Nelle pagine che seguono ci si propone di ricostruire le politiche di semplificazione normativa ed amministrativa, in considerazione dei significati delle riforme di recente attuate o promosse. L’attualità del tema è infatti riferibile all’incessante produzione normativa in materia, come al vivo dibattito sulla forma federale disegnata dal riformato Titolo V. L’allarme destato da autorevoli ricerche di settore (nel 2006 la Banca mondiale ha posizionato l’Italia penultima tra i Paesi OCSE per complicazione normativa e amministrativa) e le pressioni di Confindustria e Unioncamere per la definizione di procedure adeguate alle istanze dell’economia, evidenziano un empasse di cui occorre individuare le cause. Punto di partenza è a tal fine la riconsiderazione dei pregressi tentativi di semplificazione, anzitutto a livello statale. L’apripista l.n. 537/93 prevedeva la semplificazione di 123 procedimenti tramite l’emanazione di appositi regolamenti. In ciò stava però il limite del modello, che finiva per attuarsi in un’alluvione di regolamenti e dunque in una complicazione. Stessa sorte per le ll. nn. 127/99, 191/98, 50/99, 340/00: la volontà di attribuire maggiori spazi ad interventi governativi di semplificazione portava a successive riformulazioni dei principi di delega, con confusione nelle direttive legislative e con la sostituzione dell’ipertrofia legislativa di primo grado con quella di secondo. Le innovazioni arrivavano con la l. 246/05 che, col meccanismo ghigliottina o taglia–norme, prevedeva un’ampia delega al Governo per l’abrogazione della normativa anteriore al 1.01.70 non ritenuta indispensabile. I dubbi di legittimità costituzionale sono però evidenti e quanto mai attuali visto il disegno di legge Bassanini del 31.03.08, che all’art 2 co. 3 e 4 ripropone la ghigliottina per tutte le disposizioni ormai prive di contenuto normativo o obsolete. Se si aggiunge che in tale proposta si ritrova lo spettro della proliferazione dei regolamenti giusta l’assunzione a modello della l. 537/93, si ha conferma della validità metodologica dello studio dei “corsi ed i ricorsi storici” nella nostra legislazione. Rileva altresì la normativa regionale, anzitutto per verificare la legittimità di una delegificazione statale in materie di competenza regionale, quale si avrebbe secondo il disegno Bassanini, basato su un’interpretazione estensiva del potere sostitutivo (art. 120 Cost.) quantomeno controvertibile. La ricerca considera pertanto i precedenti sui “livelli minimi essenziali”(sent.181/06, sull’interpretazione stretta dell’art. 117 Cost.) e l’attualità della collaborazione tra livelli di governo ex l. 246/05 (intese Stato–Regioni). Più nel dettaglio, provvede a comparare i modelli di semplificazione regionali (talvolta precorritori di quelli statali: v. ll. 15/02 e 1/05 Lombardia) per enucleare i più virtuosi. A chiudere la disamina della semplificazione normativa, è la riflessione sui più recenti interventi positivi in materia, primo fra i quali emerge il d.l. n. 118/2008. Nella seconda parte considera inoltre la semplificazione amministrativa. Rilevano l’autocertificazione e la d.i.a. di cui alla l. 80/05, per il carattere innovativo ma anche per i fattori di complicazione ancora impliciti. L’art. 19 co. 2 L. n. 241/1990 contemplava infatti un regime particolarmente accelerato per l’inizio dell’attività imprenditoriale, sia pure soltanto per taluni casi da individuare con regolamento, in relazione ai quali prevedeva si potesse dare inizio all’attività nel momento immediatamente successivo alla denuncia. Il combinato disposto con il co. 1 (modificato dall’art. 2 co. 10 L.n. 537/1993), inoltre, assegnava all’Amministrazione un termine di sessanta giorni dalla denuncia di inizio attività per la verifica d’ufficio dei requisiti di legge necessari, e per disporre l’eventuale divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione dei suoi effetti. E’ una chance che, sia pure in soltanto con riguardo ai quei casi tassativamente elencati, vigente il nuovo art. 19 il privato non si vede più riconosciuta, essendo ora tenuto, in un momento che precede l’inizio dell’attività, a presentare una dichiarazione “corredata, anche per mezzo di autocertificazioni, delle certificazioni e delle attestazioni normative richieste” (art. 3 co. 1 d.l. n. 35/2005). Pertanto, decorsi i trenta giorni di cui l’amministrazione dispone per l’istruttoria e la comunicazione all’interessato, l’istante non può ancora dar corso allo svolgimento dell’attività, dovendo inoltrare una ulteriore comunicazione (non prevista nel regime ante riformam) all’amministrazione alla quale è stata presentata la denuncia. Il nuovo procedimento disegnato dall’art. 3 d.l. n. 35/2005, da questo sia pur limitato punto di vista, ha dunque aggravato gli adempimenti