Il virus dell’epatite C (HCV), identificato negli anni ’70, ma clonato solo nel 1989, è un virus a RNA a singolo filamento, appartenente alla famiglia dei Flaviviridae. HCV rappresenta il maggior agente eziologico delle epatiti non-A non-B. Alla fine di questo secolo circa 170 milioni di persone, pari al 3% della popolazione mondiale, risultavano infettate da questo virus. L’introduzione nel 1990 di controlli accurati sul sangue destinato alle trasfusioni, la maggior causa di trasmissione del virus, ha ridotto sensibilmente il rischio di trasmissione ad esse associato (Alter H.J., 1999). Il virus può essere trasmesso anche per via sessuale, con lo scambio di siringhe infette, da madre a feto e con un’efficienza molto bassa attraverso la saliva. L’infezione da HCV può essere diagnosticata durante la fase acuta dell’infezione. Manifestazioni cliniche possono sopraggiungere 7-8 settimane dopo l’esposizione all’agente virale, ma possono anche intercorrere tempi più lunghi; fino a 26 settimane. La maggior parte delle persone infettate comunque, non mostrano alcun sintomo o solo sintomi lievi. Si incontrano solo raramente invece casi di epatiti fulminanti. Il problema principale legato all’infezione da HCV è rappresentato però dall’alta frequenza con la quale il virus cronicizza. Circa l’80% delle persone infettate da HCV infatti sviluppano un’epatite cronica che, nel 20-40% dei casi può portare a cirrosi epatica e nel 4% ad epatocarcinoma; tanto che attualmente tale patologia rappresenta la maggior causa di trapianto di fegato negli Stati Uniti (Lauer G.M. et al.,2001). Qualora l’infezione acuta evolva in un’infezione cronica, la “clearance” spontanea della viremia è molto difficile e di conseguenza molto rara. Come già detto in precedenza inoltre, circa il 20% dei pazienti sviluppano cirrosi epatica. Il lasso di tempo che intercorre fra l’infezione cronica e la cirrosi è altamente variabile e può arrivare a raggiungere anche i 20 anni dopo l’infezione. Alcuni fattori, quali l’alcool o la co-infezione con il virus dell’immunodeficienza umano di tipo 1 (HIV-1) o con il virus dell’epatite B (HBV), possono accelerare il processo. Il rischio di sviluppare epatocarcinoma può occorrere solo raramente anche in assenza di cirrosi. La risposta da parte dei linfociti T citotossici in pazienti affetti da infezione cronica sembra insufficiente a contenere la viremia e l’evoluzione genetica del virus, che varia continuamente. Sembra però che questa stessa risposta dell’ospite possa provocare danni epatici collaterali, forse in seguito al rilascio di citochine infiammatorie (Lauer G.M. et al., 2001). Sarebbe quindi proprio il tentativo di “distruggere” il virus a causare i danni più gravi al fegato e non il virus di per sé o la sua replicazione all’interno delle cellule epatiche. In aggiunta a danni epatici poi, ci possono essere importanti manifestazioni extra-epatiche dell’infezione. Molte di queste sindromi sono associate con la capacità di HCV di replicarsi in cellule mononucleate del sistema periferico (PBMC) (Fournier C. et al.,1998; Cribier B. et al.,1995). Tra queste sindromi le più frequenti sono certamente le crioglobulinemie; affezioni conseguenti all’abnorme aumento nel siero di proteine anticorpali che presentano una solubilità dipendente dalla temperatura (crioglobuline) (Lauer G.M. et al., 2001). A tutt’oggi la sola terapia possibile per il trattamento dell’epatite C è rappresentata da alte dosi di interferone di tipo I-α (IFN-α) da solo o in combinazione con un analogo nucleosidico della guanosina, la ribavirina; solo il 35-40% dei pazienti però sembrano rispondere positivamente al trattamento, che può causare in alcuni casi anche gravi effetti collaterali (Lavanchy D. et al., 1999). Inoltre la risposta al trattamento sembra strettamente legata al genotipo virale. Un importante passo avanti nella cura di questa patologia è stato fatto con lo sviluppo di molecole di interferone modificate dall’aggiunta covalente di una molecola di glicole polietilene (Peg-IFN). Questi “interferoni pegilati” hanno infatti una emivita molto più lunga all’interno dell’organismo e questo risulta in una maggiore attività del farmaco. Con l’utilizzo di queste molecole modificate la risposta positiva nei pazienti è salita a circa il 54-56% (Feld J. e Hoofnagle J., 2005). La necessità quindi di sviluppare nuove e più efficaci terapie antivirali, unita alle ancora limitate informazioni che si hanno sulla biologia molecolare del virus e sulla patogenesi, spingono verso un accurato studio del virus e della patologia ad esso associata.

