LA RESPONSABILITÀ CIVILE NELLE RELAZIONI FAMILIARI CON PARTICOLARE RIGUARDO AL RAPPORTO GENITORI-FIGLI In passato la possibilità di avanzare una pretesa risarcitoria nei confronti di un componente della famiglia si scontrava con un atteggiamento di netta chiusura. Diversi ostacoli impedivano l’ ingresso della responsabilità civile nell’ambiente domestico: ragioni di vario ordine, da quelle sociologiche a quelle giuridiche, venivano addotte per escludere tale possibilità. In ossequio al tradizionale e consolidato pensiero secondo cui il diritto di famiglia sarebbe un sistema chiuso e autosufficiente, con propri rimedi, “un’isola solamente lambita dal mare del diritto”, si riteneva, infatti, che, in seguito alla violazione dei diritti di un componente della famiglia ad opera di un altro componente, non sarebbe stato possibile il ricorso ad un rimedio di carattere generale, quale lo strumento risarcitorio, ma soltanto l’utilizzo degli strumenti propri e tipici, in accordo con il principio lex specialis derogat legi generali, di cui all’art. 14 disp. prel al c.c. In tal senso valeva anche il richiamo alla presunta completezza ed esaustività dei rimedi giusfamiliari, che spingeva a ritenere non ammissibile un eventuale cumulo con gli strumenti di carattere generale, secondo il principio per il quale inclusio unius, exclusio alterius, in modo da evitare di incorrere in una sorta di ne bis in idem per cui l’autore della condotta lesiva sarebbe stato chiamato a rispondere due volte per lo stesso fatto. Si negava pure la giuridicità stessa degli obblighi coniugali e genitoriali, considerati meri obblighi morali dal contenuto vago e non assistiti da previsioni sanzionatorie, se si escludono i rimedi tipici del diritto di famiglia, i quali però, soprattutto dopo l’abolizione della separazione per colpa, non potevano e non possono essere concettualmente finalizzati alla sanzione dei doveri di cui all’art. 143 e 147 c.c. La prospettiva muta con l’entrata in vigore della Carta costituzionale, prima (artt. 2, 29 e 30 cost.), e, più tardi, con la riforma del diritto di famiglia (artt. 143-147 c.c.). In particolare, si afferma e rafforza l’idea che i componenti della famiglia son anzitutto “persone” e, come tali, titolari di situazioni esistenziali che richiedono protezione anche all’interno delle mura domestiche, poiché lo status di familiare non può comportare un affievolimento della tutela ma, semmai, un suo rafforzamento. Fondamentale per il superamento della condizione di immunità dei componenti il consortium familiare rispetto all’ordinaria tutela risarcitoria, è stata anche la parallela evoluzione del sistema della responsabilità civile, con particolare riguardo alla nozione di ingiustizia del danno da un lato, e alla nozione di danno non patrimoniale, dall’altro. A partire dalla premessa che i diritti inviolabili sono garantiti anche all’interno delle formazioni sociali, secondo il disposto dell’art. 2 Cost., si è giunti a riconoscere la possibilità di azionare una pretesa risarcitoria anche nei confronti di un familiare per lesione dei diritti fondamentali. In tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione (Cass, 10 maggio 2005 n. 9801), riaffermando la piena tutela della persona all’interno della famiglia. Si è in tal modo affermata la tutela dei diritti fondamentali anche all’interno di questa peculiare formazione sociale: contro la lesione di tali diritti, infatti, non sarebbe pensabile una negazione di tutela basata sulla presunta completezza dei rimedi giusfamiliari. Tuttavia, anche in presenza della violazione di un diritto fondamentale non si verificherà un automatismo risarcitorio, ma si renderà necessario valutare l’ingiustizia del danno, operando un bilanciamento tra gli interessi della vittima e dell’autore del fatto lesivo. È opportuno precisare come la Corte non sia giunta ad affermare il ricorso alla tutela aquiliana nel caso di violazione dei doveri