La presente ricerca è volta ad analizzare l’impatto delle sanzioni individuali, adottate dal Consiglio di sicurezza sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite nei confronti di determinate persone fisiche o giuridiche sospettate di compiere attività di terrorismo internazionale, sul sistema di protezione dei diritti umani delineato dalla CEDU. La lotta al terrorismo internazionale si colloca in un “sistema multilivello”; le misure sanzionatorie individuali sono imposte da una risoluzione vincolante del Consiglio di sicurezza che gli Stati devono rispettare. In virtù del combinato disposto degli artt. 25 e 103 della Carta, il primato assicurato dall’art. 103 agli obblighi derivanti dalla Carta si estende anche alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza. In ragione delle specifiche competenze dell’Unione europea in materia di esecuzione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, l’immediata attuazione delle sanzioni individuali avviene attraverso l’adozione di appositi regolamenti UE. Infine, gli Stati devono provvedere all’esecuzione materiale delle misure sanzionatorie individuali, adottando provvedimenti di tipo restrittivo nei confronti dei presunti terroristi, quali il congelamento dei loro beni, la preclusione delle attività economiche e la limitazione della loro libertà di movimento. La nostra indagine parte dal presupposto che le sanzioni individuali imposte dal Consiglio di sicurezza si collocano all’interno dell’ordinamento internazionale; ciò comporta che sia l’interpretazione sia l’applicazione delle sanzioni individuali va contestualizzata nell’insieme del sistema giuridico internazionale. Difatti ogni singola norma internazionale non può essere considerata isolatamente, ma va inserita nel sistema internazionale complessivamente considerato e armonizzata ad esso. Le sanzioni individuali producono notevoli riflessi nel campo della tutela dei diritti umani poiché l’imposizione di simili misure restrittive pone rilevanti problemi di compatibilità con i diritti fondamentali della persona, riconosciuti e garantiti da specifiche convenzioni, a carattere universale o regionale. Da più parti sono emerse preoccupazioni per la protezione dei diritti degli individui i cui nominativi vengono inseriti nelle black list, specialmente per quanto riguarda il rispetto delle loro garanzie processuali fondamentali. La premessa da cui si muove nella presente ricerca è l’esistenza in capo alla stessa Organizzazione delle Nazioni Unite dell’obbligo di rispettare i diritti umani. Come si è visto nella prima parte del lavoro, la tutela dei diritti umani rientra tra gli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite; di conseguenza, le azioni delle Nazioni Unite e degli Stati membri devono avvenire nel pieno rispetto dei diritti umani, e ciò dovrebbe valere a maggior ragione per il Consiglio di sicurezza. A nostro avviso, la mancata previsione all’interno della Carta di limiti sostanziali all’azione del Consiglio di sicurezza rispetto alle azioni ex capitolo VII è superabile con l’ausilio dell’interpretazione “sistemica” espressa nell’art. 31, par. 3, lett. c), della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. L’utilizzo di questa tecnica interpretativa consente di integrare il sistema normativo delle Nazioni Unite con le norme in materia di diritti umani esistenti nell’ordinamento internazionale, sia a livello pattizio che a livello consuetudinario, onde individuare lo standard normativo in tema di diritti umani che il Consiglio di sicurezza deve rispettare allorché agisce ex capitolo VII della Carta. Invero, la prassi attuale del Consiglio di sicurezza denota che tale organo ha accettato implicitamente il limite generale del rispetto dei diritti dell’uomo. Nelle risoluzioni più recenti del Consiglio di sicurezza si ritrova spesso la c.d. “human rights clause”, ossia una clausola generale di rinvio ai principi generali vigenti nell’ordinamento internazionale in materia di diritti umani, avente lo scopo di precisare che gli obblighi di dare esecuzione alle risoluzioni vincolanti del Consiglio coesistono con gli obblighi di rispettare i diritti umani. La validità di questa interpretazione è confermata dalla sentenza emessa dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Al-Jedda, ove si è asserito che il potenziale contrasto tra obblighi si supera attraverso un’interpretazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza che sia il più possibile in armonia con i principi in materia di diritti umani fondamentali. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha inoltre fornito delle importanti indicazioni sul rapporto intercorrente tra la CEDU e la Carta delle Nazioni Unite. Dai casi Behrami e Saramati è emerso che la Convenzione non può essere interpretata in modo tale da sottoporre al vaglio della Corte di Strasburgo le azioni o le omissioni degli Stati contraenti, coperte dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza e accadute prima o durante le operazioni di pace stabilite dalle risoluzioni del Consiglio ex capitolo VII della Carta. A nostro avviso, questi casi hanno dimostrato che nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo la dottrina del vacuum giuridico non ha avuto un mero valore interpretativo, ma ha assunto altresì valenza di coordinamento ratione materiae, configurando una sostanziale incompetenza della Corte rispetto alle azioni “coperte” dalle decisioni del Consiglio di sicurezza adottate ai sensi del capitolo VII della Carta. Tuttavia, l’affermazione contenuta nella sentenza della Corte europea nel caso Al Jedda circa la presunzione di conformità delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza con gli obblighi in materia di diritti umani incombenti sugli Stati contraenti della CEDU pare indicare una svolta. La Corte sembra quasi voler ammettere la possibilità di vagliare la condotta dello Stato parte se nel caso concreto si ravvisi che lo Stato ha violato gli obblighi discendenti dalla CEDU, travisando le indicazioni fornite dalle stesse risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Un’altra questione di grande rilievo per la tematica delle sanzioni individuali riguarda l’eventualità che la Corte europea dei diritti dell’uomo possa riproporre la dottrina della protezione equivalente anche per le misure sanzionatorie individuali. A nostro avviso, per le risoluzioni del Consiglio di sicurezza che istituiscono sanzioni individuali non potrà trovare applicazione la presunzione di equivalenza; si tratta di un ambito in cui gli Stati conservano un certo margine di discrezionalità, come confermato dalle stesse risoluzioni del Consiglio che pongono l’obbligo in capo agli Stati membri dell’ONU di adottare provvedimenti restrittivi nei confronti dei sospetti terroristi, attraverso il congelamento dei loro beni, la preclusione delle attività economiche e la limitazione della loro libertà di circolazione, ma nulla dispongono circa le concrete modalità di attuazione di tale obbligo, lasciando evidentemente uno spazio di discrezionalità agli Stati. Invero, l’esecuzione materiale delle sanzioni si svolge a livello statale. Nella seconda parte del lavoro è stata valutata la compatibilità del sistema delle sanzioni individuali rispetto agli standard normativi sui diritti umani, con particolare riguardo alla CEDU. Nel sistema delle Nazioni Unite la protezione dei diritti spettanti ai destinatari di sanzioni è insoddisfacente, specie per il profilo delle garanzie processuali fondamentali. La procedura di listing non riconosce al soggetto interessato il diritto di essere sentito, né di presentare le proprie difese o di essere informato sulle accuse presenti a suo carico prima dell’inserimento del nominativo nelle liste nere. Nemmeno a livello dell’UE la procedura di listing garantisce i diritti di difesa dei soggetti colpiti da sanzioni. È evidente che i destinatari delle sanzioni non hanno tuttora a disposizione un meccanismo internazionale che possa valutare la fondatezza delle informazioni che costituiscono la base del loro listing o la proporzionalità delle misure applicate nei loro confronti. Anche la procedura di de-listing è sprovvista delle necessarie garanzie processuali; il soggetto interessato ha la mera possibilità di sottoporre una richiesta di cancellazione all’Ombudsperson (oppure al Focal Point per i soggetti iscritti nella lista del Comitato 1988), che trasmetterà la richiesta ai membri del Comitato delle sanzioni. Si tratta però di una procedura a carattere diplomatico, di certo non sufficiente a garantire una tutela efficace agli individui destinatari di sanzioni, né ad assicurare un autonomo ius standi dei privati. Per essere in linea con gli standard normativi della CEDU il sistema sanzionatorio dovrebbe garantire almeno il nucleo minimo di garanzie processuali essenziali individuato dalla Corte di Giustizia nel caso Kadi: la natura indipendente dell’organo giurisdizionale, il diritto alla difesa, il diritto al contraddittorio, il diritto a un ricorso giurisdizionale effettivo e la motivazione del provvedimento. In particolare, per poter validamente contestare l’iscrizione del loro nominativo sulla lista nera gli individui destinatari di sanzioni dovrebbero aver la possibilità di far riesaminare la misura restrittiva da un organo indipendente ed imparziale, dotato del potere di pronunciarsi sulla legalità della misura, in un procedimento che si svolga nel pieno rispetto del