dell’interessato, sdoppiando la denuncia di inizio attività in una pre – denuncia (o dichiarazione della volontà di dare inizio ad una attività) ed in una comunicazione di “avvertimento dell’effettivo inizio dell’attività”. In una prospettiva de iure condendo la ricerca chiarisce inoltre il rapporto tra la dichiarazione di inizio attività e i “decreti – Bersani” del 2006, intervenuti nella piena vigenza ed applicazione della novellata dichiarazione di inizio attività, ma la cui disciplina attende tutt’ora di trovare compiuta applicazione e, come da più parti annunciato, adeguata correzione. Come si è avuto modo di considerare, uno dei pregi del d.l. n. 35/2005 consiste nel carattere generale della sua portata, attesa anche la sua collocazione sistematica nell’alveo della legge fondamentale sul procedimento amministrativo, tale da eliminare alla radice la necessità di interventi settoriali successivi. I c.d. “decreti Bersani”, invece, pur introducendo importanti novità in ordine allo start – up delle attività economiche, rappresentano per diversi aspetti il tendenziale ritorno ad un approccio atomistico alla semplificazione. L’attenzione va riposta in primo luogo sul d.l. n. 223/2006 (Disposizioni per il rilancio economico e sociale per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito nella l. n. 248/2006, che introduce tre importanti novità in ordine all’iscrizione negli albi e registri di categoria. L’art. 3 co. 1 lett. a) infatti abolisce l’iscrizione in “registri abilitanti” e fa venir meno la necessità di dimostrare requisiti professionali soggettivi - con esclusione dei requisiti riguardanti la tutela della salute e la tutela igienico sanitaria degli alimenti - in ordine ad una serie di attività di distribuzione commerciale “riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande”. Già l’applicazione di tale della previsione ha incontrato – e per alcuni versi ancora incontra - difficoltà di rilievo. L’abolizione dei registri si riferisce evidentemente al R.E.C., il registro esercenti commercio tenuto presso le Camere di Commercio. Il D.lgs. n. 114/1998, che disciplinava le condizioni di accesso all’iscrizione, prescriveva come necessari il possesso di requisiti morali e la dimostrazione da parte dell’interessato, in via alternativa, di: a) aver frequentato, con esito positivo, un corso professionale avente ad oggetto l’attività di somministrazione di alimenti e bavande istituito o riconosciuto dalle regioni; b) aver frequentato, con esito positivo, corsi di una scuola alberghiera o di altra scuola a specifico indirizzo professionale; c) aver superato un apposito esame di idoneità dinnanzi all’apposita commissione costituita presso la Camera di Commercio al quale si poteva accedere con il possesso di un titolo di studio universitario o di istruzione secondaria superiore, ovvero con la dimostrazione della c.d. pratica commerciale. Orbene, l’abolizione del R.E.C. si risolve in una semplificazione per i soggetti titolari dei requisiti a norma delle lett. a) e b), che possono ora rivolgersi direttamente al Comune per ottenere l’autorizzazione all’esercizio dell’attività, ma comporta, stando alla lettera, l’impossibilità di esercizio – e, contestualmente, l’impossibilità di accedere al regime della dichiarazione di inizio attività - per tutti quei soggetti che conseguivano i requisiti professionali a norma della lett. c), e quindi con la frequenza ai corsi di cui si investivano le Camere di commercio quali enti funzionali investite della gestione del R.E.C.: con l’abolizione di quest’ultimo, infatti, le Camere di commercio si trovano private infatti anche della relative funzioni. Sul punto, in attesa di un intervento correttivo, il Ministero dello sviluppo economico è ad oggi intervenuto con una sola comunicazione, che si limita peraltro a consentire lo svolgimento degli esami a favore di coloro ne avessero fatto istanza entro il 4 luglio 2006, data di adozione del decreto Bersani. Nell’evidenziare l’incompletezza della disciplina sovraesposta, emerge altresì come l’istruzione della comunicazione sia per lo meno lesiva del principio di legittimo affidamento di quanti avessero già conseguito l’attestato di frequenza del corso tenuto presso le Camere di Commercio. Non va inoltre sottaciuto, con una anticipazione dei propositi della ricerca che si esporranno nel paragrafo successivo, come la soluzione del problema coinvolga anche gli ordinamenti regionali, titolari, a norma dell’art. 117 co. 3 Cost., della competenza legislativa concorrente in materia di professioni. Al riguardo si osserva che la Regione Marche è già intervenuta sul punto con la l.r. n. 287/1991, perpetuando la possibilità di esame presso la Camera di Commercio, ai fini dell’attestazione del possesso del requisito professionale