coniugali in sé e per sé considerati, reputando non sufficiente detta lesione a legittimare l’azione risarcitoria. Allo stesso modo, con riguardo al rapporto genitoriale la Suprema Corte ritiene che la violazione in sé dei doveri genitoriali non faccia incorrere il genitore in responsabilità, essendo invece necessaria la lesione di interessi costituzionalmente garantiti. In tal senso la Suprema Corte (7 giugno 2000 n. 7713) ha condannato il padre, per non aver somministrato al figlio - nonostante l’avvenuto riconoscimento - quanto necessario per il suo mantenimento, al risarcimento non solo dei danni patrimoniali, ma anche del c.d. danno esistenziale per non aver potuto sviluppare la sua personalità in conformità al tenore di vita che le condizioni economiche del padre gli avrebbero potuto consentire. In particolare il danno esistenziale, nel caso di specie, è stato reputato sussistente in re ipsa. A partire dai risultati ai quali è approdata la giurisprudenza, l’attenzione si è in seguito orientata all’individuazione degli interessi lesi che, nella materia oggetto dell’indagine qui condotta, giustificano la pretesa risarcitoria e, conseguentemente, alla natura della responsabilità. A riguardo si può anticipare che, essendo l’interesse leso, che sta a fondamento della pretesa, un diritto inviolabile, ovvero un diritto assoluto, tutelabile erga omnes, la natura della responsabilità è extracontrattuale. Come accennato, la mera violazione di un dovere genitoriale o coniugale non legittima invece alcuna pretesa risarcitoria: dal momento che si tratta per lo più di meri obblighi, considerata l’assenza del carattere della patrimonialità della prestazione. L’inadempimento di tali obblighi non può quindi dar luogo a una responsabilità contrattuale, la quale presuppone invece l’inadempimento di una obbligazione vera e propria. Né potrebbe giustificare un’azione aquiliana, in quanto difetta il requisito dell’ingiustizia del danno, dal momento che la mera violazione di detti diritti e obblighi non pare poter prevalere nel giudizio di bilanciamento rispetto al diritto inviolabile alla libertà e autodeterminazione che sorregge il comportamento della controparte. L’attenzione si è quindi rivolta ad esaminare come si atteggino, in tale particolare ambito, gli elementi costitutivi dell’illecito: è da rammentare, infatti, come gli illeciti endo-familiari vengano dalla dottrina, tradizionalmente reputati dolosi. Si rifletta inoltre sull’importanza che potrebbe rivestire, nel contesto in esame, quanto sancito dall’art. 1227 c.c. La successiva analisi ha poi affrontato il profilo dei danni risarcibili, soprattutto alla luce dell’attuale dibattito sul danno non patrimoniale, dal momento che la gran parte di danni cagionati all’interno di una relazione familiare i parentale appartengono a questa tipologia di danno. La riflessione si è spostata sull’art. 709-ter c.p.c. “Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze e violazioni”, disposizione introdotta dalla legge sull’affidamento condiviso. La norma è di estrema rilevanza per il tema qui in discussione, poiché contiene previsioni relative a fattispecie sì diversificate, ma tutte volte a garantire una corretta attuazione dei provvedimenti del giudice concernenti la prole minorenne. In particolare riconosce al giudice, nel caso in cui un genitore commetta gravi inadempienze o atti che comunque arrechino pregiudizio al minore o che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, il potere di modificare i provvedimenti sull’affidamento e, anche congiuntamente, di ammonire il genitore inadempiente (n. 1); disporre il risarcimento dei danni a carico di uno dei genitori a favore del minore (n. 2) oppure a favore dell’altro (n. 3); condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di € 75 ad un massimo di € 5.000, a favore della Cassa delle ammende (n. 4). L’introduzione delle misure dell’art. 709-ter, secondo comma, c.p.c., in