contraddittorio. In dottrina sono state prospettate diverse soluzioni per assicurare una protezione adeguata ai diritti degli individui colpiti da sanzioni. A nostro avviso, la possibile tutela offerta dall’ordinamento dell’Unione non rappresenta tuttavia una soluzione a carattere generale idonea a garantire in ogni caso il rispetto dei diritti fondamentali degli individui destinatari di sanzioni. Difatti, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Corte di giustizia potrebbe dover parzialmente riconsiderare il ragionamento svolto nel caso Kadi. L’art. 21, par. 1, della versione consolidata del TUE, secondo cui l’azione dell’Unione sulla scena internazionale deve avvenire “nel rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”, sembra indicare che l’Unione abbia introdotto l’obbligo di adeguamento alla Carta e al diritto internazionale tra le norme primarie dell’UE. Di conseguenza, si assisterebbe a un accrescimento dell’importanza degli obblighi incombenti sugli Stati membri in virtù della loro partecipazione all’ONU (tra cui l’obbligo di dare attuazione alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza che impongono sanzioni individuali) e la Corte di giustizia dovrebbe svolgere un bilanciamento tra le esigenze codificate da due norme primarie dell’UE: l’obbligo di rispettare i diritti umani (di cui all’art. 6 TUE) e l’obbligo di rispettare la Carta delle Nazioni Unite, ai sensi dell’art. 21, par. 1, TUE. Nemmeno le giurisdizioni nazionali sembrano essere una soluzione idonea, poiché sussiste sempre il rischio di trattamenti differenziati. A nostro avviso, l’ipotesi più convincente è quella di predisporre a livello delle Nazioni Unite le necessarie garanzie processuali per gli individui destinatari di sanzioni. A tal fine si potrebbe istituire un meccanismo che preveda la partecipazione di esperti indipendenti già nella fase del listing oppure creare un tribunale internazionale ad hoc in seno alle Nazioni Unite, avente il compito di giudicare sui ricorsi presentati dai soggetti colpiti da sanzioni, in un procedimento in contradditorio tra le parti. Quest’ultima soluzione, oltre a riconoscere un autonomo ius standi ai privati, avrebbe il vantaggio di garantire uno standard uniforme di trattamento.
L'impatto delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU sul sistema di protezione dei diritti umani della CEDU
Delia, Rudan
2012
Abstract
La presente ricerca è volta ad analizzare l’impatto delle sanzioni individuali, adottate dal Consiglio di sicurezza sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite nei confronti di determinate persone fisiche o giuridiche sospettate di compiere attività di terrorismo internazionale, sul sistema di protezione dei diritti umani delineato dalla CEDU. La lotta al terrorismo internazionale si colloca in un “sistema multilivello”; le misure sanzionatorie individuali sono imposte da una risoluzione vincolante del Consiglio di sicurezza che gli Stati devono rispettare. In virtù del combinato disposto degli artt. 25 e 103 della Carta, il primato assicurato dall’art. 103 agli obblighi derivanti dalla Carta si estende anche alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza. In ragione delle specifiche competenze dell’Unione europea in materia di esecuzione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, l’immediata attuazione delle sanzioni individuali avviene attraverso l’adozione di appositi regolamenti UE. Infine, gli Stati devono provvedere all’esecuzione materiale delle misure sanzionatorie individuali, adottando provvedimenti di tipo restrittivo nei confronti dei presunti terroristi, quali il congelamento dei loro beni, la preclusione delle attività economiche e la limitazione della loro libertà di movimento. La nostra indagine parte dal presupposto che le sanzioni individuali imposte dal Consiglio di sicurezza si collocano all’interno dell’ordinamento internazionale; ciò comporta che sia l’interpretazione sia l’applicazione delle sanzioni individuali va contestualizzata nell’insieme del sistema giuridico internazionale. Difatti ogni singola norma internazionale non può essere considerata isolatamente, ma va inserita nel sistema internazionale complessivamente considerato e armonizzata ad esso. Le sanzioni individuali producono notevoli riflessi nel campo della tutela dei diritti umani poiché l’imposizione di simili misure restrittive pone rilevanti problemi di compatibilità con i diritti fondamentali della persona, riconosciuti e garantiti da specifiche convenzioni, a carattere universale o regionale. Da più parti sono emerse preoccupazioni per la protezione dei diritti degli individui i cui nominativi vengono inseriti nelle black list, specialmente per quanto riguarda il