Sembra essere ormai un vecchio ricordo l’emergenza pandemica da Covid-19 che ha condizionato, oltre che la vita di tutti noi, l’ordinamento giuridico nazionale, anzi, gli ordinamenti giuridici nazionali, e l’ordinamento giuridico del lavoro in particolare. Sugli effetti giuridici della pandemia tanto la dottrina quanto la giurisprudenza si sono a lungo interrogati e quegli scritti, ora, appaiono del tutto inattuali e superati. Ed hanno subìto lo stesso processo di rimozione collettiva che ha interessato l’evento pandemico cui erano indissolubilmente collegati. Una produzione destinata al macero, o al cestino per i file da cancellare quanto alla sconfinata produzione pubblicata sul web. Una produzione che a nessuno verrebbe in mente di rileggere, oggi, tranne che per esigenze particolari che non riusciamo ad immaginare. E che, ci si augura, non dipendano da una nuova pandemia che riattualizzi il tema. Ed allora appare improbo il compito di chi deve svolgere una tesi di dottorato sul tema del diritto del lavoro pandemico, che potrebbe essere considerata ‘nata vecchia’. Tuttavia, un lavoro del genere un senso ce l’ha, e non rivolto al passato. Valorizzando il parallelo con il periodo bellico, che più d’uno ha evocato a proposito del blocco dei licenziamenti, potrebbe dirsi che le emergenze costringono le società, le economie, gli ordinamenti a sperimentare sul campo soluzioni innovative ed immediate ed a sviluppare anticorpi. Soluzioni poi destinate a stabilizzarsi, ed a produrre benefici in termini di sviluppo, in ‘tempo di pace’, per così dire. Si ereditano soluzioni e sviluppi nati da emergenze ormai cessate. Adattati al dopo emergenza. Una tesi di dottorato, così, ha un senso se indaga sui lasciti pandemici nel diritto del lavoro. Se, dal ‘come siamo stati in quei tre anni’, muove per verificare come ‘siamo rimasti’ e ‘come siamo cambiati’. I lasciti del diritto pandemico attengono al diritto sostanziale del lavoro, al diritto processuale del lavoro e al diritto previdenziale. Quanto al diritto sostanziale, la pandemia ha costretto a sperimentare un modello di rapporto di lavoro il più possibile sganciato dalla dimensione spazio-temporale e dal concetto di unità produttiva o amministrativa che è il presupposto, o criterio di imputazione, di molte tutele. La disciplina emergenziale ha imposto la sperimentazione di modi di lavorare senza contatto fisico o con distanziamento sociale, che, cessata l’imposizione legale, sono magari proseguite su base volontaria in considerazione di valutazioni di reciproca convenienza. Un primo piano di indagine sarà dunque quello relativo al passaggio dal cosiddetto smart working pandemico a quello post pandemico. E ciò sia nel settore privato che in quello pubblico, essendo state enfatizzate, dall’esperienza giuridica vissuta e dai suoi postumi, le irriducibili differenze tra disciplina del lavoro privato e disciplina dirigistica del lavoro pubblico, là dove lo Stato legifera in casa propria, per così dire. Per quanto, non siano state emanate norme specifiche e dirette sul diritto sindacale pandemico, che imponessero, ad esempio, in funzione anti-contagio, la sospensione delle attività sindacale in azienda, essendo ciò, se mai, conseguenza indiretta delle misure generali, è evidente che l’esperienza vissuta abbia evidenziato ed accentuato la crisi del modello di rappresentanza sindacale statutario basato sulla compresenza ed aggregazione fisica dei lavoratori all’interno delle unità produttive. Quanto al diritto processuale del lavoro, distanziamento, trattazione scritta, e differimento delle udienze, sono quanto di più lontano dal modello di processo del lavoro incentrato sui principi di immediatezza, concentrazione ed oralità attuato dalla legge n. 223 del 1991. Poteva dunque assai ingenuamente supporsi che una soluzione emergenziale, comportante la frontale negazione dei principi fondanti del