particolare di quelle tipizzate, risponde all’esigenza di colmare il vuoto di tutela presente nel nostro ordinamento, data la mancanza di strumenti in grado di assicurare l’effettivo rispetto dei provvedimenti del giudice sull’affidamento della prole, difficilmente eseguibili coattivamente. Avverso l’inottemperanza a tali provvedimenti non vi erano, infatti, strumenti in grado di reagire, salvo il ricorso alla tutela penale, con tutte le problematiche connesse, oppure alla richiesta modifica delle condizioni dell’affidamento con finalità punitiva. La finalità della previsione sarebbe quella di offrire un quadro di misure di coercizione indiretta nei confronti del genitore, spinto dalla minaccia di una sanzione ad adempiere al meglio agli obblighi imposti dai provvedimenti del giudice. Le misure tipizzate formerebbero in tale ottica un insieme di misure aventi funzione sanzionatoria, volte a garantire l’osservanza e la corretta attuazione dei provvedimenti del giudice. Tuttavia, se tale ricostruzione pare condivisibile per quanto riguarda i rimedi indicati ai nn. 1 e 4, una più attenta riflessione sulla natura delle due misure “risarcitorie” indicate ai nn. 2 e 3, consente di affermare come non sia invero possibile ricostruire un quadro unitario. La previsione della condanna al risarcimento dei danni contenuta ai nn. 2 e 3 dell’art. 709-ter c.p.c., secondo comma, ha immediatamente attirato l’attenzione degli interpreti, suscitando la formazione di contrapposti schieramenti: da un lato coloro i quali ritengono essa rappresenti l’espressa codificazione della responsabilità civile endo-familiare, dall’altro, quanti invece, sostengono trattarsi di pena privata o addirittura di una sorta di “punitive damage”. A favore di quest’ultima tesi si fa valere, tra le altre argomentazioni: a) il fatto che la disposizione normativa porrebbe attenzione unicamente sulla gravità della condotta dell’autore, mentre non verrebbe posta particolare attenzione al profilo dei danni patiti; b) la particolare sede processuale all’interno della quale detti provvedimenti vengono emessi; c) la collocazione della misura in un contesto di strumenti reputati di carattere sanzionatorio. L’accoglimento di questa impostazione, come si dirà, non è privo di conseguenze: anzitutto, non verrebbe richiesta al ricorrente una stringente prova del danno, ma solamente della gravità della condotta, con un conseguente superamento del rigido onere dell’allegazione e della prova, sostenuto invece dal danneggiato che agisce per il risarcimento dei danni ex artt. 2043 e 2059 c.c. Inoltre, il quantum debeatur non potrebbe venir determinato seguendo il criterio dell’entità del danno, utilizzato in presenza delle tradizionali misure risarcitorie, ma secondo criteri quali la gravità della condotta, l’eventuale reiterazione della stessa, le condizioni economiche dell’agente. Conseguentemente, non potrebbero trovare applicazione a fini di determinazione del quantum del “risarcimento” le tabelle elaborate dalla giurisprudenza per la liquidazione del danno biologico e del danno morale. Ancora, l’accoglimento del ricorso ex art. 709-ter c.p.c., volto ad ottenere la pronuncia delle misure previste ai nn. 2 e 3, non pregiudicherebbe la possibilità di chiedere, nell’ordinario giudizio di cognizione, il risarcimento dei danni ex artt. 2043 e 2059 c.c. (con funzione invece compensativa). Senza considerare che il riconoscimento della natura sanzionatoria della misura porterebbe anche a riconoscere al giudice la possibilità di applicarla ex officio. Tuttavia, al di là degli entusiasmi dimostrati a riguardo dalla giurisprudenza maggioritaria e da una parte della dottrina, la riconduzione di detti strumenti nell’alveo dei danni punitivi o, più in generale, delle pene private fa sorgere più di una perplessità, che induce a propendere per la natura risarcitoria agli stessi. In tale direzione conducono diversi elementi: anzitutto, la formulazione