La sociologia delle istituzioni totali e quella dedicata al fenomeno religioso non si sono frequentemente incrociate sul tema della religione in carcere. In particolare, relativamente limitata e recente è la produzione scientifica riguardante la dimensione soggettiva, esperienziale ed interiore della religione nella vita dei carcerati. La presente ricerca ha inteso muovere esattamente verso quest'ordine di questioni scegliendo come proprio specifico obiettivo il vissuto religioso dei musulmani nelle prigioni italiane. Nel carcere i musulmani sembrano incontrare la replica esasperata del loro essere in quanto immigrati costretti in uno spazio caratterizzato da regole e da logiche estranei alla loro cultura di provenienza e spesso non facilmente mediabili con la spontaneità del loro comportamento. La religione quindi si presenta al musulmano che vive una condizione di avvilimento, di sconfitta esistenziale e di mortificazione nell'istituzione totale come una possibilità di ricostituzione di un autostima, e come accesso ad una ritrovata esperienza d'ordine nell'organizzazione della vita, oltre che ovviamente ma anche problematicamente come affermazione identitaria. L'indagine pertanto, pur dedicando ampia attenzione alla dimensione collettiva della presenza musulmana nelle carceri e al rapporto tra i detenuti di fede islamica e l'organizzazione delle strutture detentive, si è concentrata sulla ricostruzione dei modi in cui la religione opera nella dimensione soggettiva del detenuto. La tesi concentra nella sua prima parte il ripercorrimento delle essenziali linee della storia dell'istituzione carceraria, evidenziando il progressivo delinearsi al suo interno di uno spazio dedicato alla pratica religiosa, in parte imposta come forma di disciplinamento, in parte concepita come riconoscimento di una irriducibile dignità  spirituale del detenuto, evidenziando in relazione ad esso il ruolo progressivamente assunto dagli assistenti religiosi, per molto tempo figure uniche destinate ad una cura spirituale dei detenuti ed espressione dell'unica religione dominante, sino alla recente differenziarsi dei ruoli laici dell'educatore, dell'assistente sociale, dello psicologo... A partire da queste premesse si è poi proceduto a sottolineare quelli aspetti in alcune delle principali elaborazioni teoriche, sia sociologiche che antropologiche, che filosofiche della natura e dei significati dell'istituzione carceraria, che maggiormente sembrano costituire le premesse necessarie ad una messa a fuoco del tema prescelto. In questa chiave, si sono ripercorsi aspetti del pensiero di Durkheim, Kircheimer, Foucault e in particolare Goffman della cui nozione di Self si è fatto, come poi si vedrà, un uso particolarmente rilevante. In questa prospettiva si è anche tratteggiato lo stato presente degli studi dedicati in contesto europeo alla religione nell'istituzione totale sino a segnalare le caratteristiche e la portata degli studi che più recentemente in Inghlterra (Jim Beckford) ed in Francia (Farhad Khosrokhavar), hanno identificato con più precisione ed efficacia la questione della religiosità in carcere in una prospettiva capace di non trascurare la dimensione collettiva. La seconda parte del lavoro è quella in cui abbiamo esposto le modalità con le quali è concretamente avvenuta la ricerca e descritto ed analizzato i risultati della ricerca empirica condotta. L'indagine sviluppata in tre istituti di pena italiani si è svolta oltre che nella forma dell'osservazione etnografica e partecipante, soprattutto attraverso una serie di interviste in profondità, durante le quali si è dialogato con i detenuti ricorrendo ai diversi idiomi (Italiano, francese, Arabo Fusha, dialettali arabi, dialetto veneto...) che si combinano in vario modo nella loro vita quotidiana e che riferiscono in modo non univoco in una stessa persona della dimensione vissuta del rapporto con la religione. Dimensione alla quale è possibile accedere impegnando l'intervistato in un esercizio spesso non semplice né spontaneo, in cui la figura stessa dell'intervistatore viene ad essere implicata in un complesso gioco drammatico. A questo proposito, va ricordato in questo caso l'autore della ricerca contemporaneamente musulmano praticante e convinto attore della ricerca sociologica, si è trovato nella condizione di dover mettere a frutto un suo personale coinvolgimento nell'oggetto studiato, situazione non ignota alla problematica metodologica inerente a questo tipo di ricerca (Si vede il caso Quraishi). Si è trattato infatti di superare la resistenza di gran parte degli