Questo saggio intende porre in luce i rapporti tra la Comunità Israelitica e le istituzioni dello Stato, in particolare quello fascista, con l’obiettivo di ricostruire la vita sociale della Roma ebraica durante la nascita e lo sviluppo di un regime totalitario. Un percorso che non ha pretese di completezza, basandosi infatti su alcuni temi specifici e sullo studio delle fonti primarie custodite presso l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, ritenuti però indicativi di una tendenza tesa alla sopravvivenza e alla ricerca di una identità ebraica, secondo un percorso di adattamento e integrazione rispetto ai dettami del regime che si andava costituendo. Un’analisi che si snoda nei diversi capitoli, dove viene ricostruita la vita sociale della Comunità, già interessata dagli effetti dell’emancipazione. Una ricerca che vuole rappresentare un punto di partenza per ulteriori approfondimenti, diretti a una migliore comprensione del forte senso di tradimento che investì gli ebrei romani all’indomani dell’emanazione della legislazione antiebraica. Con l’emancipazione nel Regno d’Italia nel 1861 e la dissoluzione dello Stato pontificio nel 1870, gli ebrei italiani iniziarono a essere considerati cittadini italiani di religione ebraica e dunque a godere di tutti i diritti e doveri conseguenti, tra cui l’accesso alle scuole pubbliche, alle università e il ritorno al pieno godimento del diritto di proprietà e della possibilità di lavorare nei pubblici uffici. Una nuova situazione che per gli ebrei romani, dal 1555 chiusi nelle anguste mura del ghetto con la bolla Cum nimis absurdum di Papa Paolo IV,1 rappresentava l’apertura verso il mondo esterno e un’occasione per inserirsi nel tessuto sociale ed economico della capitale. In precedenza l’impossibilità ex lege di possedere qualsiasi proprietà o di poter svolgere qualsiasi mestiere che non fosse legato al piccolo commercio o a quello di medico, aveva bloccato l’ascensore sociale, relegando la popolazione ebraica a vivere per la quasi totalità in condizioni di mera sussistenza. Se da un lato la povertà estrema aveva contribuito a creare dei forti legami di solidarietà, come si potrà notare nel capitolo dedicato alle Confraternite e alle associazioni assistenziali, dall’altro aveva ritardato lo sviluppo degli appartenenti alla Comunità stessa. Già con il Censimento generale della popolazione del Regno d’Italia del 1911 appariva una realtà in via di cambiamento, dove la diversificazione dei mestieri, che andava di pari passo con l’aumento dell’alfabetizzazione, <>,2 dava conto di un progresso che non era solo economico e dunque incentrato sulla produzione e distribuzione di beni, ma anche attinente più strettamente alle trasformazioni della popolazione. Un lento processo che interessò anche gli aspetti più strettamente giuridici, partendo dal 1883 con la nascita dell’Università Israelitica di Roma, caratterizzata dal carattere volontario dei partecipanti, per arrivare al Regio Decreto del 30 ottobre 1930 e al Regolamento attuativo del 19 novembre 1931, con cui furono regolate sul piano nazionale tutte le Comunità Israelitiche italiane, tra cui anche quella di Roma. Tra i punti principali venne stabilito che le Comunità avevano il compito di provvedere alle esigenze religiose, assistenziali e culturali dei loro membri, che facevano obbligatoriamente parte dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, la quale le rappresentava di fronte al Governo e infine venne imposto un contributo obbligatorio per tutti gli appartenenti, da stabilirsi di anno in anno sulla base del reddito di ciascun iscritto e del bilancio preventivo delle Comunità stesse. Rispetto alla direzione spirituale venne prescritto che questa spettasse ai rabbini, le cui nomine venivano approvate dal Ministero dell’Interno. Sebbene rinvenibile in sottofondo, tale passaggio non è presente in maniera esplicita nelle pagine a venire, essendosi scelto di analizzare piuttosto gli effetti provocati dalla riforma della scuola del ministro Giovanni Gentile nei primi anni ’20 e dal Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede dell’11 febbraio 1929, a cui entrambi si deve un’accelerazione nella nascita della scuola ebraica. Una Comunità avviata verso un suo cammino, seppur nei solchi tracciati dal regime fascista, a cui la nuova legge aveva dato poteri di controllo sempre più penetranti. E questa volontà di direzione si rinviene bene nelle pagine dedicate all’arrivo degli ebrei dall’Europa Orientale e alla loro accoglienza, che ancora una volta racconta di una solidarietà che va oltre i confini geografici. In questo sia pur non ideale contesto, l’Italia