letterale delle misure nn. 2 e 3, all’interno delle quali viene utilizzata l’espressione “disporre il risarcimento dei danni”, mentre non si fa alcun riferimento alla condanna al pagamento di un danno punitivo o comunque alla comminazione di una sanzione. Se il legislatore avesse realmente inteso introdurre una pena privata o addirittura un danno punitivo ispirato al modello del sistema nordamericano, la novità per il nostro ordinamento e le conseguenze che deriverebbero dal classificare la misura in un modo piuttosto che nell’altro, avrebbero suggerito di utilizzare una formulazione letterale meno oscura e meno foriera di facili confusioni. Inoltre, bisogna anche considerare che sono state introdotte due diverse previsioni, l’una concernente il risarcimento dei danni nei confronti del figlio minore, l’altra che prevede il risarcimento nei confronti dell’altro genitore, in modo da porre l’attenzione sul soggetto danneggiato. Superando poi il dato letterale, di per sé debole, data anche l’infelice formulazione, si deve constatare come il riconoscere funzione punitiva e deterrente anche a detta misura porterebbe ad interrogarsi sul perché il legislatore avrebbe dovuto introdurre, all’interno della stessa disposizione normativa e per reagire ai medesimi comportamenti, due misure (il risarcimento dei danni e la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria) con identica funzione ed entrambe comportanti la condanna al pagamento di una somma di denaro: l’una avente come beneficiario la Cassa delle ammende e l’altra il minore o il genitore. Se così fosse, si potrebbe concludere per l’inutilità e la sovrabbondanza delle misure tipizzate. Ancora, si dovrebbe osservare come, mentre per il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria il legislatore ha previsto un limite minimo e un limite massimo aell’ammontare della sanzione - al fine di arginare il potere discrezionale del giudice nel comminare tale misura di funzione chiaramente sanzionatoria – viceversa, per la misura risarcitoria il legislatore non ha fissato alcun limite. Se si trattasse di una misura punitiva, la discrezionalità sanzionatoria del giudice sarebbe elevata. Diversamente, il riconoscimento della natura risarcitoria permetterebbe di comprendere che la mancata previsione di un limite minimo ed uno massimo dipende dal fatto che l’ammontare del risarcimento andrà determinato in relazione ai danni effettivamente patiti. Per queste e per altre ragioni, che per esigenze di sintesi non vengono qui indicate, si deve concludere per l’esclusione della natura sanzionatoria (o comunque prevalentemente sanzionatoria) che condurrebbe ad ascrivere detti rimedi alla categoria delle pene private. Allo stesso modo pare da escludere la riconducibilità ai c.d. danni punitivi che, peraltro, anche nell’ordinamento nordamericano, sono oggetto di contrasti. Infatti, secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la seppur discutibile sentenza del 19 gennaio 2007, n. 1183, i danni punitivi non sarebbero ammissibili nel nostro ordinamento - all’interno del quale la responsabilità civile sarebbe caratterizzata unicamente da finalità reintegrative e compensatorie - in quanto contrari all’ordine pubblico nazionale. Riconoscere natura propriamente risarcitoria al rimedio in questione determina conseguenze rilevanti, quali la necessità della sussistenza di tutti gli elementi indicati nell’art. 2043 c.c., della prova del danno e della domanda di parte. Il profilo di novità sarebbe pertanto limitato alla particolare sede processuale all’interno della quale ottenere una pronuncia risarcitoria. In conclusione, si può affermare come la dimensione familiare non costituisca più una enclave, un luogo chiuso all’interno del quale il rimedio risarcitorio non può fare ingresso. Tuttavia, è necessario fare appello alla prudenza del giudice, in modo da evitare l’accoglimento di pretese avanzate solo per ripicca o astio personali.