indispensabile – stante la permanenza dei requisiti relativi alla tutela della salute ed alla tutela igienico sanitaria degli alimenti - per l’esercizio dell’attività. Un altro settore commerciale interessato dal decreto Bersani è “la produzione e vendita di prodotti della panificazione”. La materia trovava disciplina nella l. n. 1002/1956, che nel combinato disposto degli artt. 2 e 3 prevedeva un iter piuttosto articolato: i soggetti interessati all’attività in oggetto, infatti, erano tenuti ad esperire ben due procedimenti di licitazione. In primo luogo dovevano conseguire un’autorizzazione rilasciata dalla Camera di commercio, tenuta a valutare, con l’ausilio di una apposita commissione, “l’opportunità del nuovo impianto in relazione alla densità dei panifici esistenti e del volume della produzione nella località ove è stata chiesta”. Ottenuta l’autorizzazione, l’effettivo esercizio dell’attività rimaneva peraltro subordinato al conseguimento di una licenza, rilasciata dalla medesima “Camera di commercio (…) previo accertamento della efficienza degli impianti e della loro rispondenza ai requisiti tecnici ed igienico-sanitari previsti dalla presente legge e dalle leggi e regolamenti vigenti anche in materia di igiene del lavoro (…)”. A ciò si aggiunga, ex art. 7, che le licenze di panificazione necessitavano di un visto annuale della Camera di commercio. Orbene, la novella del 2006 interviene ridisegnando ex novo l’istituto ed eliminando, in particolare, la programmazione e la valutazione discrezionale che si potevano evincere dal combinato disposto sopra ricordato. Ne consegue l’espressa sostituzione del regime complesso con la dichiarazione di inizio attività, secondo l’art. 19 l. n. 241/1990 come novellato che, nella fattispecie considerata, riversa un importante impatto di semplificazione. A completare il quadro degli interventi di semplificazione, è il d.l. n. 7/2007 (Misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese). La principale novità introdotta dal decreto è la “comunicazione unica” per la nascita d’impresa, disciplinata dall’art. 9, che rivoluziona il modello già vigente incardinato presso lo sportello unico per le imprese. La novella, anch’essa tutt’oggi inattuata, merita di essere confrontata nel combinato disposto con la dichiarazione di inizio attività e con la disciplina delle attribuzioni dello sportello unico per le attività produttive (sul punto, si deve osservare come anche la disciplina del titolo I l. n. 59/1997 sia attualmente oggetto di una serie di disegni di legge). A supportare l’interesse per un quadro normativo tanto asistematico, sempre più oscuro e di difficile interpretazione a causa delle modifiche ed abrogazioni implicite nella lettera delle norme, interviene inoltre il già citato disegno di legge Bassanini del 31 Marzo 2008, secondo il quale i procedimenti amministrativi dovranno concludersi entro trenta giorni. Peraltro lo stesso disegno di legge finisce col delegare il Governo ad emanare una serie di decreti ex art. 17 co. 3 l. n. 400/1988 al fine di ampliare il termine a 60 giorni in ordine a procedimenti vagamente definiti “complessi”, da individuare tassativamente, pari sino al 33,33% del totale dei procedimenti amministrativi. La stessa norma prevede inoltre, per un aggiuntivo 10% dei procedimenti amministrativi, una ulteriore dilatazione dei termini fino a 120 giorni. In sintesi, il 40% dei procedimenti amministrativi avrà un tempo medio di ben tre mesi. Tali previsioni, lungi dal semplificare, rischiano invero di inficiare i risultati ottenuti dalla riforma del decreto competitività del 2005, e di segnare il ritorno ad un approccio particolaristico, e perciò normativamente inflattivo, alla semplificazione dei procedimenti amministrativi. Per quanto attiene in particolare alla competenza regionale,la ricerca si propone anzitutto, sotto un profilo generale, di analizzare l’impatto degli istituti di semplificazione più significativi posti in essere dal legislatore statale, in specie della d.i.a., sulla legislazione regionale. Infatti l’art. 3 d.l. n. 35/2005, nel contenere una norma dalla vocazione generale, in virtù della quale ad essere identificati devono essere i soli casi di inapplicabilità, supera la diffusa tecnica legislativa a livello regionale diretta a determinare con regolamento i singoli casi di applicabilità della d.i.a. L’interesse per tale trattazione discende dalla considerazione che nell’ordinamento costituzionale previgente alla Riforma del Titolo V Cost., la l. n. 241/1990 rappresentava una legge – quadro, recante quindi i principi che le regioni avrebbero dovuto recepire nell’esercizio della potestà legislativa concorrente. Era l’art. 29 a definire i principi contenuti nella medesima l. n. 241/1990 quali principi generali dell’ordinamento