intervistati a concepire un discorso sulla religione non bloccato sul paino delle affermazioni di principio e sulla proclamazione di un'identità, ma ad assumere uno sforzo introspettivo rivolto ad evidenziare la dimensione complessa non univoca né facilmente circoscrivibile della religione come interiorità e come presenza pervasiva nelle diverse sfere dell'esistenza. In questa direzione. E' possibile andare superando la soglia vigilata da ciò che si è definito come Self islamico, ovvero un orizzonte simbolico socialmente condiviso da tutti i componenti della Umma che di per sé consentirebbe un rapporto semplice univoco e non contraddittorio di tutti e di ciascuno con ciò che religiosamente è vero e giusto. Il Self islamico rappresenta una cornice nella quale il musulmano può rifugiarsi ponendosi al riparo da qualsiasi incertezza, ma anche sbarrando la strada ad un complesso di interrogativi che la sua vita nel mondo di oggi ed in contesti culturali disomogenei non può non presentargli. Nelle interviste si è evidenziato quindi il darsi di identità plurime dove la diversità delle situazioni, il passaggio da una lingua ad una lingua, da discorso a discorso, segna anche un parziale mutamento identitario. Su questa linea, si è visto poi come la ricomposizione di sintesi identitarie sia ulteriormente complicato dal gioco dei riferimenti etnici, nazionali e dalle stesse identificazioni con quei contesti europei con i quali, pure non manca una continua tensione polemica. Si è quindi proceduto ad un'analisi dell'organizzazione dell'islam in carcere muovendo dalla dimensione collettiva e dalle questioni relative alle difficoltà che incontra la pratica della Salat e della preghiera nello spazio carcerario. Si è cercato, partendo da questo quadro, di identificare le principali tipologie di musulmano presente in carcere, dai riconvertiti ai non praticanti, passando per i multazimin ed i mutashaddin, sino ai cosiddetti sospesi., avendo modo di verificare come per il momento non si sia costituita in forma organizzata un vera e propria presenza fondamentalista. Comunque, tutti questi percorsi finiscono per alludere ad un complesso di questioni che affondano in un vissuto del quale raramente il detenuto riesce ad avere un effettivo controllo. Quanto più egli tende a ricevere, senza ridurla, o semplificarla preventivamente, la propria esperienza affiora una dimensione che potremo definire quella del Self esperienziale in cui le nozioni essenziali della religiosità musulmana si muovono in forma assai problematica, per un verso mantenendo ed esaltando la loro forza, per un altro richiedendo una valorizzazione del vissuto e della stessa esperienza intellettuale che le convinzioni dottrinali non sono in grado immediatamente di fornire. La comunicazione con Dio, il confronto quotidiano con gli assalti che Shaytan lancia contro la vulnerabilità della Nafs, sono un elemento tenacemente presente nella autointrospezione del musulmano, a maggior ragione quando, come avviene in carcere, l'esperienza del tempo si fa estrema e i temi del destino, del volontà di Dio, dell'incerto rapporto con il futuro e dell'incombere della morte ritornano insistenti. Rispetto a queste aperture abissali, la ripresa della pratica religiosa a cui si assiste in carcere si configura come tentativo di dare struttura ed ordine alla giornata, ma anche alle emotività al corpo, alle relazioni interpersonali, qualcosa che oscilla tra l'intensità ascetica e l'esperienza mistica per un verso, ed un'analgesica occupazione del tempo. Una considerazione che per altro sembra giustificata, quanto più si apprezzi la complessità anche contraddittoria verso la quale va la narrazione di sé del detenuto musulmano, stimolato sul tema del suo rapporto con l'islam, è l'indistricabilità dell'intreccio che ormai sembra essersi formato tra categorie islamiche e articolazioni esperienziali ed ideologiche delle culture europee. Per questo anche dal carcere sembra provenire una richiesta, che spesso non sa trovare una giusta formulazione che chiede contemporaneamente riconoscimento dell'identità islamica, ma anche collocazione di questa nell'insieme delle molte dimensioni che costituiscono la realtà europea ed innanzitutto degli stessi musulmani d'Europa. Ritorna frequente anche in carcere il disagio di musulmani che si sentono mediati dal loro rapporto con l'occidente, dalla strada al carcere, da stereotipi con i quali sentono di avere molto a che spartire ma che si sentono comunque costretti a subire in maniera non diversa da come si sottomettono ai regolamenti dei penitenziari.