LA RESPONSABILITA' CIVILE NELLE RELAZIONI FAMILIARI CON PARTICOLARE RIGUARDO AL RAPPORTO GENITORI-FIGLI

G.A., Parini
2009

Abstract

LA RESPONSABILITÀ CIVILE NELLE RELAZIONI FAMILIARI CON PARTICOLARE RIGUARDO AL RAPPORTO GENITORI-FIGLI In passato la possibilità di avanzare una pretesa risarcitoria nei confronti di un componente della famiglia si scontrava con un atteggiamento di netta chiusura. Diversi ostacoli impedivano l’ ingresso della responsabilità civile nell’ambiente domestico: ragioni di vario ordine, da quelle sociologiche a quelle giuridiche, venivano addotte per escludere tale possibilità. In ossequio al tradizionale e consolidato pensiero secondo cui il diritto di famiglia sarebbe un sistema chiuso e autosufficiente, con propri rimedi, “un’isola solamente lambita dal mare del diritto”, si riteneva, infatti, che, in seguito alla violazione dei diritti di un componente della famiglia ad opera di un altro componente, non sarebbe stato possibile il ricorso ad un rimedio di carattere generale, quale lo strumento risarcitorio, ma soltanto l’utilizzo degli strumenti propri e tipici, in accordo con il principio lex specialis derogat legi generali, di cui all’art. 14 disp. prel al c.c. In tal senso valeva anche il richiamo alla presunta completezza ed esaustività dei rimedi giusfamiliari, che spingeva a ritenere non ammissibile un eventuale cumulo con gli strumenti di carattere generale, secondo il principio per il quale inclusio unius, exclusio alterius, in modo da evitare di incorrere in una sorta di ne bis in idem per cui l’autore della condotta lesiva sarebbe stato chiamato a rispondere due volte per lo stesso fatto. Si negava pure la giuridicità stessa degli obblighi coniugali e genitoriali, considerati meri obblighi morali dal contenuto vago e non assistiti da previsioni sanzionatorie, se si escludono i rimedi tipici del diritto di famiglia, i quali però, soprattutto dopo l’abolizione della separazione per colpa, non potevano e non possono essere concettualmente finalizzati alla sanzione dei doveri di cui all’art. 143 e 147 c.c. La prospettiva muta con l’entrata in vigore della Carta costituzionale, prima (artt. 2, 29 e 30 cost.), e, più tardi, con la riforma del diritto di famiglia (artt. 143-147 c.c.). In particolare, si afferma e rafforza l’idea che i componenti della famiglia son anzitutto “persone” e, come tali, titolari di situazioni esistenziali che richiedono protezione anche all’interno delle mura domestiche, poiché lo status di familiare non può comportare un affievolimento della tutela ma, semmai, un suo rafforzamento. Fondamentale per il superamento della condizione di immunità dei componenti il consortium familiare rispetto all’ordinaria tutela risarcitoria, è stata anche la parallela evoluzione del sistema della responsabilità civile, con particolare riguardo alla nozione di ingiustizia del danno da un lato, e alla nozione di danno non patrimoniale, dall’altro. A partire dalla premessa che i diritti inviolabili sono garantiti anche all’interno delle formazioni sociali, secondo il disposto dell’art. 2 Cost., si è giunti a riconoscere la possibilità di azionare una pretesa risarcitoria anche nei confronti di un familiare per lesione dei diritti fondamentali. In tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione (Cass, 10 maggio 2005 n. 9801), riaffermando la piena tutela della persona all’interno della famiglia. Si è in tal modo affermata la tutela dei diritti fondamentali anche all’interno di questa peculiare formazione sociale: contro la lesione di tali diritti, infatti, non sarebbe pensabile una negazione di tutela basata sulla presunta completezza dei rimedi giusfamiliari. Tuttavia, anche in presenza della violazione di un diritto fondamentale non si verificherà un automatismo risarcitorio, ma si renderà necessario valutare l’ingiustizia del danno, operando un bilanciamento tra gli interessi della vittima e dell’autore del fatto lesivo. È opportuno precisare come la Corte non sia giunta ad affermare il ricorso alla tutela aquiliana nel