Questa ricerca prende avvio dalla crescente diffusione del termine “afroitaliano” come categoria di auto-rappresentazione tra i giovani di origine africana in Italia ed esplora come la nozione di africanità venga costruita o decostruita, reinterpretata o “usata con il trattino” nelle pratiche di vita quotidiana, nelle interazioni e nelle rappresentazioni sociali. Il crescente riferimento all’ Africa e all’identità africana in iniziative di stampo culturale, sociale e imprenditoriale mostra infatti che i giovani nati e cresciuti in Italia, con diversi background africani, ricercano un patrimonio culturale africano condiviso (De Witte & Meyer 2012) e desiderano esibirlo pubblicamente, lottando per un suo riconoscimento all’interno del panorama culturale nazionale. Le molteplici intersezioni delle categorie di africanità, blackness e italianità nei contesti di vita quotidiana e nelle “politics of naming” locali mettono in luce che i giovani afrodiscendenti si appropriano del loro “essere africani” posizionandosi rispetto a più livelli storici e socio-culturali: quello del Black Atlantic e della blackness transnazionale, quello europeo dove vi è una crescente consapevolezza dell’afro-europeità, quello nazionale delle specifiche storie coloniali e formazioni razziali, infine quello locale delle interazioni della vita quotidiana. Questa ricerca intende contribuire all’emergente campo di studi sull’Afro-Europa in due modi: analizzando la costruzione sociale dell’africanità in uno specifico contesto sud-europeo, quello italiano, e proponendo di considerare l’africanità come categorie di pratiche (Brubaker 2012) rilevante in vari contesti relazionali. All’interno dello spazio culturale europeo, il contesto italiano presenta delle specificità dovute alla sua storia coloniale e alle traiettorie dell’immigrazione postcoloniale. Il lascito coloniale ha contribuito al consolidamento di rappresentazioni dell’alterità basate sul dispositivo del colore e su “cliché tribali” sugli africani, ma non ha determinato le mappe delle migrazioni, che non hanno seguito le rotte del colonialismo ma perlopiù progetti economici. In tale cornice storica e socio- culturale, l’africanità viene qui intesa come un’identità relazionale (Glissant 1990) che emerge in vari contesti sociali e nei processi di self-design (De Witte 2014). L’ Africa e l’africanità non possono essere considerate categorie analitiche, tantomeno ontologiche: sono nozioni che esistono solamente nelle produzioni discorsive e nelle politiche egemoniche che hanno “africanizzato” il continente e le persone che lo abitano (Palmié 2007). Perciò, osservare quando e dove gli attori sociali reclamano e si appropriano – anche creativamente - della propria africanità è più importante del tentativo di comprendere se un elemento, o un soggetto, è “autenticamente” africano (Chivallon 2004). Questa ricerca si basa sia basa sul materiale empirico raccolto attraverso osservazioni etnografiche e 51 interviste narrative. Le interviste sono state condotte con giovani adulti di diverse origini africane (⅓ dall’Africa Occidentale, ⅓ dall’Africa Orientale, ⅓ dall’Africa centrale o meridionale), tra i 20 e i 35 anni, nati o residenti da almeno dieci anni in diverse regioni italiane. Nella scelta del campione è stato mantenuto un equilibrio di genere e tutti gli intervistati sono giovani professionisti, artisti, imprenditori o studenti universitari. Sono persone che, nonostante le umili origini o la scarsità di pari opportunità, cercano di attivare un processo di mobilità sociale facendo leva su molteplici competenze e sull’auto-imprenditorialità. Le osservazioni etnografiche sono state svolte in occasione di alcune feste familiari ed eventi rivolti all’intera diaspora africana (concorsi di bellezza, incontri di associazioni, festival, attività formative e convegni), ponendo la dovuta attenzione anche alle conversazioni online precedenti o successive agli eventi. Questo approccio al campo ha consentito di osservare la costruzione dell’africanità a diversi livelli sociali e culturali. Nella prima parte (cap.3) la ricerca esplora come questa dimensione emerge nelle interazioni sociali in contesto italiano, come categoria di alterità etero-attribuita o come una delle molteplici identità che gli attori sociali creativamente ridefiniscono o utilizzano nei vari contesti della vita quotidiana. I giovani afrodiscendenti reagiscono infatti ai processi di razzializzazione anche riprendendosi il potere di definire cosa è, o non è, africano, e in che termini, rompendo anche con l’“idea di Africa” (Mudimbe 1988, 1994) come paradigma di alterità. Il livello transnazionale e diasporico diventa importante per gli attori sociali perché permette loro di sperimentare l’instabilità delle categorie razziali di