L'islam in carcere. Il vissuto religioso dei musulmani nelle prigioni italiane

BRANDALISE RHAZZALI, MOHAMMED KHALID
2009

Abstract

La sociologia delle istituzioni totali e quella dedicata al fenomeno religioso non si sono frequentemente incrociate sul tema della religione in carcere. In particolare, relativamente limitata e recente è la produzione scientifica riguardante la dimensione soggettiva, esperienziale ed interiore della religione nella vita dei carcerati. La presente ricerca ha inteso muovere esattamente verso quest'ordine di questioni scegliendo come proprio specifico obiettivo il vissuto religioso dei musulmani nelle prigioni italiane. Nel carcere i musulmani sembrano incontrare la replica esasperata del loro essere in quanto immigrati costretti in uno spazio caratterizzato da regole e da logiche estranei alla loro cultura di provenienza e spesso non facilmente mediabili con la spontaneità del loro comportamento. La religione quindi si presenta al musulmano che vive una condizione di avvilimento, di sconfitta esistenziale e di mortificazione nell'istituzione totale come una possibilità di ricostituzione di un autostima, e come accesso ad una ritrovata esperienza d'ordine nell'organizzazione della vita, oltre che ovviamente ma anche problematicamente come affermazione identitaria. L'indagine pertanto, pur dedicando ampia attenzione alla dimensione collettiva della presenza musulmana nelle carceri e al rapporto tra i detenuti di fede islamica e l'organizzazione delle strutture detentive, si è concentrata sulla ricostruzione dei modi in cui la religione opera nella dimensione soggettiva del detenuto. La tesi concentra nella sua prima parte il ripercorrimento delle essenziali linee della storia dell'istituzione carceraria, evidenziando il progressivo delinearsi al suo interno di uno spazio dedicato alla pratica religiosa, in parte imposta come forma di disciplinamento, in parte concepita come riconoscimento di una irriducibile dignità  spirituale del detenuto, evidenziando in relazione ad esso il ruolo progressivamente assunto dagli assistenti religiosi, per molto tempo figure uniche destinate ad una cura spirituale dei detenuti ed espressione dell'unica religione dominante, sino alla recente differenziarsi dei ruoli laici dell'educatore, dell'assistente sociale, dello psicologo... A partire da queste premesse si è poi proceduto a sottolineare quelli aspetti in alcune delle principali elaborazioni teoriche, sia sociologiche che antropologiche, che filosofiche della natura e dei significati dell'istituzione carceraria, che maggiormente sembrano costituire le premesse necessarie ad una messa a fuoco del tema prescelto. In questa chiave, si sono ripercorsi aspetti del pensiero di Durkheim, Kircheimer, Foucault e in particolare Goffman della cui nozione di Self si è fatto, come poi si vedrà, un uso particolarmente rilevante. In questa prospettiva si è anche tratteggiato lo stato presente degli studi dedicati in contesto europeo alla religione nell'istituzione totale sino a segnalare le caratteristiche e la portata degli studi che più recentemente in Inghlterra (Jim Beckford) ed in Francia (Farhad Khosrokhavar), hanno identificato con più precisione ed efficacia la questione della religiosità in carcere in una prospettiva capace di non trascurare la dimensione collettiva. La seconda parte del lavoro è quella in cui abbiamo esposto le modalità con le quali è concretamente avvenuta la ricerca e descritto ed analizzato i risultati della ricerca empirica condotta. L'indagine sviluppata in tre istituti di pena italiani si è svolta oltre che nella forma dell'osservazione etnografica e partecipante, soprattutto attraverso una serie di interviste in profondità, durante le quali si è dialogato con i detenuti ricorrendo ai diversi idiomi (Italiano, francese, Arabo Fusha, dialettali arabi, dialetto veneto...) che si combinano in vario modo nella loro vita quotidiana e che riferiscono in modo non univoco in una stessa persona della dimensione vissuta del rapporto con la religione. Dimensione alla quale è possibile accedere impegnando l'intervistato in un esercizio spesso non semplice né spontaneo, in cui la figura stessa dell'intervistatore viene ad essere implicata in un complesso gioco drammatico. A questo proposito, va ricordato in questo caso l'autore della ricerca contemporaneamente musulmano praticante e convinto attore della ricerca sociologica, si è trovato nella condizione di dover mettere a frutto un suo personale coinvolgimento nell'oggetto studiato, situazione non ignota alla problematica metodologica inerente a questo tipo di ricerca (Si vede il caso Quraishi). Si è trattato infatti di superare la resistenza di gran parte degli intervistati a concepire un discorso sulla religione