giuridico, vincolanti sia per le regioni a statuto ordinario sia per quelle a statuto speciale, che vi si sarebbero dovute uniformare entro un anno dalla entrata in vigore dalla legge. Il procedimento amministrativo dunque, con la l. n. 241/1990, aspirava ad assumere il carattere dell’omogeneità su tutto il territorio nazionale. Tuttavia la l. cost. n. 131/2003 di riforma del Titolo V Cost., ha reso incerto il contesto di relazioni dell’esercizio dei compiti delle Regioni in ordine alla semplificazione dei procedimenti, in specie con riguardo all’ambito materiale delle attività produttive. La riforma del titolo V, infatti, ha determinato una rivoluzione copernicana nell’assetto competenziale Stato – Regioni, attribuendo alla legislazione regionale residuale (trattasi, come noto, di competenza piena, con il limite delle materie trasversali statali) le principali materie riferibili allo sviluppo economico ed alle attività produttive: basti pensare all’agricoltura, all’artigianato, al turismo e all’industria alberghiera, alla pesca (nelle acque interne), già elencate nell’art. 117 Cost. previgente tra le materie a competenza concorrente; ma anche all’industria ed al commercio che, oggi parimenti innominate, sono pure da annoverare nel novero della competenza residuale regionale. Ebbene, l’ampiezza dell’ambito di azione regionale trova un profilo problematico proprio in ordine alla portata dell’art. 19 l. n. 241/1990 in tali materie, in considerazione dell’impossibilità di riferirvi quanto previsto dall’art 1 co. 4 lett. b) della c.d. legge La Loggia, a norma del quale il legislatore statale deve indicare alle Regioni i principi fondamentali in materia di legislazione concorrente, anche con riferimento ai principi fondamentali in materia di autorizzazioni e concessioni: una previsione che, evidentemente, attiene alle materie elencate dal co. 3 dell’art. 117, ma non a quelle ascrivibili alla competenza residuale di cui al co. 4. La vexata quaestio, a ben vedere, discende dall’inclusione, tra le materie di competenza esclusiva statale, del solo “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato (…)”, e non anche del “procedimento amministrativo”. Essa si presta ad essere sciolta soltanto in via interpretativa: nell’ambito della ricerca sarà pertanto fondamentale orientare costituzionalmente l’analisi sul punto. In questa sede merita infatti di essere osservato come il ricorso alla “connessione naturale esistente fra la disciplina del procedimento e la materia dell’organizzazione”, sancita da C. cost. n. 465/1991 possa rappresentare un solido punto di partenza, che porterebbe a sostenere l’unicità ed omogeneità della disciplina del procedimento amministrativo tanto in ordine alle materie di cui al co. 3, a titolo di principi fondamentali, quanto in ordine alle materie di cui al co. 4, a titolo di competenza esclusiva statale trasversale. Ed infatti, proprio in questo senso, la citata sentenza della Corte costituzionale, sia pure nell’ambito di un obiter dictum, sembra offrire un aiuto alla soluzione dell’interrogativo, sancendo che “il procedimento amministrativo non coincide con uno specifico ambito materiale di competenza, in quanto modo di esercizio delle diverse competenze”. Esaurita siffatta trattazione, la ricerca svolge una disamina sugli ordinamenti regionali, al fine di offrire un quadro sulle forme di semplificazione poste in essere dai legislatori regionali ed esaminare i modelli virtuosi. E’ opportuno infatti rilevare che alcune Regioni hanno già avviato importanti processi di semplificazione e in alcuni casi, come in quello emblematico della abolizione dei libretti sanitari e di altri certificati analoghi (effettuata dalle leggi di alcune regioni come Lombardia e Emilia Romagna), si sono spinte molto in avanti, ottenendo peraltro l’avallo della Corte costituzionale (si veda la sent. n. 162 del 2004). La Regione Lombardia, in particolare, ha approvato nelle ultime due legislature una serie di significativi interventi in materia semplificazione amministrativa, tra i quali è opportuno ricordare la già citata l.r. n. 15/2002 che, oltre ad appianare l’ordinamento normativo, ha introdotto la denuncia di inizio attività in luogo degli atti autoritativi per le attività il cui esercizio non richieda preventive valutazioni discrezionali della P.A., ed il silenzio assenso. Con la l.r. n. 1/2005 (Interventi di semplificazione – Abrogazione di leggi e regolamenti regionali), inoltre, si segnala per le disposizioni relative alla liberalizzazione dell’attività d’impresa: a tal fine, prevede il principio che fa assurgere la d.i.a. a regola, e dispone che l’avvio, lo svolgimento, la trasformazione e la cessazione dell’attività d’impresa non siano soggetti a provvedimenti di autorizzazione, licenza o assenso.