processo del lavoro, cessasse immediatamente con l’emergenza. Ed invece, la trattazione scritta post emergenziale, inserita tra le disposizioni generali del processo civile, sembra attecchire anche nel processo del lavoro, superando il vaglio della compatibilità, come confermato sul campo dall’atteggiamento più che possibilista dei giudici del lavoro. Quanto agli aspetti previdenziali ed assistenziali, gli Enti INAIL e INPS hanno dovuto adattarsi velocemente per assicurare il regolare svolgimento delle attività, implementare azioni immediate e partecipare agli sforzi del paese per limitare la diffusione del virus. E per quel che riguarda gli ammortizzatori sociali come misure messe in campo per fronteggiare l’emergenza sanitaria, nonostante il tentativo di semplificazione, di fatto hanno fatto emergere inefficienze della burocrazia, rallentando l'assistenza statale per famiglie e lavoratori in cassa integrazione. Ciò che è rimasto, quindi, è soltanto una considerazione relativa al problema burocratico che richiede un cambiamento di mentalità e competenze, una rivalutazione dei modelli organizzativi e delle dinamiche tra lavoratori e aziende. Questo avrà un impatto anche sul sistema previdenziale che, considerando i limiti finanziari, dovrebbe basarsi sempre più sull'integrazione tra settore pubblico e privato. Tuttavia, questa integrazione dovrebbe derivare dagli accordi tra attori sociali, non limitandosi al settore assicurativo di mercato. Altro piano d’indagine, riveste carattere più generale. Ed induce a riflettere, al di là della contingenza dell’emergenza pandemica, sul possibile arricchimento del rapporto di lavoro di situazioni soggettive del tutto inedite. Non solo nel pubblico impiego, ambito nel quale interferenze dirigistiche sono giustificate dall’essere il datore di lavoro una pubblica amministrazione ed il rapporto di lavoro regolato nella prospettiva pubblicistica dell’organizzazione, in funzione dell’efficienza o, in termini costituzionali, del buon andamento, ma anche nell’impiego privato la disciplina pandemica sembra avere disciplinato il rapporto di lavoro a tutela di interessi che non sono, o non sono solo, quelli delle parti del rapporto stesso, ma a tutela di interessi altri. La disciplina emergenziale sembra avere posto, infatti, a carico delle parti del rapporto di lavoro obblighi e divieti che non si giustificano nella logica del sinallagma contrattuale, e non hanno carattere relativo (nel senso di essere previsti nei confronti, ed a tutela, dell’altra parte), ma che hanno carattere assoluto, essendo previsti a tutela dell’interesse pubblico al contenimento della pandemia. Il datore di lavoro (esattamente come, ad esempio, un ristoratore rispetto all’avventore) è stato reso protagonista della campagna vaccinale a tutela della salute pubblica nel ruolo di controllore di green pass. È stato reclutato per la campagna vaccinale. Il suo potere organizzativo, direttivo e di controllo nei confronti dei lavoratori, il suo essere il ‘padrone di casa’ dei luoghi di lavoro, è stato, per così dire, strumentalizzato per finalità di sostegno obbligato alla campagna vaccinale a tutela della salute pubblica. Allora, in questa prospettiva, il luogo di lavoro rileva non in quanto tale ma in quanto luogo di contatto ravvicinato tra persone. Indipendentemente dal ruolo. Così come potrebbe esserlo la sala interna di un ristorante o una palestra o una piscina. Ed anzi, il luogo di lavoro rileva ai fini del controllo del ‘green pass’, come occasione imperdibile di controllo: anche se si trattasse di un luogo di lavoro isolato, non frequentato, anche se il luogo di lavoro fosse il faro di cui il lavoratore è il guardiano. Il luogo di lavoro rileva come luogo nella disponibilità di un titolare del luogo stesso dotato del potere di far accedere altre persone e, dunque, in grado di esercitare un controllo sulle stesse ai fini