1 che 1 mg IBA kg-1. L’ormone ha invece fatto incrementare la lunghezza radicale tramite applicazioni fogliari a 10 mg IBA L-1. Stimolazione dell’accrescimento radicale e miglioramenti del bilancio fitoestrattivo sono stati ottenuti con modeste applicazioni al suolo (0,1 g kg-1) di acidi umici (HA), verosimilmente per l’attività ormono-simile e del debole effetto chelante. Dosi superiori di HA (1 g kg-1), un’opzione estremamente costosa su larga scala, non sono risultate efficaci, a causa del prevalente effetto fitotossico. L’applicazione di acido etilendiaminodisuccinico (EDDS), un chelante meno persistente e più facilmente biodegradabile del ben noto acido etilendiaminotetracetico (EDTA), è stata sperimentata sia in Raphanus sativus var. oleiformis che in Brassica carinata A. Braun, ma solo raramente si sono osservati miglioramenti della fitoestrazione. L’EDDS ha infatti sempre aumentato la concentrazione di metalli nei tessuti epigei, indipendentemente dalla dose (2,5 e 5 mmol kg-1) applicata poco prima della raccolta, ma la riduzione di biomassa è stata più marcata. Un’altra strategia possibile di gestione del chelante, ovvero applicazioni ripetute a basso dosaggio durante il ciclo colturale (1 mmol kg-1 × 5 volte), è risultata meno efficace a causa della considerevole fitotossicità e dell’aumento incontrollato di metalli lisciviati. Questi risultati suggeriscono che l’EDDS, analogamente ad altri chelanti, possa essere applicato proficuamente e senza rischi ambientali una settimana prima della raccolta a dosi moderate (2,5 mmol kg-1), indipendentemente dalla specie vegetale considerata. Si può concludere che la gestione di siti inquinati da metalli pesanti tramite coperture vegetali agrarie e forestali possiede indubbiamente un importante valore paesaggistico, ma solo raramente può diventare una strategia concreta in condizioni estreme come quelle causate dalle ceneri di pirite. In queste circostanze la fitostabilizzazione è un’opzione da valutare con attenzione ed in termini di complementarietà alla fitoestrazione. Una corretta scelta delle specie e il perfezionamento delle tecniche agronomiche, così come il miglioramento delle condizioni chimico-fisiche della matrice inquinata e l’individuazione di trattamenti specifici, possono tuttavia rendere queste tecnologie ecocompatibili più efficaci e applicabili su larga scala.
1-feb-2010
Inglese
In situ phytoremediation, Heavy metals, Arsenic, Biomass species, Root growth, Chelators, Metal leaching, Auxins, Humic acids, Inorganic amendments
Università degli studi di Padova
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Il codice NBN di questa tesi è URN:NBN:IT:UNIPD-110601