Competitività e semplificazione normativa nel federalizing process

GRECO, ANTONIO
2009

Abstract

Nelle pagine che seguono ci si propone di ricostruire le politiche di semplificazione normativa ed amministrativa, in considerazione dei significati delle riforme di recente attuate o promosse. L’attualità del tema è infatti riferibile all’incessante produzione normativa in materia, come al vivo dibattito sulla forma federale disegnata dal riformato Titolo V. L’allarme destato da autorevoli ricerche di settore (nel 2006 la Banca mondiale ha posizionato l’Italia penultima tra i Paesi OCSE per complicazione normativa e amministrativa) e le pressioni di Confindustria e Unioncamere per la definizione di procedure adeguate alle istanze dell’economia, evidenziano un empasse di cui occorre individuare le cause. Punto di partenza è a tal fine la riconsiderazione dei pregressi tentativi di semplificazione, anzitutto a livello statale. L’apripista l.n. 537/93 prevedeva la semplificazione di 123 procedimenti tramite l’emanazione di appositi regolamenti. In ciò stava però il limite del modello, che finiva per attuarsi in un’alluvione di regolamenti e dunque in una complicazione. Stessa sorte per le ll. nn. 127/99, 191/98, 50/99, 340/00: la volontà di attribuire maggiori spazi ad interventi governativi di semplificazione portava a successive riformulazioni dei principi di delega, con confusione nelle direttive legislative e con la sostituzione dell’ipertrofia legislativa di primo grado con quella di secondo. Le innovazioni arrivavano con la l. 246/05 che, col meccanismo ghigliottina o taglia–norme, prevedeva un’ampia delega al Governo per l’abrogazione della normativa anteriore al 1.01.70 non ritenuta indispensabile. I dubbi di legittimità costituzionale sono però evidenti e quanto mai attuali visto il disegno di legge Bassanini del 31.03.08, che all’art 2 co. 3 e 4 ripropone la ghigliottina per tutte le disposizioni ormai prive di contenuto normativo o obsolete. Se si aggiunge che in tale proposta si ritrova lo spettro della proliferazione dei regolamenti giusta l’assunzione a modello della l. 537/93, si ha conferma della validità metodologica dello studio dei “corsi ed i ricorsi storici” nella nostra legislazione. Rileva altresì la normativa regionale, anzitutto per verificare la legittimità di una delegificazione statale in materie di competenza regionale, quale si avrebbe secondo il disegno Bassanini, basato su un’interpretazione estensiva del potere sostitutivo (art. 120 Cost.) quantomeno controvertibile. La ricerca considera pertanto i precedenti sui “livelli minimi essenziali”(sent.181/06, sull’interpretazione stretta dell’art. 117 Cost.) e l’attualità della collaborazione tra livelli di governo ex l. 246/05 (intese Stato–Regioni). Più nel dettaglio, provvede a comparare i modelli di semplificazione regionali (talvolta precorritori di quelli statali: v. ll. 15/02 e 1/05 Lombardia) per enucleare i più virtuosi. A chiudere la disamina della semplificazione normativa, è la riflessione sui più recenti interventi positivi in materia, primo fra i quali emerge il d.l. n. 118/2008. Nella seconda parte considera inoltre la semplificazione amministrativa. Rilevano l’autocertificazione e la d.i.a. di cui alla l. 80/05, per il carattere innovativo ma anche per i fattori di complicazione ancora impliciti. L’art. 19 co. 2 L. n. 241/1990 contemplava infatti un regime particolarmente accelerato per l’inizio dell’attività imprenditoriale, sia pure soltanto per taluni casi da individuare con regolamento, in relazione ai quali prevedeva si potesse dare inizio all’attività nel momento immediatamente successivo alla denuncia. Il combinato disposto con il co. 1 (modificato dall’art. 2 co. 10 L.n. 537/1993), inoltre, assegnava all’Amministrazione un termine di sessanta giorni dalla denuncia di inizio attività per la verifica d’ufficio dei requisiti di legge necessari, e per disporre l’eventuale divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione dei suoi effetti. E’ una chance che, sia pure in soltanto con riguardo ai quei casi tassativamente elencati, vigente il nuovo art. 19 il privato non si vede più riconosciuta, essendo ora tenuto, in un momento che precede l’inizio dell’attività, a presentare una dichiarazione “corredata, anche per mezzo di autocertificazioni, delle certificazioni e delle attestazioni normative richieste” (art. 3 co. 1 d.l. n. 35/2005). Pertanto, decorsi i trenta giorni di cui l’amministrazione dispone per l’istruttoria e la comunicazione all’interessato, l’istante non può ancora dar corso allo svolgimento dell’attività, dovendo inoltrare una ulteriore comunicazione (non prevista nel regime ante riformam) all’amministrazione alla quale è stata presentata la denuncia. Il nuovo procedimento disegnato dall’art. 3 d.l. n. 35/2005, da questo sia pur limitato punto di vista, ha dunque aggravato