non bloccato sul paino delle affermazioni di principio e sulla proclamazione di un'identità, ma ad assumere uno sforzo introspettivo rivolto ad evidenziare la dimensione complessa non univoca né facilmente circoscrivibile della religione come interiorità e come presenza pervasiva nelle diverse sfere dell'esistenza. In questa direzione. E' possibile andare superando la soglia vigilata da ciò che si è definito come Self islamico, ovvero un orizzonte simbolico socialmente condiviso da tutti i componenti della Umma che di per sé consentirebbe un rapporto semplice univoco e non contraddittorio di tutti e di ciascuno con ciò che religiosamente è vero e giusto. Il Self islamico rappresenta una cornice nella quale il musulmano può rifugiarsi ponendosi al riparo da qualsiasi incertezza, ma anche sbarrando la strada ad un complesso di interrogativi che la sua vita nel mondo di oggi ed in contesti culturali disomogenei non può non presentargli. Nelle interviste si è evidenziato quindi il darsi di identità plurime dove la diversità delle situazioni, il passaggio da una lingua ad una lingua, da discorso a discorso, segna anche un parziale mutamento identitario. Su questa linea, si è visto poi come la ricomposizione di sintesi identitarie sia ulteriormente complicato dal gioco dei riferimenti etnici, nazionali e dalle stesse identificazioni con quei contesti europei con i quali, pure non manca una continua tensione polemica. Si è quindi proceduto ad un'analisi dell'organizzazione dell'islam in carcere muovendo dalla dimensione collettiva e dalle questioni relative alle difficoltà che incontra la pratica della Salat e della preghiera nello spazio carcerario. Si è cercato, partendo da questo quadro, di identificare le principali tipologie di musulmano presente in carcere, dai riconvertiti ai non praticanti, passando per i multazimin ed i mutashaddin, sino ai cosiddetti sospesi., avendo modo di verificare come per il momento non si sia costituita in forma organizzata un vera e propria presenza fondamentalista. Comunque, tutti questi percorsi finiscono per alludere ad un complesso di questioni che affondano in un vissuto del quale raramente il detenuto riesce ad avere un effettivo controllo. Quanto più egli tende a ricevere, senza ridurla, o semplificarla preventivamente, la propria esperienza affiora una dimensione che potremo definire quella del Self esperienziale in cui le nozioni essenziali della religiosità musulmana si muovono in forma assai problematica, per un verso mantenendo ed esaltando la loro forza, per un altro richiedendo una valorizzazione del vissuto e della stessa esperienza intellettuale che le convinzioni dottrinali non sono in grado immediatamente di fornire. La comunicazione con Dio, il confronto quotidiano con gli assalti che Shaytan lancia contro la vulnerabilità della Nafs, sono un elemento tenacemente presente nella autointrospezione del musulmano, a maggior ragione quando, come avviene in carcere, l'esperienza del tempo si fa estrema e i temi del destino, del volontà di Dio, dell'incerto rapporto con il futuro e dell'incombere della morte ritornano insistenti. Rispetto a queste aperture abissali, la ripresa della pratica religiosa a cui si assiste in carcere si configura come tentativo di dare struttura ed ordine alla giornata, ma anche alle emotività al corpo, alle relazioni interpersonali, qualcosa che oscilla tra l'intensità ascetica e l'esperienza mistica per un verso, ed un'analgesica occupazione del tempo. Una considerazione che per altro sembra giustificata, quanto più si apprezzi la complessità anche contraddittoria verso la quale va la narrazione di sé del detenuto musulmano, stimolato sul tema del suo rapporto con l'islam, è l'indistricabilità dell'intreccio che ormai sembra essersi formato tra categorie islamiche e articolazioni esperienziali ed ideologiche delle culture europee. Per questo anche dal carcere sembra provenire una richiesta, che spesso non sa trovare una giusta formulazione che chiede contemporaneamente riconoscimento dell'identità islamica, ma anche collocazione di questa nell'insieme delle molte dimensioni che costituiscono la realtà europea ed innanzitutto degli stessi musulmani d'Europa. Ritorna frequente anche in carcere il disagio di musulmani che si sentono mediati dal loro rapporto con l'occidente, dalla strada al carcere, da stereotipi con i quali sentono di avere molto a che spartire ma che si sentono comunque costretti a subire in maniera non diversa da come si sottomettono ai regolamenti dei penitenziari.
2009
Italiano
Islam, carcere, soggettività, istituzione totale, Corano, Umma, Fondamentalismo
Università degli studi di Padova
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Il codice NBN di questa tesi è URN:NBN:IT:UNIPD-118279