rispetto delle loro garanzie processuali fondamentali. La premessa da cui si muove nella presente ricerca è l’esistenza in capo alla stessa Organizzazione delle Nazioni Unite dell’obbligo di rispettare i diritti umani. Come si è visto nella prima parte del lavoro, la tutela dei diritti umani rientra tra gli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite; di conseguenza, le azioni delle Nazioni Unite e degli Stati membri devono avvenire nel pieno rispetto dei diritti umani, e ciò dovrebbe valere a maggior ragione per il Consiglio di sicurezza. A nostro avviso, la mancata previsione all’interno della Carta di limiti sostanziali all’azione del Consiglio di sicurezza rispetto alle azioni ex capitolo VII è superabile con l’ausilio dell’interpretazione “sistemica” espressa nell’art. 31, par. 3, lett. c), della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. L’utilizzo di questa tecnica interpretativa consente di integrare il sistema normativo delle Nazioni Unite con le norme in materia di diritti umani esistenti nell’ordinamento internazionale, sia a livello pattizio che a livello consuetudinario, onde individuare lo standard normativo in tema di diritti umani che il Consiglio di sicurezza deve rispettare allorché agisce ex capitolo VII della Carta. Invero, la prassi attuale del Consiglio di sicurezza denota che tale organo ha accettato implicitamente il limite generale del rispetto dei diritti dell’uomo. Nelle risoluzioni più recenti del Consiglio di sicurezza si ritrova spesso la c.d. “human rights clause”, ossia una clausola generale di rinvio ai principi generali vigenti nell’ordinamento internazionale in materia di diritti umani, avente lo scopo di precisare che gli obblighi di dare esecuzione alle risoluzioni vincolanti del Consiglio coesistono con gli obblighi di rispettare i diritti umani. La validità di questa interpretazione è confermata dalla sentenza emessa dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Al-Jedda, ove si è asserito che il potenziale contrasto tra obblighi si supera attraverso un’interpretazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza che sia il più possibile in armonia con i principi in materia di diritti umani fondamentali. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha inoltre fornito delle importanti indicazioni sul rapporto intercorrente tra la CEDU e la Carta delle Nazioni Unite. Dai casi Behrami e Saramati è emerso che la Convenzione non può essere interpretata in modo tale da sottoporre al vaglio della Corte di Strasburgo le azioni o le omissioni degli Stati contraenti, coperte dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza e accadute prima o durante le operazioni di pace stabilite dalle risoluzioni del Consiglio ex capitolo VII della Carta. A nostro avviso, questi casi hanno dimostrato che nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo la dottrina del vacuum giuridico non ha avuto un mero valore interpretativo, ma ha assunto altresì valenza di coordinamento ratione materiae, configurando una sostanziale incompetenza della Corte rispetto alle azioni “coperte” dalle decisioni del Consiglio di sicurezza adottate ai sensi del capitolo VII della Carta. Tuttavia, l’affermazione contenuta nella sentenza della Corte europea nel caso Al Jedda circa la presunzione di conformità delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza con gli obblighi in materia di diritti umani incombenti sugli Stati contraenti della CEDU pare indicare una svolta. La Corte sembra quasi voler ammettere la possibilità di vagliare la condotta dello Stato parte se nel caso concreto si ravvisi che lo Stato ha violato gli obblighi discendenti dalla CEDU, travisando le indicazioni fornite dalle stesse risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Un’altra questione di grande rilievo per la tematica delle sanzioni individuali riguarda l’eventualità che la Corte europea dei diritti dell’uomo possa riproporre la dottrina della protezione equivalente anche per le misure sanzionatorie individuali. A nostro avviso, per le risoluzioni del Consiglio di sicurezza che istituiscono sanzioni individuali non potrà trovare applicazione la presunzione di equivalenza; si tratta di un ambito in cui gli Stati conservano un certo margine di discrezionalità, come confermato dalle stesse risoluzioni del Consiglio che pongono l’obbligo in capo agli Stati membri dell’ONU di adottare provvedimenti restrittivi nei confronti dei sospetti terroristi, attraverso il congelamento dei loro beni, la preclusione delle attività economiche e la limitazione della loro libertà di circolazione, ma nulla dispongono circa le concrete modalità di attuazione di tale obbligo, lasciando evidentemente uno spazio di discrezionalità