L’obiettivo del presente studio è quello di trovare risposte soddisfacenti agli interrogativi appena esposti, con un’attenzione particolare alle situazioni che consistono nella messa a disposizione da parte di uno Stato della propria base militare e del proprio territorio, ovvero in un supporto logistico alle missioni cinetiche con gli UAV condotte da altro Stato. Il presente lavoro trae spunto dall’osservazione della prassi in materia di velivoli a pilotaggio remoto. Essa dimostra che ancora si è lontani dal giungere ad una regolamentazione univoca della materia e che ciò genera non poche difficoltà dal punto di vista dell’inquadramento della prassi nelle norme di diritto internazionale. Le condotte illecite degli Stati comportano le conseguenze previste in materia di responsabilità. Data la peculiarità delle missioni che prevedono l’uso di velivoli a pilotaggio remoto, è doveroso interrogarsi sulla applicabilità del sistema classico di responsabilità condivisa. Si può anticipare che la risposta appare essere positiva. L’osservazione della prassi delle operazioni cinetiche con i droni negli scenari più vari permette di notare che raramente il soggetto agente è uno Stato singolo. Al contrario, l’azione di quest’ultimo è spesso coadiuvata da condotte di altri Stati, in assenza delle quali il buon esito dell’operazione sarebbe escluso. Ed allora, ecco il quesito centrale del presente lavoro: indagare la rilevanza in termini di responsabilità delle condotte accessorie. Sebbene vari siano gli strumenti che le categorie della responsabilità offrono per affrontare il tema, non ne esiste una che corrisponda perfettamente alla fattispecie in oggetto. In primo luogo potrebbe sostenersi che ritenere lo Stato adiuvante responsabile per l’illecito compiuto con una missione cinetica rientri nella categoria della responsabilità indiretta. Quest’ultima si configura come responsabilità per fatto altrui, fondata su un rapporto di diritto tra i due soggetti preesistente all’illecito. Nei casi osservati, non esiste invece alcun rapporto di agenzia, mandato, rappresentanza, controllo o coercizione che giustifichi tale ricostruzione. Pertanto, l’applicazione degli artt. 17 e 18 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati del 2001 appare, almeno a prima vista, da escludere. In secondo luogo potrebbe apparire funzionale allo scopo la categoria della due diligence, poiché si potrebbe argomentare che nella gestione delle proprie risorse lo Stato, collaborando con l’autore dello strike illecito, ha mancato di operare quell’opportuno controllo che sarebbe dovuto quando si vuole impedire che azioni sul proprio territorio causino lesioni ai danni di Stati terzi, ed in particolare dei loro cittadini. L’uso del paradigma della protezione degli stranieri da azioni dannose sul proprio territorio, valido anche nel settore della protezione ambientale, ha il pregio di calzare agilmente la condotta accessoria. In questo caso l’obbligo violato è solo quello di vigilare sull’uso del proprio territorio e potrebbe essere tale violazione, non quella del divieto di rendersi complice, a determinare la responsabilità dello Stato, con le differenze che si osserveranno anche rispetto alle conseguenze. Fermarsi a questo punto dell’indagine non è comunque soddisfacente, restando esclusi dalla valutazione elementi fondamentali come quello soggettivo. La complicità degli Stati nell’illecito sembra corrispondere al meglio alla necessità di qualificare giuridicamente le condotte accessorie che si incardinano su quella principale in situazioni di cooperazione tra Stati nelle missioni militari3. In particolare, la messa a disposizione del territorio, così come della strumentazione, sembrano sussumibili nel concetto di assistenza formulato dall’art. 16 del Progetto di articoli del 2001: la condotta accessoria è infatti facilitante, nel senso che senza di essa l’operazione sarebbe di più difficile realizzazione o probabilmente non realizzabile affatto. Dubbi, però, permangono sull’integrazione dell’elemento soggettivo della complicità, dato che il Progetto prescrive “la conoscenza delle circostanze dell’atto internazionalmente illecito”, ma il commentario alla norma integra con accezione differente tale previsione. È difficile, infatti, affermare che lo Stato che mette a disposizione di un altro il proprio territorio possa avere contezza di tutto ciò che avviene per la conduzione della missione