L’infezione di protesi rappresenta una fra le complicanze più temibili in chirurgia vascolare, essendo gravata da importanti tassi di mortalità, amputazione, reinterventi e reospedalizzazione prolungata, soprattutto in mancanza di materiale autologo con cui sostituire la protesi infetta. L’incidenza riportata di aneurismi aortici infetti è dello 0,6-3% 1 di tutti gli aneurismi aortici, mentre l’infezione di protesi aortica è riportata nello 0,1-6% dei pazienti dopo chirurgia aortica tradizionale 2 e nello 0,2-0,7% dopo intervento endovascolare (EVAR) 3 . Nonostante l’aumento del numero di procedure endovascolari abbia ridotto il numero totale di infezioni protesiche, è stato stimato che l’incidenza cumulativa a 2 anni di infezione di protesi aortica dopo chirurgia aortica open raggiunga il 4,5% 4 . Il trattamento dell’infezione protesica prevede la rimozione completa del materiale protesico, un ampio debridment dei tessuti necrotici o infetti circostanti e la ricostruzione vascolare, che può essere eseguita con bypass extraanatomico per evitare la zona infetta o con ricostruzione vascolare in situ; in quest’ultimo caso l’omento o un lembo muscolare possono essere utilizzati per creare una barriera biologica a protezione del nuovo graft. Per la ricostruzione in situ sono stati sviluppati diversi tipi di protesi specifiche, ad esempio impregnate con rifampicina o triclosan, oppure silver coated o infine xenograft quali il pericardio bovino. Tuttavia il tasso di reinfezione con queste metodiche risulta tutt’altro che trascurabile, variando dal 4 al 17% 5 . Pertanto si sono sviluppate tecniche alternative, quali l’utilizzo delle vene profonde degli arti, in particolare delle vene femorali, queste procedure tuttavia appaiono gravate da un elevata morbilità venosa, comprensiva di fasciotomie postoperatorie ed alto rischio di rottura postoperatoria e reinterventi secondari 6, 7 . Nel trattamento delle infezioni protesiche dopo l’espianto di protesi infetta solo raramente è disponibile un segmento vascolare autologo adeguato con cui eseguire la ricostruzione. La possibilità di utilizzare un segmento vascolare da donatore cadavere ha affascinato i chirurghi fin dagli albori della chirurgia vascolare. Già negli anni 50-60 si segnalavano le prime serie, principalmente di pazienti sottoposti a interventi per AAA o per patologia aortoilliaca ostruttiva, in assenza di infezione, con risultati tuttavia non sempre soddisfacenti 8, motivo per cui gli allograft vennero abbandonati a favore delle moderne e disponibili protesi sintetiche. L’utilizzo di allograft freschi (conservati in soluzione a 4°C) nel trattamento delle infezioni protesiche venne introdotto con successo alla fine degli anni 80 del XX secolo da Kieffer a Parigi 9 . Prager et al. 10 nel 2002 riportavano risultati incoraggianti nell’utilizzo di allograft freschi anche nel trattamento dell’ischemia critica periferica in assenza di materiale autologo idoneo per interventi di rivascolarizzazione distale. Dopo il trapianto di allograft freschi si assiste tuttavia ad una risposta immunitaria simile al processo di rigetto a cui vanno incontro i trapianti di organi solidi 11 . Nei pazienti sottoposti a trapianto di allograft non sottoposti ad immunosopressione è stata riportata infatti un’incidenza più elevata di complicanze correlate al trapianto come rotture del graft, dilatazione aneurismatica o trombosi 12. D’altra parte, nei pazienti immunosoppressi per trapianto d’organo e simultaneo impianto di allograft vascolare, è stato riportato un buon tasso di pervietà a distanza e assenza di dilatazioni aneurismatiche degli allograft13-15 . Gli studi di Matia et al 16,17 hanno dimostrato l’efficacia di una terapia immunosoppressiva con Tacrolimus a basse dosi nell’inibire il rigetto acuto sia cellulo mediato che anticorpo mediato. Lo stesso gruppo ha inoltre dimostrato la possibilità di ritardare di una settimana dall’impianto l’inizio della terapia con Tacrolimus, senza inficiare l’efficacia del trattamento antirigetto 17. Nonostante questi studi abbiano riportato come la terapia immunosopressiva possa migliorare i risultati degli allograft, essa non si è diffusa nella pratica clinica quotidiana, verosimilmente anche per il timore di ridurre la risposta immunitaria in pazienti con infezione florida 13-16 . Le implicazioni della direttiva CE 2004/23/EC in merito agli standard di qualità e sicurezza per la donazione, testing, processazione, preservazione e distribuzione di tessuti e cellule umani hanno portato alla cessazione dell’utilizzo di allograft vascolari freschi e dato quindi impulso alla diffusione degli allograft criopreservati. Gli allograft criopreservati prelevati da donatori multiorgano cerebralmente morti hanno infatti una migliore preservazione del collagene e stabilità meccanica e non influenzano la viscoelasticità delle arterie muscolari rispetto agli allograft freschi 6 . Il processo di criopreservazione riduce teoricamente l’immunogenicità dei graft e quindi il tasso di complicanze tardive6 . Inoltre gli allograft criopreservati sono processati in modo tale da non richiedere matching per gruppo sanguigno fra donatore e ricevente, possono essere preselezionati in base alle dimensioni dei vasi del ricevente e, nel caso la sostituzione interessi il segmento viscerale, le arterie renali, i vasi viscerali e le arterie ipogastriche possono essere utilizzati per confezionare bypass sulle arterie renali o le arterie viscerali 18. La disponibilità degli allograft criopreservati, conservabili per anni, è maggiore rispetto agli allograft freschi e la gestione logistica (stoccaggio, gestione delle richieste, trasporto dalla banca dei tessuti al centro utilizzatore) più semplice. Sebbene gli allograft criopreservati siano considerati una buona scelta per la sostituzione di protesi vascolari infette, la loro efficacia a lungo termine non è ancora chiara per la possibilità di degenerazione. L’entusiasmo iniziale nell’uso di allograft criopreservati è stato quindi smorzato nel tempo da risultati a lungo termine subottimali. Complicazioni quali la fistolizzazione intestinale ricorrente, la trombosi del graft o la sua degenerazione aneurismatica con conseguente rottura sono infatti state riportate nelle serie con follow-up a lungo termine7; 18-21 . Scopo del presente lavoro è la valutazione della sopravvivenza e delle complicanze degli allograft criopreservati impiantati nel trattamento sia delle infezioni di protesi vascolari aortiche e periferiche che come condotto per interventi di bypass in pazienti affetti da ischemia critica periferica, nonché la ricerca dei possibili fattori eziologici delle degenerazioni, anche mediante studio istologico degli allograft espiantati.