agli Stati. Invero, l’esecuzione materiale delle sanzioni si svolge a livello statale. Nella seconda parte del lavoro è stata valutata la compatibilità del sistema delle sanzioni individuali rispetto agli standard normativi sui diritti umani, con particolare riguardo alla CEDU. Nel sistema delle Nazioni Unite la protezione dei diritti spettanti ai destinatari di sanzioni è insoddisfacente, specie per il profilo delle garanzie processuali fondamentali. La procedura di listing non riconosce al soggetto interessato il diritto di essere sentito, né di presentare le proprie difese o di essere informato sulle accuse presenti a suo carico prima dell’inserimento del nominativo nelle liste nere. Nemmeno a livello dell’UE la procedura di listing garantisce i diritti di difesa dei soggetti colpiti da sanzioni. È evidente che i destinatari delle sanzioni non hanno tuttora a disposizione un meccanismo internazionale che possa valutare la fondatezza delle informazioni che costituiscono la base del loro listing o la proporzionalità delle misure applicate nei loro confronti. Anche la procedura di de-listing è sprovvista delle necessarie garanzie processuali; il soggetto interessato ha la mera possibilità di sottoporre una richiesta di cancellazione all’Ombudsperson (oppure al Focal Point per i soggetti iscritti nella lista del Comitato 1988), che trasmetterà la richiesta ai membri del Comitato delle sanzioni. Si tratta però di una procedura a carattere diplomatico, di certo non sufficiente a garantire una tutela efficace agli individui destinatari di sanzioni, né ad assicurare un autonomo ius standi dei privati. Per essere in linea con gli standard normativi della CEDU il sistema sanzionatorio dovrebbe garantire almeno il nucleo minimo di garanzie processuali essenziali individuato dalla Corte di Giustizia nel caso Kadi: la natura indipendente dell’organo giurisdizionale, il diritto alla difesa, il diritto al contraddittorio, il diritto a un ricorso giurisdizionale effettivo e la motivazione del provvedimento. In particolare, per poter validamente contestare l’iscrizione del loro nominativo sulla lista nera gli individui destinatari di sanzioni dovrebbero aver la possibilità di far riesaminare la misura restrittiva da un organo indipendente ed imparziale, dotato del potere di pronunciarsi sulla legalità della misura, in un procedimento che si svolga nel pieno rispetto del contraddittorio. In dottrina sono state prospettate diverse soluzioni per assicurare una protezione adeguata ai diritti degli individui colpiti da sanzioni. A nostro avviso, la possibile tutela offerta dall’ordinamento dell’Unione non rappresenta tuttavia una soluzione a carattere generale idonea a garantire in ogni caso il rispetto dei diritti fondamentali degli individui destinatari di sanzioni. Difatti, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Corte di giustizia potrebbe dover parzialmente riconsiderare il ragionamento svolto nel caso Kadi. L’art. 21, par. 1, della versione consolidata del TUE, secondo cui l’azione dell’Unione sulla scena internazionale deve avvenire “nel rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”, sembra indicare che l’Unione abbia introdotto l’obbligo di adeguamento alla Carta e al diritto internazionale tra le norme primarie dell’UE. Di conseguenza, si assisterebbe a un accrescimento dell’importanza degli obblighi incombenti sugli Stati membri in virtù della loro partecipazione all’ONU (tra cui l’obbligo di dare attuazione alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza che impongono sanzioni individuali) e la Corte di giustizia dovrebbe svolgere un bilanciamento tra le esigenze codificate da due norme primarie dell’UE: l’obbligo di rispettare i diritti umani (di cui all’art. 6 TUE) e l’obbligo di rispettare la Carta delle Nazioni Unite, ai sensi dell’art. 21, par. 1, TUE. Nemmeno le giurisdizioni nazionali sembrano essere una soluzione idonea, poiché sussiste sempre il rischio di trattamenti differenziati. A nostro avviso, l’ipotesi più convincente è quella di predisporre a livello delle Nazioni Unite le necessarie garanzie processuali per gli individui destinatari di sanzioni. A tal fine si potrebbe istituire un meccanismo che preveda la partecipazione di esperti indipendenti già nella fase del listing oppure creare un tribunale internazionale ad hoc in seno alle Nazioni Unite, avente il compito di giudicare sui ricorsi presentati dai soggetti colpiti da sanzioni, in un procedimento in contradditorio tra le parti. Quest’ultima soluzione, oltre a riconoscere un autonomo ius standi ai privati, avrebbe il vantaggio di garantire uno standard uniforme di trattamento.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/120721
URN:NBN:IT:UNIPD-120721