dell’accesso, consentito soltanto alle persone dotate di green pass. Anche se si trattasse di un luogo nel quale sia improbabile se non impossibile contrarre il contagio. Ed a prescindere dalla mansione svolta. Per gli ultracinquantenni il controllo ai fini dell’accesso è stato esteso, in una certa fase, al possesso del green pass rafforzato. Ancora una volta a prescindere dal pericolo di contagio e dalla mansione. Ed indipendentemente da ogni valutazione del medico competente. Dunque, il legislatore pandemico ha conferito una funzione pubblicistica ai datori di lavoro, in quanto titolari di luoghi di lavoro, nell’interesse sanitario pubblico, imponendo loro di esercitare il proprio potere organizzativo inerente al rapporto di lavoro, ed il potere gerarchico e di controllo nei confronti dei propri dipendenti, per fini estranei al rapporto stesso. Ed una siffatta estraneità alla logica di gestione del rapporto di lavoro trova dimostrazione nella circostanza che lo stesso legislatore esclude l’esercizio del potere disciplinare per il mancato possesso del green pass. Non esiste alcun inadempimento, o comunque un fatto disciplinarmente rilevante, sul piano del rapporto di lavoro. La mancanza, per così dire, è nei confronti dell’apparato pubblico approntato contro la diffusione del contagio. E viene punita rendendo impossibile l’esecuzione della prestazione (che possa svolgersi solo) all’interno dei luoghi di lavoro e, dunque, il funzionamento del sinallagma contrattuale. Il conseguente mancato pagamento della retribuzione costituisce un astreinte. Chi legge dovrà dunque avere ben presente, nel corso della trattazione, che la disciplina emergenziale non ha avuto carattere strettamente giuslavoristico e che la logica di intervento è diversa ed eccedente la causa del contratto di lavoro.
Cambiamenti strutturali nel mercato del lavoro: analisi dell'eredità post emergenza pandemica e implicazioni per il futuro dell'occupazione
MAGGI, GRAZIA
2024
Abstract
Sembra essere ormai un vecchio ricordo l’emergenza pandemica da Covid-19 che ha condizionato, oltre che la vita di tutti noi, l’ordinamento giuridico nazionale, anzi, gli ordinamenti giuridici nazionali, e l’ordinamento giuridico del lavoro in particolare. Sugli effetti giuridici della pandemia tanto la dottrina quanto la giurisprudenza si sono a lungo interrogati e quegli scritti, ora, appaiono del tutto inattuali e superati. Ed hanno subìto lo stesso processo di rimozione collettiva che ha interessato l’evento pandemico cui erano indissolubilmente collegati. Una produzione destinata al macero, o al cestino per i file da cancellare quanto alla sconfinata produzione pubblicata sul web. Una produzione che a nessuno verrebbe in mente di rileggere, oggi, tranne che per esigenze particolari che non riusciamo ad immaginare. E che, ci si augura, non dipendano da una nuova pandemia che riattualizzi il tema. Ed allora appare improbo il compito di chi deve svolgere una tesi di dottorato sul tema del diritto del lavoro pandemico, che potrebbe essere considerata ‘nata vecchia’. Tuttavia, un lavoro del genere un senso ce l’ha, e non rivolto al passato. Valorizzando il parallelo con il periodo bellico, che più d’uno ha evocato a proposito del blocco dei licenziamenti, potrebbe dirsi che le emergenze costringono le società, le economie, gli ordinamenti a sperimentare sul campo soluzioni innovative ed immediate ed a sviluppare anticorpi. Soluzioni poi destinate a stabilizzarsi, ed a produrre benefici in termini di sviluppo, in ‘tempo di pace’, per così dire. Si ereditano soluzioni e sviluppi nati da emergenze ormai cessate. Adattati al dopo emergenza. Una tesi di dottorato, così, ha un senso se indaga sui lasciti pandemici nel diritto del lavoro. Se, dal ‘come siamo stati in quei tre anni’, muove per verificare come ‘siamo rimasti’ e ‘come siamo cambiati’. I lasciti del diritto pandemico attengono al