gli adempimenti dell’interessato, sdoppiando la denuncia di inizio attività in una pre – denuncia (o dichiarazione della volontà di dare inizio ad una attività) ed in una comunicazione di “avvertimento dell’effettivo inizio dell’attività”. In una prospettiva de iure condendo la ricerca chiarisce inoltre il rapporto tra la dichiarazione di inizio attività e i “decreti – Bersani” del 2006, intervenuti nella piena vigenza ed applicazione della novellata dichiarazione di inizio attività, ma la cui disciplina attende tutt’ora di trovare compiuta applicazione e, come da più parti annunciato, adeguata correzione. Come si è avuto modo di considerare, uno dei pregi del d.l. n. 35/2005 consiste nel carattere generale della sua portata, attesa anche la sua collocazione sistematica nell’alveo della legge fondamentale sul procedimento amministrativo, tale da eliminare alla radice la necessità di interventi settoriali successivi. I c.d. “decreti Bersani”, invece, pur introducendo importanti novità in ordine allo start – up delle attività economiche, rappresentano per diversi aspetti il tendenziale ritorno ad un approccio atomistico alla semplificazione. L’attenzione va riposta in primo luogo sul d.l. n. 223/2006 (Disposizioni per il rilancio economico e sociale per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito nella l. n. 248/2006, che introduce tre importanti novità in ordine all’iscrizione negli albi e registri di categoria. L’art. 3 co. 1 lett. a) infatti abolisce l’iscrizione in “registri abilitanti” e fa venir meno la necessità di dimostrare requisiti professionali soggettivi - con esclusione dei requisiti riguardanti la tutela della salute e la tutela igienico sanitaria degli alimenti - in ordine ad una serie di attività di distribuzione commerciale “riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande”. Già l’applicazione di tale della previsione ha incontrato – e per alcuni versi ancora incontra - difficoltà di rilievo. L’abolizione dei registri si riferisce evidentemente al R.E.C., il registro esercenti commercio tenuto presso le Camere di Commercio. Il D.lgs. n. 114/1998, che disciplinava le condizioni di accesso all’iscrizione, prescriveva come necessari il possesso di requisiti morali e la dimostrazione da parte dell’interessato, in via alternativa, di: a) aver frequentato, con esito positivo, un corso professionale avente ad oggetto l’attività di somministrazione di alimenti e bavande istituito o riconosciuto dalle regioni; b) aver frequentato, con esito positivo, corsi di una scuola alberghiera o di altra scuola a specifico indirizzo professionale; c) aver superato un apposito esame di idoneità dinnanzi all’apposita commissione costituita presso la Camera di Commercio al quale si poteva accedere con il possesso di un titolo di studio universitario o di istruzione secondaria superiore, ovvero con la dimostrazione della c.d. pratica commerciale. Orbene, l’abolizione del R.E.C. si risolve in una semplificazione per i soggetti titolari dei requisiti a norma delle lett. a) e b), che possono ora rivolgersi direttamente al Comune per ottenere l’autorizzazione all’esercizio dell’attività, ma comporta, stando alla lettera, l’impossibilità di esercizio – e, contestualmente, l’impossibilità di accedere al regime della dichiarazione di inizio attività - per tutti quei soggetti che conseguivano i requisiti professionali a norma della lett. c), e quindi con la frequenza ai corsi di cui si investivano le Camere di commercio quali enti funzionali investite della gestione del R.E.C.: con l’abolizione di quest’ultimo, infatti, le Camere di commercio si trovano private infatti anche della relative funzioni. Sul punto, in attesa di un intervento correttivo, il Ministero dello sviluppo economico è ad oggi intervenuto con una sola comunicazione, che si limita peraltro a consentire lo svolgimento degli esami a favore di coloro ne avessero fatto istanza entro il 4 luglio 2006, data di adozione del decreto Bersani. Nell’evidenziare l’incompletezza della disciplina sovraesposta, emerge altresì come l’istruzione della comunicazione sia per lo meno lesiva del principio di legittimo affidamento di quanti avessero già conseguito l’attestato di frequenza del corso tenuto presso le Camere di Commercio. Non va inoltre sottaciuto, con una anticipazione dei propositi della ricerca che si esporranno nel paragrafo successivo, come la soluzione del problema coinvolga anche gli ordinamenti regionali, titolari, a norma dell’art. 117 co. 3 Cost., della competenza legislativa concorrente in materia di professioni. Al riguardo si osserva che la Regione Marche è già intervenuta sul punto con la l.r. n. 287/1991, perpetuando la possibilità di esame presso la Camera di Commercio, ai fini dell’attestazione del possesso del requisito professionale indispensabile – stante la permanenza dei requisiti relativi alla