caso di violazione dei doveri coniugali in sé e per sé considerati, reputando non sufficiente detta lesione a legittimare l’azione risarcitoria. Allo stesso modo, con riguardo al rapporto genitoriale la Suprema Corte ritiene che la violazione in sé dei doveri genitoriali non faccia incorrere il genitore in responsabilità, essendo invece necessaria la lesione di interessi costituzionalmente garantiti. In tal senso la Suprema Corte (7 giugno 2000 n. 7713) ha condannato il padre, per non aver somministrato al figlio - nonostante l’avvenuto riconoscimento - quanto necessario per il suo mantenimento, al risarcimento non solo dei danni patrimoniali, ma anche del c.d. danno esistenziale per non aver potuto sviluppare la sua personalità in conformità al tenore di vita che le condizioni economiche del padre gli avrebbero potuto consentire. In particolare il danno esistenziale, nel caso di specie, è stato reputato sussistente in re ipsa. A partire dai risultati ai quali è approdata la giurisprudenza, l’attenzione si è in seguito orientata all’individuazione degli interessi lesi che, nella materia oggetto dell’indagine qui condotta, giustificano la pretesa risarcitoria e, conseguentemente, alla natura della responsabilità. A riguardo si può anticipare che, essendo l’interesse leso, che sta a fondamento della pretesa, un diritto inviolabile, ovvero un diritto assoluto, tutelabile erga omnes, la natura della responsabilità è extracontrattuale. Come accennato, la mera violazione di un dovere genitoriale o coniugale non legittima invece alcuna pretesa risarcitoria: dal momento che si tratta per lo più di meri obblighi, considerata l’assenza del carattere della patrimonialità della prestazione. L’inadempimento di tali obblighi non può quindi dar luogo a una responsabilità contrattuale, la quale presuppone invece l’inadempimento di una obbligazione vera e propria. Né potrebbe giustificare un’azione aquiliana, in quanto difetta il requisito dell’ingiustizia del danno, dal momento che la mera violazione di detti diritti e obblighi non pare poter prevalere nel giudizio di bilanciamento rispetto al diritto inviolabile alla libertà e autodeterminazione che sorregge il comportamento della controparte. L’attenzione si è quindi rivolta ad esaminare come si atteggino, in tale particolare ambito, gli elementi costitutivi dell’illecito: è da rammentare, infatti, come gli illeciti endo-familiari vengano dalla dottrina, tradizionalmente reputati dolosi. Si rifletta inoltre sull’importanza che potrebbe rivestire, nel contesto in esame, quanto sancito dall’art. 1227 c.c. La successiva analisi ha poi affrontato il profilo dei danni risarcibili, soprattutto alla luce dell’attuale dibattito sul danno non patrimoniale, dal momento che la gran parte di danni cagionati all’interno di una relazione familiare i parentale appartengono a questa tipologia di danno. La riflessione si è spostata sull’art. 709-ter c.p.c. “Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze e violazioni”, disposizione introdotta dalla legge sull’affidamento condiviso. La norma è di estrema rilevanza per il tema qui in discussione, poiché contiene previsioni relative a fattispecie sì diversificate, ma tutte volte a garantire una corretta attuazione dei provvedimenti del giudice concernenti la prole minorenne. In particolare riconosce al giudice, nel caso in cui un genitore commetta gravi inadempienze o atti che comunque arrechino pregiudizio al minore o che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, il potere di modificare i provvedimenti sull’affidamento e, anche congiuntamente, di ammonire il genitore inadempiente (n. 1); disporre il risarcimento dei danni a carico di uno dei genitori a favore del minore (n. 2) oppure a favore dell’altro (n. 3); condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di € 75 ad un massimo di € 5.000, a favore della Cassa delle ammende (n. 4). L’introduzione delle misure dell’art. 709-ter, secondo comma, c.p.c., in particolare di quelle tipizzate, risponde all’esigenza di colmare il