ne esce come un’isola felice nel mezzo dei venti sempre più forti dell’antisemitismo, che arrivavano dall’Est e che solo la guerra in Africa Orientale inizierà a scalfire. I paragrafi che narrano del patriottismo degli ebrei italiani, presente durante e dopo la Grande guerra e nel mezzo delle sanzioni a partire dal 1935, spiegano in forma ancora più penetrante il senso di profondo tradimento vissuto con la legislazione antiebraica nel 1938. Sono pagine toccanti nella descrizione dei particolari, soprattutto nel momento in cui si soffermano sulle sottoscrizioni per la costruzione di lapidi commemorative e sulla raccolta dell’oro. Un tentativo mal riuscito diretto a ribadire un’appartenenza identitaria e a dimostrare la presenza ebraica in guerra, ben presto cancellate dal regime. Per comprendere appieno la specificità dell’esperienza romana infine si è pensato di effettuare un’analisi comparata con alcune comunità ebraiche coeve, in particolare quelle di Firenze e di Torino. La prima, con un approccio completamente diverso visse l’esperienza del “Comune Ebraico”, 3 con cui si cercò di far coesistere l’ideologia sionista con l’identità ebraica. La seconda, il cui orientamento politico culturale è rappresentato, in buona misura, dalla rivista La nostra bandiera, 4 ci restituisce la mentalità anche di una classe dirigente che, nell’imminenza dell’emanazione delle leggi antiebraiche del 1938, era ancora caratterizzata da un forte nazionalismo e da sentimenti di fiducia nella persona di Mussolini e della politica fascista. La documentazione consente di ricostruire non solo storie parallele, ma relazioni importanti fra queste tre comunità, presenti nelle tre città capitali d’Italia, che restituiscono profili netti e differenze marcate delle compagini a confronto. Nel complesso, la ricerca intende ripercorrere le tappe fondamentali della storia della Comunità Israelitica di Roma attraverso i racconti del quotidiano, ricostruendo non solo la storia delle sue istituzioni interne, ma anche quella dei rapporti sociali e dell’origine del convincimento di appartenere a una società in via di trasformazione, secondo le logiche della rivoluzione fascista e della costruzione dell’”uomo nuovo”.
La comunità ebraica di Roma dalla marcia su Roma alle Leggi antiebraiche (1922-1938)
TERRACINA, GIORDANA
2024
Abstract
Questo saggio intende porre in luce i rapporti tra la Comunità Israelitica e le istituzioni dello Stato, in particolare quello fascista, con l’obiettivo di ricostruire la vita sociale della Roma ebraica durante la nascita e lo sviluppo di un regime totalitario. Un percorso che non ha pretese di completezza, basandosi infatti su alcuni temi specifici e sullo studio delle fonti primarie custodite presso l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, ritenuti però indicativi di una tendenza tesa alla sopravvivenza e alla ricerca di una identità ebraica, secondo un percorso di adattamento e integrazione rispetto ai dettami del regime che si andava costituendo. Un’analisi che si snoda nei diversi capitoli, dove viene ricostruita la vita sociale della Comunità, già interessata dagli effetti dell’emancipazione. Una ricerca che vuole rappresentare un punto di partenza per ulteriori approfondimenti, diretti a una migliore comprensione del forte senso di tradimento che investì gli ebrei romani all’indomani dell’emanazione della legislazione antiebraica. Con l’emancipazione nel Regno d’Italia nel 1861 e la dissoluzione dello Stato pontificio nel 1870, gli ebrei italiani iniziarono a essere considerati cittadini italiani di religione ebraica e dunque a godere di tutti i diritti e doveri conseguenti, tra cui l’accesso alle scuole pubbliche, alle università e il ritorno al pieno godimento del diritto di proprietà e della possibilità di lavorare nei pubblici uffici. Una nuova situazione che per gli ebrei romani, dal 1555 chiusi nelle anguste mura del ghetto con la bolla Cum nimis absurdum di Papa Paolo IV,1 rappresentava l’apertura verso il mondo esterno e un’occasione per inserirsi nel tessuto sociale ed economico della capitale. In precedenza l’impossibilità ex lege di possedere qualsiasi proprietà o di poter svolgere qualsiasi mestiere che non fosse legato al piccolo commercio o a quello di medico, aveva bloccato l’ascensore sociale, relegando la popolazione ebraica a vivere per la quasi totalità in condizioni di mera sussistenza. Se da un lato la povertà estrema aveva contribuito a creare dei forti legami di solidarietà, come si potrà notare nel capitolo dedicato alle Confraternite e alle associazioni assistenziali, dall’altro aveva ritardato lo sviluppo degli appartenenti