Analisi dell’interazione fra la proteina non strutturale 5A del virus dell’epatite C e le proteine cellulari

MARTA, ROMANI
2008

Abstract

Il virus dell’epatite C (HCV), identificato negli anni ’70, ma clonato solo nel 1989, è un virus a RNA a singolo filamento, appartenente alla famiglia dei Flaviviridae. HCV rappresenta il maggior agente eziologico delle epatiti non-A non-B. Alla fine di questo secolo circa 170 milioni di persone, pari al 3% della popolazione mondiale, risultavano infettate da questo virus. L’introduzione nel 1990 di controlli accurati sul sangue destinato alle trasfusioni, la maggior causa di trasmissione del virus, ha ridotto sensibilmente il rischio di trasmissione ad esse associato (Alter H.J., 1999). Il virus può essere trasmesso anche per via sessuale, con lo scambio di siringhe infette, da madre a feto e con un’efficienza molto bassa attraverso la saliva. L’infezione da HCV può essere diagnosticata durante la fase acuta dell’infezione. Manifestazioni cliniche possono sopraggiungere 7-8 settimane dopo l’esposizione all’agente virale, ma possono anche intercorrere tempi più lunghi; fino a 26 settimane. La maggior parte delle persone infettate comunque, non mostrano alcun sintomo o solo sintomi lievi. Si incontrano solo raramente invece casi di epatiti fulminanti. Il problema principale legato all’infezione da HCV è rappresentato però dall’alta frequenza con la quale il virus cronicizza. Circa l’80% delle persone infettate da HCV infatti sviluppano un’epatite cronica che, nel 20-40% dei casi può portare a cirrosi epatica e nel 4% ad epatocarcinoma; tanto che attualmente tale patologia rappresenta la maggior causa di trapianto di fegato negli Stati Uniti (Lauer G.M. et al.,2001). Qualora l’infezione acuta evolva in un’infezione cronica, la “clearance” spontanea della viremia è molto difficile e di conseguenza molto rara. Come già detto in precedenza inoltre, circa il 20% dei pazienti sviluppano cirrosi epatica. Il lasso di tempo che intercorre fra l’infezione cronica e la cirrosi è altamente variabile e può arrivare a raggiungere anche i 20 anni dopo l’infezione. Alcuni fattori, quali l’alcool o la co-infezione con il virus dell’immunodeficienza umano di tipo 1 (HIV-1) o con il virus dell’epatite B (HBV), possono accelerare il processo. Il rischio di sviluppare epatocarcinoma può occorrere solo raramente anche in assenza di cirrosi. La risposta da parte dei linfociti T citotossici in pazienti affetti da infezione cronica sembra insufficiente a contenere la viremia e l’evoluzione genetica del virus, che varia continuamente. Sembra però che questa stessa risposta dell’ospite possa provocare danni epatici collaterali, forse in seguito al rilascio di citochine infiammatorie (Lauer G.M. et al., 2001). Sarebbe quindi proprio il tentativo di “distruggere” il virus a causare i danni più gravi al fegato e non il virus di per sé o la sua replicazione all’interno delle cellule epatiche. In aggiunta a danni epatici poi, ci possono essere importanti manifestazioni extra-epatiche dell’infezione. Molte di queste sindromi sono associate con la capacità di HCV di replicarsi in cellule mononucleate del sistema periferico (PBMC) (Fournier C. et al.,1998; Cribier B. et al.,1995). Tra queste sindromi le più frequenti sono certamente le crioglobulinemie; affezioni conseguenti all’abnorme aumento nel siero di proteine anticorpali che presentano una solubilità dipendente dalla temperatura (crioglobuline) (Lauer G.M. et al., 2001). A tutt’oggi la sola terapia possibile per il trattamento dell’epatite C è rappresentata da alte dosi di interferone di tipo I-α (IFN-α) da solo o in combinazione con un analogo nucleosidico della guanosina, la ribavirina; solo il 35-40% dei pazienti però sembrano rispondere positivamente al trattamento, che può causare in alcuni casi anche gravi effetti collaterali (Lavanchy D. et al., 1999). Inoltre la risposta al trattamento sembra strettamente legata al genotipo virale. Un importante passo avanti nella cura di questa patologia è stato fatto con lo sviluppo di molecole di interferone modificate dall’aggiunta covalente di una molecola di glicole polietilene (Peg-IFN). Questi “interferoni pegilati” hanno infatti una emivita molto più lunga all’interno dell’organismo e questo risulta in una maggiore attività del farmaco. Con l’utilizzo di queste molecole modificate la risposta positiva nei pazienti è salita a circa il 54-56% (Feld J. e Hoofnagle J., 2005). La necessità quindi di sviluppare nuove e più efficaci terapie antivirali, unita alle ancora limitate informazioni che si hanno sulla biologia molecolare del virus e sulla patogenesi, spingono verso un accurato studio del virus e della patologia ad esso associata.
13-mag-2008
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PIACENTINI, MAURO
Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"
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