blackness e whiteness, ma anche di partecipare, declinandolo localmente, al processo di re-branding dell’Africa che rende le produzioni culturali ed artistiche “afro” sempre più “cool” (De Witte 2014). La seconda parte è dedicata alle pratiche del corpo (cap.4,5,6). Il “corpo nero” si trova infatti all’intersezione delle esperienze storiche e sociali delle popolazioni dell’Africa e della sua diaspora. Tuttavia, l’analisi dei processi di trasmissione e incorporazione di tecniche e norme estetiche ci permette di osservare i molteplici significati che i corpi assumono, al di là dell’esperienza della loro razzializzazione. I soggettivi percorsi di riscoperta e riappropriazione dell’africanità si inseriscono perciò nella continua tensione che lega trasmissione generazionale, creatività individuale e performance nello spazio pubblico. Nel corso dei capitoli sono state analizzate pratiche del corpo che toccano tutte queste dimensioni della vita sociale: la circoncisione maschile, le tecniche di cura dei capelli e l’uso di tessuti e accessori “africani”. Questo percorso ha permesso di analizzare come il significato dell’“essere africano” e dell’essere “nero” cambi nel corso delle biografie individuali e venga continuamente negoziato nelle interazioni sociali e nei processi di trasmissione. Nell’ultimo capitolo, viene sottolineata la stretta interconnessione tra riappropriazione dell’africanità, aspirazioni e percorsi professionali, mostrando anche come il “lato africano” delle reti sociali e del personale bagaglio culturale possa essere capitalizzato e tradursi in nicchie di consumo e mercato. Ridefinita, contestata o celebrata, il recupero della propria africanità rientra perciò un processo di stilizzazione e promozione del sé, nello spazio pubblico come nelle politiche culturali ed economiche locali e globali. In conclusione, la ricerca mette in evidenza come i giovani afrodiscendenti, ritrovando l’orgoglio nel “dirsi africano”, negoziano il significato sociale della nerezza e della “tradizione africana”. L’ “essere africano/a” appare una dimensione non esclusivamente collegata al colore della pelle, nemmeno ad una presunta autenticità, ma a repertori simbolici ed estetici e a competenze – spesso cosmopolite - continuamente ridefinite e riscostruite.
"Non è solo una questione di colore!" L' africanità attraverso interazioni, pratiche e rappresentazioni sociali.
SCARABELLO, SERENA
2016
Abstract
Questa ricerca prende avvio dalla crescente diffusione del termine “afroitaliano” come categoria di auto-rappresentazione tra i giovani di origine africana in Italia ed esplora come la nozione di africanità venga costruita o decostruita, reinterpretata o “usata con il trattino” nelle pratiche di vita quotidiana, nelle interazioni e nelle rappresentazioni sociali. Il crescente riferimento all’ Africa e all’identità africana in iniziative di stampo culturale, sociale e imprenditoriale mostra infatti che i giovani nati e cresciuti in Italia, con diversi background africani, ricercano un patrimonio culturale africano condiviso (De Witte & Meyer 2012) e desiderano esibirlo pubblicamente, lottando per un suo riconoscimento all’interno del panorama culturale nazionale. Le molteplici intersezioni delle categorie di africanità, blackness e italianità nei contesti di vita quotidiana e nelle “politics of naming” locali mettono in luce che i giovani afrodiscendenti si appropriano del loro “essere africani” posizionandosi rispetto a più livelli storici e socio-culturali: quello del Black Atlantic e della blackness transnazionale, quello europeo dove vi è una crescente consapevolezza dell’afro-europeità, quello nazionale delle specifiche storie coloniali e formazioni razziali, infine quello locale delle interazioni della vita quotidiana. Questa ricerca intende contribuire all’emergente campo di studi sull’Afro-Europa in due modi: analizzando la costruzione sociale dell’africanità in uno specifico contesto sud-europeo, quello italiano, e proponendo di considerare l’africanità come categorie di pratiche (Brubaker 2012) rilevante in vari contesti relazionali. All’interno dello spazio culturale europeo, il contesto italiano presenta delle specificità dovute alla sua storia coloniale e alle traiettorie dell’immigrazione postcoloniale. Il lascito coloniale ha contribuito al consolidamento di rappresentazioni dell’alterità basate sul dispositivo del colore e su “cliché tribali” sugli africani, ma non ha determinato le mappe delle migrazioni, che non hanno seguito le rotte del colonialismo ma perlopiù progetti economici. In tale cornice storica e socio- culturale, l’africanità viene qui intesa come un’identità relazionale (Glissant 1990) che emerge in vari contesti sociali e nei processi di self-design (De Witte 2014). L’ Africa e l’africanità