alla Comunità stessa. Già con il Censimento generale della popolazione del Regno d’Italia del 1911 appariva una realtà in via di cambiamento, dove la diversificazione dei mestieri, che andava di pari passo con l’aumento dell’alfabetizzazione, <>,2 dava conto di un progresso che non era solo economico e dunque incentrato sulla produzione e distribuzione di beni, ma anche attinente più strettamente alle trasformazioni della popolazione. Un lento processo che interessò anche gli aspetti più strettamente giuridici, partendo dal 1883 con la nascita dell’Università Israelitica di Roma, caratterizzata dal carattere volontario dei partecipanti, per arrivare al Regio Decreto del 30 ottobre 1930 e al Regolamento attuativo del 19 novembre 1931, con cui furono regolate sul piano nazionale tutte le Comunità Israelitiche italiane, tra cui anche quella di Roma. Tra i punti principali venne stabilito che le Comunità avevano il compito di provvedere alle esigenze religiose, assistenziali e culturali dei loro membri, che facevano obbligatoriamente parte dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, la quale le rappresentava di fronte al Governo e infine venne imposto un contributo obbligatorio per tutti gli appartenenti, da stabilirsi di anno in anno sulla base del reddito di ciascun iscritto e del bilancio preventivo delle Comunità stesse. Rispetto alla direzione spirituale venne prescritto che questa spettasse ai rabbini, le cui nomine venivano approvate dal Ministero dell’Interno. Sebbene rinvenibile in sottofondo, tale passaggio non è presente in maniera esplicita nelle pagine a venire, essendosi scelto di analizzare piuttosto gli effetti provocati dalla riforma della scuola del ministro Giovanni Gentile nei primi anni ’20 e dal Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede dell’11 febbraio 1929, a cui entrambi si deve un’accelerazione nella nascita della scuola ebraica. Una Comunità avviata verso un suo cammino, seppur nei solchi tracciati dal regime fascista, a cui la nuova legge aveva dato poteri di controllo sempre più penetranti. E questa volontà di direzione si rinviene bene nelle pagine dedicate all’arrivo degli ebrei dall’Europa Orientale e alla loro accoglienza, che ancora una volta racconta di una solidarietà che va oltre i confini geografici. In questo sia pur non ideale contesto, l’Italia ne esce come un’isola felice nel mezzo dei venti sempre più forti dell’antisemitismo, che arrivavano dall’Est e che solo la guerra in Africa Orientale inizierà a scalfire. I paragrafi che narrano del patriottismo degli ebrei italiani, presente durante e dopo la Grande guerra e nel mezzo delle sanzioni a partire dal 1935, spiegano in forma ancora più penetrante il senso di profondo tradimento vissuto con la legislazione antiebraica nel 1938. Sono pagine toccanti nella descrizione dei particolari, soprattutto nel momento in cui si soffermano sulle sottoscrizioni per la costruzione di lapidi commemorative e sulla raccolta dell’oro. Un tentativo mal riuscito diretto a ribadire un’appartenenza identitaria e a dimostrare la presenza ebraica in guerra, ben presto cancellate dal regime. Per comprendere appieno la specificità dell’esperienza romana infine si è pensato di effettuare un’analisi comparata con alcune comunità ebraiche coeve, in particolare quelle di Firenze e di Torino. La prima, con un approccio completamente diverso visse l’esperienza del “Comune Ebraico”, 3 con cui si cercò di far coesistere l’ideologia sionista con l’identità ebraica. La seconda, il cui orientamento politico culturale è rappresentato, in buona misura, dalla rivista La nostra bandiera, 4 ci restituisce la mentalità anche di una classe dirigente che, nell’imminenza dell’emanazione delle leggi antiebraiche del 1938, era ancora caratterizzata da un forte nazionalismo e da sentimenti di fiducia nella persona di Mussolini e della politica fascista. La documentazione consente di ricostruire non solo storie parallele, ma relazioni importanti fra queste tre comunità, presenti nelle tre città capitali d’Italia, che restituiscono profili netti e differenze marcate delle compagini a confronto. Nel complesso, la ricerca intende ripercorrere le tappe fondamentali della storia della Comunità Israelitica di Roma attraverso i racconti del quotidiano, ricostruendo non solo la storia delle sue istituzioni interne, ma anche quella dei rapporti sociali e dell’origine del convincimento di appartenere a una società in via di trasformazione, secondo le logiche della rivoluzione fascista e della costruzione dell’”uomo nuovo”.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/297484
URN:NBN:IT:UNIROMA2-297484