cinetica con gli UAV. I processi decisionali spesso non prevedono la partecipazione di organi dei diversi Stati; inoltre, le procedure di targeting sono spesso segrete. Una soluzione potrebbe essere rinvenuta e, di fatto, è stata cercata, negli accordi stipulati tra Stati Uniti e Stati ospitanti, nel tentativo di comprendere fino a che punto le procedure decisionali relative ad ogni missione siano note allo Stato ospitante e prevedano il suo coinvolgimento. Alternative valide sono fornite anche da analogie con lo schema della presunzione di conoscenza adottato per gli illeciti gravi e l’acquisizione nel rischio adottato per i casi in tema di extraordinary renditions L’analisi non si soffermerà con attenzione, invece, sulla gestione delle missioni cinetiche in seno a coalizioni di Stati, qualificabile come partecipazione di più soggetti al medesimo fatto illecito. In questo caso la responsabilità sembrerebbe parcellizzata, nel senso che ogni partecipante è responsabile per la singola condotta realizzata. Se così non fosse, gli Stati potrebbero essere indotti alla creazione di enti appositamente creati per attribuire loro la responsabilità internazionale. Come emerge da quanto brevemente esposto, non sembra esistere un certo ed unico paradigma applicabile alla fattispecie concreta in esame, nè la prassi sembra fornire alcuna indicazione precisa; in aggiunta, a fronte di uccisioni mirate illecite le reazioni degli Stati non coinvolti sono molto sporadiche. Anche dal punto di vista della tutela dei singoli individui, la difficoltà di rinvenire un titolo di responsabilità per gli Stati complici comporta l’impossibilità di utilizzare i meccanismi classici di protezione. In particolare, ci si riferisce alla difficoltà con cui si scontrano le vittime od i loro eredi nel proporre ricorso nei fori idonei alla tutela dei diritti fondamentali, istituiti dalle principali convenzioni in materia. Se lo schema della complicità fosse davvero applicabile, le possibilità di ricorrere a detti meccanismi di protezione, come in primo luogo la Corte europea, diverrebbero invece concrete.
Ipotesi di responsabilità condivisa nelle operazioni con i velivoli armati a pilotaggio remoto
VENTURINI, CHIARA
2020
Abstract
L’obiettivo del presente studio è quello di trovare risposte soddisfacenti agli interrogativi appena esposti, con un’attenzione particolare alle situazioni che consistono nella messa a disposizione da parte di uno Stato della propria base militare e del proprio territorio, ovvero in un supporto logistico alle missioni cinetiche con gli UAV condotte da altro Stato. Il presente lavoro trae spunto dall’osservazione della prassi in materia di velivoli a pilotaggio remoto. Essa dimostra che ancora si è lontani dal giungere ad una regolamentazione univoca della materia e che ciò genera non poche difficoltà dal punto di vista dell’inquadramento della prassi nelle norme di diritto internazionale. Le condotte illecite degli Stati comportano le conseguenze previste in materia di responsabilità. Data la peculiarità delle missioni che prevedono l’uso di velivoli a pilotaggio remoto, è doveroso interrogarsi sulla applicabilità del sistema classico di responsabilità condivisa. Si può anticipare che la risposta appare essere positiva. L’osservazione della prassi delle operazioni cinetiche con i droni negli scenari più vari permette di notare che raramente il soggetto agente è uno Stato singolo. Al contrario, l’azione di quest’ultimo è spesso coadiuvata da condotte di altri Stati, in assenza delle quali il buon esito dell’operazione sarebbe escluso. Ed allora, ecco il quesito centrale del presente lavoro: indagare la rilevanza in termini di responsabilità delle condotte accessorie. Sebbene vari siano gli strumenti che le categorie della responsabilità offrono per affrontare il tema, non ne esiste una che corrisponda perfettamente alla fattispecie in oggetto. In primo luogo potrebbe sostenersi che ritenere lo Stato adiuvante responsabile per l’illecito compiuto con una missione cinetica rientri nella categoria della responsabilità indiretta. Quest’ultima si configura come responsabilità per fatto altrui, fondata su un rapporto di diritto tra i due soggetti preesistente all’illecito. Nei casi osservati, non esiste invece alcun rapporto di agenzia, mandato, rappresentanza, controllo o coercizione che giustifichi tale ricostruzione. Pertanto, l’applicazione degli artt. 17 e 18 