non possono essere considerate categorie analitiche, tantomeno ontologiche: sono nozioni che esistono solamente nelle produzioni discorsive e nelle politiche egemoniche che hanno “africanizzato” il continente e le persone che lo abitano (Palmié 2007). Perciò, osservare quando e dove gli attori sociali reclamano e si appropriano – anche creativamente - della propria africanità è più importante del tentativo di comprendere se un elemento, o un soggetto, è “autenticamente” africano (Chivallon 2004). Questa ricerca si basa sia basa sul materiale empirico raccolto attraverso osservazioni etnografiche e 51 interviste narrative. Le interviste sono state condotte con giovani adulti di diverse origini africane (⅓ dall’Africa Occidentale, ⅓ dall’Africa Orientale, ⅓ dall’Africa centrale o meridionale), tra i 20 e i 35 anni, nati o residenti da almeno dieci anni in diverse regioni italiane. Nella scelta del campione è stato mantenuto un equilibrio di genere e tutti gli intervistati sono giovani professionisti, artisti, imprenditori o studenti universitari. Sono persone che, nonostante le umili origini o la scarsità di pari opportunità, cercano di attivare un processo di mobilità sociale facendo leva su molteplici competenze e sull’auto-imprenditorialità. Le osservazioni etnografiche sono state svolte in occasione di alcune feste familiari ed eventi rivolti all’intera diaspora africana (concorsi di bellezza, incontri di associazioni, festival, attività formative e convegni), ponendo la dovuta attenzione anche alle conversazioni online precedenti o successive agli eventi. Questo approccio al campo ha consentito di osservare la costruzione dell’africanità a diversi livelli sociali e culturali. Nella prima parte (cap.3) la ricerca esplora come questa dimensione emerge nelle interazioni sociali in contesto italiano, come categoria di alterità etero-attribuita o come una delle molteplici identità che gli attori sociali creativamente ridefiniscono o utilizzano nei vari contesti della vita quotidiana. I giovani afrodiscendenti reagiscono infatti ai processi di razzializzazione anche riprendendosi il potere di definire cosa è, o non è, africano, e in che termini, rompendo anche con l’“idea di Africa” (Mudimbe 1988, 1994) come paradigma di alterità. Il livello transnazionale e diasporico diventa importante per gli attori sociali perché permette loro di sperimentare l’instabilità delle categorie razziali di blackness e whiteness, ma anche di partecipare, declinandolo localmente, al processo di re-branding dell’Africa che rende le produzioni culturali ed artistiche “afro” sempre più “cool” (De Witte 2014). La seconda parte è dedicata alle pratiche del corpo (cap.4,5,6). Il “corpo nero” si trova infatti all’intersezione delle esperienze storiche e sociali delle popolazioni dell’Africa e della sua diaspora. Tuttavia, l’analisi dei processi di trasmissione e incorporazione di tecniche e norme estetiche ci permette di osservare i molteplici significati che i corpi assumono, al di là dell’esperienza della loro razzializzazione. I soggettivi percorsi di riscoperta e riappropriazione dell’africanità si inseriscono perciò nella continua tensione che lega trasmissione generazionale, creatività individuale e performance nello spazio pubblico. Nel corso dei capitoli sono state analizzate pratiche del corpo che toccano tutte queste dimensioni della vita sociale: la circoncisione maschile, le tecniche di cura dei capelli e l’uso di tessuti e accessori “africani”. Questo percorso ha permesso di analizzare come il significato dell’“essere africano” e dell’essere “nero” cambi nel corso delle biografie individuali e venga continuamente negoziato nelle interazioni sociali e nei processi di trasmissione. Nell’ultimo capitolo, viene sottolineata la stretta interconnessione tra riappropriazione dell’africanità, aspirazioni e percorsi professionali, mostrando anche come il “lato africano” delle reti sociali e del personale bagaglio culturale possa essere capitalizzato e tradursi in nicchie di consumo e mercato. Ridefinita, contestata o celebrata, il recupero della propria africanità rientra perciò un processo di stilizzazione e promozione del sé, nello spazio pubblico come nelle politiche culturali ed economiche locali e globali. In conclusione, la ricerca mette in evidenza come i giovani afrodiscendenti, ritrovando l’orgoglio nel “dirsi africano”, negoziano il significato sociale della nerezza e della “tradizione africana”. L’ “essere africano/a” appare una dimensione non esclusivamente collegata al colore della pelle, nemmeno ad una presunta autenticità, ma a repertori simbolici ed estetici e a competenze – spesso cosmopolite - continuamente ridefinite e riscostruite.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/175054
URN:NBN:IT:UNIPD-175054