diritto sostanziale del lavoro, al diritto processuale del lavoro e al diritto previdenziale. Quanto al diritto sostanziale, la pandemia ha costretto a sperimentare un modello di rapporto di lavoro il più possibile sganciato dalla dimensione spazio-temporale e dal concetto di unità produttiva o amministrativa che è il presupposto, o criterio di imputazione, di molte tutele. La disciplina emergenziale ha imposto la sperimentazione di modi di lavorare senza contatto fisico o con distanziamento sociale, che, cessata l’imposizione legale, sono magari proseguite su base volontaria in considerazione di valutazioni di reciproca convenienza. Un primo piano di indagine sarà dunque quello relativo al passaggio dal cosiddetto smart working pandemico a quello post pandemico. E ciò sia nel settore privato che in quello pubblico, essendo state enfatizzate, dall’esperienza giuridica vissuta e dai suoi postumi, le irriducibili differenze tra disciplina del lavoro privato e disciplina dirigistica del lavoro pubblico, là dove lo Stato legifera in casa propria, per così dire. Per quanto, non siano state emanate norme specifiche e dirette sul diritto sindacale pandemico, che imponessero, ad esempio, in funzione anti-contagio, la sospensione delle attività sindacale in azienda, essendo ciò, se mai, conseguenza indiretta delle misure generali, è evidente che l’esperienza vissuta abbia evidenziato ed accentuato la crisi del modello di rappresentanza sindacale statutario basato sulla compresenza ed aggregazione fisica dei lavoratori all’interno delle unità produttive. Quanto al diritto processuale del lavoro, distanziamento, trattazione scritta, e differimento delle udienze, sono quanto di più lontano dal modello di processo del lavoro incentrato sui principi di immediatezza, concentrazione ed oralità attuato dalla legge n. 223 del 1991. Poteva dunque assai ingenuamente supporsi che una soluzione emergenziale, comportante la frontale negazione dei principi fondanti del processo del lavoro, cessasse immediatamente con l’emergenza. Ed invece, la trattazione scritta post emergenziale, inserita tra le disposizioni generali del processo civile, sembra attecchire anche nel processo del lavoro, superando il vaglio della compatibilità, come confermato sul campo dall’atteggiamento più che possibilista dei giudici del lavoro. Quanto agli aspetti previdenziali ed assistenziali, gli Enti INAIL e INPS hanno dovuto adattarsi velocemente per assicurare il regolare svolgimento delle attività, implementare azioni immediate e partecipare agli sforzi del paese per limitare la diffusione del virus. E per quel che riguarda gli ammortizzatori sociali come misure messe in campo per fronteggiare l’emergenza sanitaria, nonostante il tentativo di semplificazione, di fatto hanno fatto emergere inefficienze della burocrazia, rallentando l'assistenza statale per famiglie e lavoratori in cassa integrazione. Ciò che è rimasto, quindi, è soltanto una considerazione relativa al problema burocratico che richiede un cambiamento di mentalità e competenze, una rivalutazione dei modelli organizzativi e delle dinamiche tra lavoratori e aziende. Questo avrà un impatto anche sul sistema previdenziale che, considerando i limiti finanziari, dovrebbe basarsi sempre più sull'integrazione tra settore pubblico e privato. Tuttavia, questa integrazione dovrebbe derivare dagli accordi tra attori sociali, non limitandosi al settore assicurativo di mercato. Altro piano d’indagine, riveste carattere più generale. Ed induce a riflettere, al di là della contingenza dell’emergenza pandemica, sul possibile arricchimento del rapporto di lavoro di situazioni soggettive del tutto inedite. Non solo nel pubblico impiego, ambito nel quale interferenze dirigistiche sono giustificate dall’essere il datore di lavoro una pubblica amministrazione ed il rapporto di lavoro regolato nella prospettiva pubblicistica