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati del 2001 appare, almeno a prima vista, da escludere. In secondo luogo potrebbe apparire funzionale allo scopo la categoria della due diligence, poiché si potrebbe argomentare che nella gestione delle proprie risorse lo Stato, collaborando con l’autore dello strike illecito, ha mancato di operare quell’opportuno controllo che sarebbe dovuto quando si vuole impedire che azioni sul proprio territorio causino lesioni ai danni di Stati terzi, ed in particolare dei loro cittadini. L’uso del paradigma della protezione degli stranieri da azioni dannose sul proprio territorio, valido anche nel settore della protezione ambientale, ha il pregio di calzare agilmente la condotta accessoria. In questo caso l’obbligo violato è solo quello di vigilare sull’uso del proprio territorio e potrebbe essere tale violazione, non quella del divieto di rendersi complice, a determinare la responsabilità dello Stato, con le differenze che si osserveranno anche rispetto alle conseguenze. Fermarsi a questo punto dell’indagine non è comunque soddisfacente, restando esclusi dalla valutazione elementi fondamentali come quello soggettivo. La complicità degli Stati nell’illecito sembra corrispondere al meglio alla necessità di qualificare giuridicamente le condotte accessorie che si incardinano su quella principale in situazioni di cooperazione tra Stati nelle missioni militari3. In particolare, la messa a disposizione del territorio, così come della strumentazione, sembrano sussumibili nel concetto di assistenza formulato dall’art. 16 del Progetto di articoli del 2001: la condotta accessoria è infatti facilitante, nel senso che senza di essa l’operazione sarebbe di più difficile realizzazione o probabilmente non realizzabile affatto. Dubbi, però, permangono sull’integrazione dell’elemento soggettivo della complicità, dato che il Progetto prescrive “la conoscenza delle circostanze dell’atto internazionalmente illecito”, ma il commentario alla norma integra con accezione differente tale previsione. È difficile, infatti, affermare che lo Stato che mette a disposizione di un altro il proprio territorio possa avere contezza di tutto ciò che avviene per la conduzione della missione cinetica con gli UAV. I processi decisionali spesso non prevedono la partecipazione di organi dei diversi Stati; inoltre, le procedure di targeting sono spesso segrete. Una soluzione potrebbe essere rinvenuta e, di fatto, è stata cercata, negli accordi stipulati tra Stati Uniti e Stati ospitanti, nel tentativo di comprendere fino a che punto le procedure decisionali relative ad ogni missione siano note allo Stato ospitante e prevedano il suo coinvolgimento. Alternative valide sono fornite anche da analogie con lo schema della presunzione di conoscenza adottato per gli illeciti gravi e l’acquisizione nel rischio adottato per i casi in tema di extraordinary renditions L’analisi non si soffermerà con attenzione, invece, sulla gestione delle missioni cinetiche in seno a coalizioni di Stati, qualificabile come partecipazione di più soggetti al medesimo fatto illecito. In questo caso la responsabilità sembrerebbe parcellizzata, nel senso che ogni partecipante è responsabile per la singola condotta realizzata. Se così non fosse, gli Stati potrebbero essere indotti alla creazione di enti appositamente creati per attribuire loro la responsabilità internazionale. Come emerge da quanto brevemente esposto, non sembra esistere un certo ed unico paradigma applicabile alla fattispecie concreta in esame, nè la prassi sembra fornire alcuna indicazione precisa; in aggiunta, a fronte di uccisioni mirate illecite le reazioni degli Stati non coinvolti sono molto sporadiche. Anche dal punto di vista della tutela dei singoli individui, la difficoltà di rinvenire un titolo di responsabilità per gli Stati complici comporta l’impossibilità di utilizzare i meccanismi classici di protezione. In particolare, ci si riferisce alla difficoltà con cui si scontrano le vittime od i loro eredi nel proporre ricorso nei fori idonei alla tutela dei diritti fondamentali, istituiti dalle principali convenzioni in materia. Se lo schema della complicità fosse davvero applicabile, le possibilità di ricorrere a detti meccanismi di protezione, come in primo luogo la Corte europea, diverrebbero invece concrete.| File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/300610
URN:NBN:IT:UNIROMA2-300610