tutela della salute ed alla tutela igienico sanitaria degli alimenti - per l’esercizio dell’attività. Un altro settore commerciale interessato dal decreto Bersani è “la produzione e vendita di prodotti della panificazione”. La materia trovava disciplina nella l. n. 1002/1956, che nel combinato disposto degli artt. 2 e 3 prevedeva un iter piuttosto articolato: i soggetti interessati all’attività in oggetto, infatti, erano tenuti ad esperire ben due procedimenti di licitazione. In primo luogo dovevano conseguire un’autorizzazione rilasciata dalla Camera di commercio, tenuta a valutare, con l’ausilio di una apposita commissione, “l’opportunità del nuovo impianto in relazione alla densità dei panifici esistenti e del volume della produzione nella località ove è stata chiesta”. Ottenuta l’autorizzazione, l’effettivo esercizio dell’attività rimaneva peraltro subordinato al conseguimento di una licenza, rilasciata dalla medesima “Camera di commercio (…) previo accertamento della efficienza degli impianti e della loro rispondenza ai requisiti tecnici ed igienico-sanitari previsti dalla presente legge e dalle leggi e regolamenti vigenti anche in materia di igiene del lavoro (…)”. A ciò si aggiunga, ex art. 7, che le licenze di panificazione necessitavano di un visto annuale della Camera di commercio. Orbene, la novella del 2006 interviene ridisegnando ex novo l’istituto ed eliminando, in particolare, la programmazione e la valutazione discrezionale che si potevano evincere dal combinato disposto sopra ricordato. Ne consegue l’espressa sostituzione del regime complesso con la dichiarazione di inizio attività, secondo l’art. 19 l. n. 241/1990 come novellato che, nella fattispecie considerata, riversa un importante impatto di semplificazione. A completare il quadro degli interventi di semplificazione, è il d.l. n. 7/2007 (Misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese). La principale novità introdotta dal decreto è la “comunicazione unica” per la nascita d’impresa, disciplinata dall’art. 9, che rivoluziona il modello già vigente incardinato presso lo sportello unico per le imprese. La novella, anch’essa tutt’oggi inattuata, merita di essere confrontata nel combinato disposto con la dichiarazione di inizio attività e con la disciplina delle attribuzioni dello sportello unico per le attività produttive (sul punto, si deve osservare come anche la disciplina del titolo I l. n. 59/1997 sia attualmente oggetto di una serie di disegni di legge). A supportare l’interesse per un quadro normativo tanto asistematico, sempre più oscuro e di difficile interpretazione a causa delle modifiche ed abrogazioni implicite nella lettera delle norme, interviene inoltre il già citato disegno di legge Bassanini del 31 Marzo 2008, secondo il quale i procedimenti amministrativi dovranno concludersi entro trenta giorni. Peraltro lo stesso disegno di legge finisce col delegare il Governo ad emanare una serie di decreti ex art. 17 co. 3 l. n. 400/1988 al fine di ampliare il termine a 60 giorni in ordine a procedimenti vagamente definiti “complessi”, da individuare tassativamente, pari sino al 33,33% del totale dei procedimenti amministrativi. La stessa norma prevede inoltre, per un aggiuntivo 10% dei procedimenti amministrativi, una ulteriore dilatazione dei termini fino a 120 giorni. In sintesi, il 40% dei procedimenti amministrativi avrà un tempo medio di ben tre mesi. Tali previsioni, lungi dal semplificare, rischiano invero di inficiare i risultati ottenuti dalla riforma del decreto competitività del 2005, e di segnare il ritorno ad un approccio particolaristico, e perciò normativamente inflattivo, alla semplificazione dei procedimenti amministrativi. Per quanto attiene in particolare alla competenza regionale,la ricerca si propone anzitutto, sotto un profilo generale, di analizzare l’impatto degli istituti di semplificazione più significativi posti in essere dal legislatore statale, in specie della d.i.a., sulla legislazione regionale. Infatti l’art. 3 d.l. n. 35/2005, nel contenere una norma dalla vocazione generale, in virtù della quale ad essere identificati devono essere i soli casi di inapplicabilità, supera la diffusa tecnica legislativa a livello regionale diretta a determinare con regolamento i singoli casi di applicabilità della d.i.a. L’interesse per tale trattazione discende dalla considerazione che nell’ordinamento costituzionale previgente alla Riforma del Titolo V Cost., la l. n. 241/1990 rappresentava una legge – quadro, recante quindi i principi che le regioni avrebbero dovuto recepire nell’esercizio della potestà legislativa concorrente. Era l’art. 29 a definire i principi contenuti nella medesima l. n. 241/1990 quali principi generali dell’ordinamento giuridico, vincolanti sia per le regioni a statuto ordinario sia per quelle a statuto speciale, che vi si sarebbero dovute uniformare entro