vuoto di tutela presente nel nostro ordinamento, data la mancanza di strumenti in grado di assicurare l’effettivo rispetto dei provvedimenti del giudice sull’affidamento della prole, difficilmente eseguibili coattivamente. Avverso l’inottemperanza a tali provvedimenti non vi erano, infatti, strumenti in grado di reagire, salvo il ricorso alla tutela penale, con tutte le problematiche connesse, oppure alla richiesta modifica delle condizioni dell’affidamento con finalità punitiva. La finalità della previsione sarebbe quella di offrire un quadro di misure di coercizione indiretta nei confronti del genitore, spinto dalla minaccia di una sanzione ad adempiere al meglio agli obblighi imposti dai provvedimenti del giudice. Le misure tipizzate formerebbero in tale ottica un insieme di misure aventi funzione sanzionatoria, volte a garantire l’osservanza e la corretta attuazione dei provvedimenti del giudice. Tuttavia, se tale ricostruzione pare condivisibile per quanto riguarda i rimedi indicati ai nn. 1 e 4, una più attenta riflessione sulla natura delle due misure “risarcitorie” indicate ai nn. 2 e 3, consente di affermare come non sia invero possibile ricostruire un quadro unitario. La previsione della condanna al risarcimento dei danni contenuta ai nn. 2 e 3 dell’art. 709-ter c.p.c., secondo comma, ha immediatamente attirato l’attenzione degli interpreti, suscitando la formazione di contrapposti schieramenti: da un lato coloro i quali ritengono essa rappresenti l’espressa codificazione della responsabilità civile endo-familiare, dall’altro, quanti invece, sostengono trattarsi di pena privata o addirittura di una sorta di “punitive damage”. A favore di quest’ultima tesi si fa valere, tra le altre argomentazioni: a) il fatto che la disposizione normativa porrebbe attenzione unicamente sulla gravità della condotta dell’autore, mentre non verrebbe posta particolare attenzione al profilo dei danni patiti; b) la particolare sede processuale all’interno della quale detti provvedimenti vengono emessi; c) la collocazione della misura in un contesto di strumenti reputati di carattere sanzionatorio. L’accoglimento di questa impostazione, come si dirà, non è privo di conseguenze: anzitutto, non verrebbe richiesta al ricorrente una stringente prova del danno, ma solamente della gravità della condotta, con un conseguente superamento del rigido onere dell’allegazione e della prova, sostenuto invece dal danneggiato che agisce per il risarcimento dei danni ex artt. 2043 e 2059 c.c. Inoltre, il quantum debeatur non potrebbe venir determinato seguendo il criterio dell’entità del danno, utilizzato in presenza delle tradizionali misure risarcitorie, ma secondo criteri quali la gravità della condotta, l’eventuale reiterazione della stessa, le condizioni economiche dell’agente. Conseguentemente, non potrebbero trovare applicazione a fini di determinazione del quantum del “risarcimento” le tabelle elaborate dalla giurisprudenza per la liquidazione del danno biologico e del danno morale. Ancora, l’accoglimento del ricorso ex art. 709-ter c.p.c., volto ad ottenere la pronuncia delle misure previste ai nn. 2 e 3, non pregiudicherebbe la possibilità di chiedere, nell’ordinario giudizio di cognizione, il risarcimento dei danni ex artt. 2043 e 2059 c.c. (con funzione invece compensativa). Senza considerare che il riconoscimento della natura sanzionatoria della misura porterebbe anche a riconoscere al giudice la possibilità di applicarla ex officio. Tuttavia, al di là degli entusiasmi dimostrati a riguardo dalla giurisprudenza maggioritaria e da una parte della dottrina, la riconduzione di detti strumenti nell’alveo dei danni punitivi o, più in generale, delle pene private fa sorgere più di una perplessità, che induce a propendere per la natura risarcitoria agli stessi. In tale direzione conducono diversi elementi: anzitutto, la formulazione letterale delle misure nn. 2 e 3, all’interno delle quali viene utilizzata l’espressione “disporre il risarcimento dei danni”, mentre non si fa alcun riferimento