Oggetto della presente ricerca è il rapporto tra morte e diritto, con particolare riferimento alla definizione legale di morte introdotta dalla L. 578/1993 ed alle implicazioni giuridiche ed etico-filosofiche ad essa connesse. Lo spostamento ai fini della determinazione del decesso, da un criterio cardio-respiratorio ad uno neurologico sembra sottendere infatti una precisa opzione ideologica secondo cui elemento rilevante ai fini di connotare la persona sarebbe unicamente la componente encefalica (più o meno estesamente considerata). Nella prima parte dell’elaborato si è ricostruito quindi il percorso che ha condotto all’affermazione del concetto di morte cerebrale e al suo accoglimento nell’ordinamento italiano, soffermandosi altresì sulle tre accezioni in cui tale concetto può declinarsi. L’indagine compiuta è stata volta quindi a verificare se la definizione di morte accolta dal legislatore del 1993 possa considerarsi ancora “valida” oppure se, di fatto, non risulti soppiantata dalle scelte operate dalla recente giurisprudenza, che nei cosiddetti casi di confine sembra attagliarsi ad un concetto di morte formulato nei parziali termini della morte corticale. Nella seconda parte viene dunque analizzato il dato giurisprudenziale al fine di evidenziare tale suo allontanamento rispetto alla scelta operata dal legislatore. A questo riguardo si è cercato di mostrare come la considerazione del dato personale, che sicuramente deve considerarsi imprescindibile, rischi tuttavia di diventare solo una façon de parler, nel momento in cui esso viene ridotto alla mera capacità di manifestazione di determinate funzioni, tra le quali precipuamente quelle volitive e di coscienza presiedute dalla parte superiore dell’encefalo. Si ritiene cioè che la perdita della visione olistica dell’essere umano tipica della modernità, che la definizione della morte in termini neurologici ha contribuito a fomentare, rischia di condurre ad un atteggiamento empirista e riduzionista in conseguenza del quale la persona, invece che essere oggetto precipuo di tutela, ne viene esclusa tutte le volte in cui non possa più considerarsi tale, perché priva di quelle funzioni o in esse anche solo menomata. Nell’ultima parte dell’elaborato viene dunque affrontata la questione dal punto di vista filosofico per verificare quale sia la concezione antropologica sottesa alle diverse impostazioni sviluppatesi sul tema e quali le implicazioni che da ciascuna di essa possono derivare. A tal fine, siamo ricorsi a tre figure che a nostro avviso possono considerarsi emblematiche del dibattito passato e presente: Hans Jonas, Peter Singer e Robert Spaemann.
Morte e diritto. Riflessioni sulla fine della vita dell'uomo postmoderno
ROSINA, SILVIA
2014
Abstract
Oggetto della presente ricerca è il rapporto tra morte e diritto, con particolare riferimento alla definizione legale di morte introdotta dalla L. 578/1993 ed alle implicazioni giuridiche ed etico-filosofiche ad essa connesse. Lo spostamento ai fini della determinazione del decesso, da un criterio cardio-respiratorio ad uno neurologico sembra sottendere infatti una precisa opzione ideologica secondo cui elemento rilevante ai fini di connotare la persona sarebbe unicamente la componente encefalica (più o meno estesamente considerata). Nella prima parte dell’elaborato si è ricostruito quindi il percorso che ha condotto all’affermazione del concetto di morte cerebrale e al suo accoglimento nell’ordinamento italiano, soffermandosi altresì sulle tre accezioni in cui tale concetto può declinarsi. L’indagine compiuta è stata volta quindi a verificare se la definizione di morte accolta dal legislatore del 1993 possa considerarsi ancora “valida” oppure se, di fatto, non risulti soppiantata dalle scelte operate dalla recente giurisprudenza, che nei cosiddetti casi di confine sembra attagliarsi ad un concetto di morte formulato nei parziali termini della morte corticale. Nella seconda parte viene dunque analizzato il dato giurisprudenziale al fine di evidenziare tale suo allontanamento rispetto alla scelta operata dal legislatore. A questo riguardo si è cercato di mostrare come la considerazione del dato personale, che sicuramente deve considerarsi imprescindibile, rischi tuttavia di diventare solo una façon de parler, nel momento in cui esso viene ridotto alla mera capacità di manifestazione di determinate funzioni, tra le quali precipuamente quelle volitive e di coscienza presiedute dalla parte superiore dell’encefalo. Si ritiene cioè che la perdita della visione olistica dell’essere umano tipica della modernità, che la definizione della morte in termini neurologici ha contribuito a fomentare, rischia di condurre ad un atteggiamento empirista e riduzionista in conseguenza del quale la persona, invece che essere oggetto precipuo di tutela, ne viene esclusa tutte le volte in cui non possa più considerarsi tale, perché priva di quelle funzioni o in esse anche solo menomata. Nell’ultima parte dell’elaborato viene dunque affrontata la questione dal punto di vista filosofico per verificare quale sia la concezione antropologica sottesa alle diverse impostazioni sviluppatesi sul tema e quali le implicazioni che da ciascuna di essa possono derivare. A tal fine, siamo ricorsi a tre figure che a nostro avviso possono considerarsi emblematiche del dibattito passato e presente: Hans Jonas, Peter Singer e Robert Spaemann.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/118389
URN:NBN:IT:UNIPD-118389