un anno dalla entrata in vigore dalla legge. Il procedimento amministrativo dunque, con la l. n. 241/1990, aspirava ad assumere il carattere dell’omogeneità su tutto il territorio nazionale. Tuttavia la l. cost. n. 131/2003 di riforma del Titolo V Cost., ha reso incerto il contesto di relazioni dell’esercizio dei compiti delle Regioni in ordine alla semplificazione dei procedimenti, in specie con riguardo all’ambito materiale delle attività produttive. La riforma del titolo V, infatti, ha determinato una rivoluzione copernicana nell’assetto competenziale Stato – Regioni, attribuendo alla legislazione regionale residuale (trattasi, come noto, di competenza piena, con il limite delle materie trasversali statali) le principali materie riferibili allo sviluppo economico ed alle attività produttive: basti pensare all’agricoltura, all’artigianato, al turismo e all’industria alberghiera, alla pesca (nelle acque interne), già elencate nell’art. 117 Cost. previgente tra le materie a competenza concorrente; ma anche all’industria ed al commercio che, oggi parimenti innominate, sono pure da annoverare nel novero della competenza residuale regionale. Ebbene, l’ampiezza dell’ambito di azione regionale trova un profilo problematico proprio in ordine alla portata dell’art. 19 l. n. 241/1990 in tali materie, in considerazione dell’impossibilità di riferirvi quanto previsto dall’art 1 co. 4 lett. b) della c.d. legge La Loggia, a norma del quale il legislatore statale deve indicare alle Regioni i principi fondamentali in materia di legislazione concorrente, anche con riferimento ai principi fondamentali in materia di autorizzazioni e concessioni: una previsione che, evidentemente, attiene alle materie elencate dal co. 3 dell’art. 117, ma non a quelle ascrivibili alla competenza residuale di cui al co. 4. La vexata quaestio, a ben vedere, discende dall’inclusione, tra le materie di competenza esclusiva statale, del solo “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato (…)”, e non anche del “procedimento amministrativo”. Essa si presta ad essere sciolta soltanto in via interpretativa: nell’ambito della ricerca sarà pertanto fondamentale orientare costituzionalmente l’analisi sul punto. In questa sede merita infatti di essere osservato come il ricorso alla “connessione naturale esistente fra la disciplina del procedimento e la materia dell’organizzazione”, sancita da C. cost. n. 465/1991 possa rappresentare un solido punto di partenza, che porterebbe a sostenere l’unicità ed omogeneità della disciplina del procedimento amministrativo tanto in ordine alle materie di cui al co. 3, a titolo di principi fondamentali, quanto in ordine alle materie di cui al co. 4, a titolo di competenza esclusiva statale trasversale. Ed infatti, proprio in questo senso, la citata sentenza della Corte costituzionale, sia pure nell’ambito di un obiter dictum, sembra offrire un aiuto alla soluzione dell’interrogativo, sancendo che “il procedimento amministrativo non coincide con uno specifico ambito materiale di competenza, in quanto modo di esercizio delle diverse competenze”. Esaurita siffatta trattazione, la ricerca svolge una disamina sugli ordinamenti regionali, al fine di offrire un quadro sulle forme di semplificazione poste in essere dai legislatori regionali ed esaminare i modelli virtuosi. E’ opportuno infatti rilevare che alcune Regioni hanno già avviato importanti processi di semplificazione e in alcuni casi, come in quello emblematico della abolizione dei libretti sanitari e di altri certificati analoghi (effettuata dalle leggi di alcune regioni come Lombardia e Emilia Romagna), si sono spinte molto in avanti, ottenendo peraltro l’avallo della Corte costituzionale (si veda la sent. n. 162 del 2004). La Regione Lombardia, in particolare, ha approvato nelle ultime due legislature una serie di significativi interventi in materia semplificazione amministrativa, tra i quali è opportuno ricordare la già citata l.r. n. 15/2002 che, oltre ad appianare l’ordinamento normativo, ha introdotto la denuncia di inizio attività in luogo degli atti autoritativi per le attività il cui esercizio non richieda preventive valutazioni discrezionali della P.A., ed il silenzio assenso. Con la l.r. n. 1/2005 (Interventi di semplificazione – Abrogazione di leggi e regolamenti regionali), inoltre, si segnala per le disposizioni relative alla liberalizzazione dell’attività d’impresa: a tal fine, prevede il principio che fa assurgere la d.i.a. a regola, e dispone che l’avvio, lo svolgimento, la trasformazione e la cessazione dell’attività d’impresa non siano soggetti a provvedimenti di autorizzazione, licenza o assenso.
2009
Italiano
SEMPLIFICAZIONE NORMATIVA - SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA - RIFORMA TITOLO V - SVILUPPO ECONOMICO
Università degli studi di Padova
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