alla condanna al pagamento di un danno punitivo o comunque alla comminazione di una sanzione. Se il legislatore avesse realmente inteso introdurre una pena privata o addirittura un danno punitivo ispirato al modello del sistema nordamericano, la novità per il nostro ordinamento e le conseguenze che deriverebbero dal classificare la misura in un modo piuttosto che nell’altro, avrebbero suggerito di utilizzare una formulazione letterale meno oscura e meno foriera di facili confusioni. Inoltre, bisogna anche considerare che sono state introdotte due diverse previsioni, l’una concernente il risarcimento dei danni nei confronti del figlio minore, l’altra che prevede il risarcimento nei confronti dell’altro genitore, in modo da porre l’attenzione sul soggetto danneggiato. Superando poi il dato letterale, di per sé debole, data anche l’infelice formulazione, si deve constatare come il riconoscere funzione punitiva e deterrente anche a detta misura porterebbe ad interrogarsi sul perché il legislatore avrebbe dovuto introdurre, all’interno della stessa disposizione normativa e per reagire ai medesimi comportamenti, due misure (il risarcimento dei danni e la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria) con identica funzione ed entrambe comportanti la condanna al pagamento di una somma di denaro: l’una avente come beneficiario la Cassa delle ammende e l’altra il minore o il genitore. Se così fosse, si potrebbe concludere per l’inutilità e la sovrabbondanza delle misure tipizzate. Ancora, si dovrebbe osservare come, mentre per il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria il legislatore ha previsto un limite minimo e un limite massimo aell’ammontare della sanzione - al fine di arginare il potere discrezionale del giudice nel comminare tale misura di funzione chiaramente sanzionatoria – viceversa, per la misura risarcitoria il legislatore non ha fissato alcun limite. Se si trattasse di una misura punitiva, la discrezionalità sanzionatoria del giudice sarebbe elevata. Diversamente, il riconoscimento della natura risarcitoria permetterebbe di comprendere che la mancata previsione di un limite minimo ed uno massimo dipende dal fatto che l’ammontare del risarcimento andrà determinato in relazione ai danni effettivamente patiti. Per queste e per altre ragioni, che per esigenze di sintesi non vengono qui indicate, si deve concludere per l’esclusione della natura sanzionatoria (o comunque prevalentemente sanzionatoria) che condurrebbe ad ascrivere detti rimedi alla categoria delle pene private. Allo stesso modo pare da escludere la riconducibilità ai c.d. danni punitivi che, peraltro, anche nell’ordinamento nordamericano, sono oggetto di contrasti. Infatti, secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la seppur discutibile sentenza del 19 gennaio 2007, n. 1183, i danni punitivi non sarebbero ammissibili nel nostro ordinamento - all’interno del quale la responsabilità civile sarebbe caratterizzata unicamente da finalità reintegrative e compensatorie - in quanto contrari all’ordine pubblico nazionale. Riconoscere natura propriamente risarcitoria al rimedio in questione determina conseguenze rilevanti, quali la necessità della sussistenza di tutti gli elementi indicati nell’art. 2043 c.c., della prova del danno e della domanda di parte. Il profilo di novità sarebbe pertanto limitato alla particolare sede processuale all’interno della quale ottenere una pronuncia risarcitoria. In conclusione, si può affermare come la dimensione familiare non costituisca più una enclave, un luogo chiuso all’interno del quale il rimedio risarcitorio non può fare ingresso. Tuttavia, è necessario fare appello alla prudenza del giudice, in modo da evitare l’accoglimento di pretese avanzate solo per ripicca o astio personali.
26-gen-2009
Italiano
responsabilità endo-familiare - natura della responsabilità - art- 709-ter c.p.c. - pene private
Università degli studi di Padova
318
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Il codice NBN di questa tesi è URN:NBN:IT:UNIPD-175536