dell’organizzazione, in funzione dell’efficienza o, in termini costituzionali, del buon andamento, ma anche nell’impiego privato la disciplina pandemica sembra avere disciplinato il rapporto di lavoro a tutela di interessi che non sono, o non sono solo, quelli delle parti del rapporto stesso, ma a tutela di interessi altri. La disciplina emergenziale sembra avere posto, infatti, a carico delle parti del rapporto di lavoro obblighi e divieti che non si giustificano nella logica del sinallagma contrattuale, e non hanno carattere relativo (nel senso di essere previsti nei confronti, ed a tutela, dell’altra parte), ma che hanno carattere assoluto, essendo previsti a tutela dell’interesse pubblico al contenimento della pandemia. Il datore di lavoro (esattamente come, ad esempio, un ristoratore rispetto all’avventore) è stato reso protagonista della campagna vaccinale a tutela della salute pubblica nel ruolo di controllore di green pass. È stato reclutato per la campagna vaccinale. Il suo potere organizzativo, direttivo e di controllo nei confronti dei lavoratori, il suo essere il ‘padrone di casa’ dei luoghi di lavoro, è stato, per così dire, strumentalizzato per finalità di sostegno obbligato alla campagna vaccinale a tutela della salute pubblica. Allora, in questa prospettiva, il luogo di lavoro rileva non in quanto tale ma in quanto luogo di contatto ravvicinato tra persone. Indipendentemente dal ruolo. Così come potrebbe esserlo la sala interna di un ristorante o una palestra o una piscina. Ed anzi, il luogo di lavoro rileva ai fini del controllo del ‘green pass’, come occasione imperdibile di controllo: anche se si trattasse di un luogo di lavoro isolato, non frequentato, anche se il luogo di lavoro fosse il faro di cui il lavoratore è il guardiano. Il luogo di lavoro rileva come luogo nella disponibilità di un titolare del luogo stesso dotato del potere di far accedere altre persone e, dunque, in grado di esercitare un controllo sulle stesse ai fini dell’accesso, consentito soltanto alle persone dotate di green pass. Anche se si trattasse di un luogo nel quale sia improbabile se non impossibile contrarre il contagio. Ed a prescindere dalla mansione svolta. Per gli ultracinquantenni il controllo ai fini dell’accesso è stato esteso, in una certa fase, al possesso del green pass rafforzato. Ancora una volta a prescindere dal pericolo di contagio e dalla mansione. Ed indipendentemente da ogni valutazione del medico competente. Dunque, il legislatore pandemico ha conferito una funzione pubblicistica ai datori di lavoro, in quanto titolari di luoghi di lavoro, nell’interesse sanitario pubblico, imponendo loro di esercitare il proprio potere organizzativo inerente al rapporto di lavoro, ed il potere gerarchico e di controllo nei confronti dei propri dipendenti, per fini estranei al rapporto stesso. Ed una siffatta estraneità alla logica di gestione del rapporto di lavoro trova dimostrazione nella circostanza che lo stesso legislatore esclude l’esercizio del potere disciplinare per il mancato possesso del green pass. Non esiste alcun inadempimento, o comunque un fatto disciplinarmente rilevante, sul piano del rapporto di lavoro. La mancanza, per così dire, è nei confronti dell’apparato pubblico approntato contro la diffusione del contagio. E viene punita rendendo impossibile l’esecuzione della prestazione (che possa svolgersi solo) all’interno dei luoghi di lavoro e, dunque, il funzionamento del sinallagma contrattuale. Il conseguente mancato pagamento della retribuzione costituisce un astreinte. Chi legge dovrà dunque avere ben presente, nel corso della trattazione, che la disciplina emergenziale non ha avuto carattere strettamente giuslavoristico e che la logica di intervento è diversa ed eccedente la causa del contratto di lavoro.File | Dimensione | Formato | |
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URN:NBN:IT:UNIROMA2-214950