Incidenza, tipologia e ipotesi eziologiche di fallimento degli allotrapianti vascolari criopreservati nelle ricostruzioni arteriose

STRINGARI, CARLO
2020

Abstract

L’infezione di protesi rappresenta una fra le complicanze più temibili in chirurgia vascolare, essendo gravata da importanti tassi di mortalità, amputazione, reinterventi e reospedalizzazione prolungata, soprattutto in mancanza di materiale autologo con cui sostituire la protesi infetta. L’incidenza riportata di aneurismi aortici infetti è dello 0,6-3% 1 di tutti gli aneurismi aortici, mentre l’infezione di protesi aortica è riportata nello 0,1-6% dei pazienti dopo chirurgia aortica tradizionale 2 e nello 0,2-0,7% dopo intervento endovascolare (EVAR) 3 . Nonostante l’aumento del numero di procedure endovascolari abbia ridotto il numero totale di infezioni protesiche, è stato stimato che l’incidenza cumulativa a 2 anni di infezione di protesi aortica dopo chirurgia aortica open raggiunga il 4,5% 4 . Il trattamento dell’infezione protesica prevede la rimozione completa del materiale protesico, un ampio debridment dei tessuti necrotici o infetti circostanti e la ricostruzione vascolare, che può essere eseguita con bypass extraanatomico per evitare la zona infetta o con ricostruzione vascolare in situ; in quest’ultimo caso l’omento o un lembo muscolare possono essere utilizzati per creare una barriera biologica a protezione del nuovo graft. Per la ricostruzione in situ sono stati sviluppati diversi tipi di protesi specifiche, ad esempio impregnate con rifampicina o triclosan, oppure silver coated o infine xenograft quali il pericardio bovino. Tuttavia il tasso di reinfezione con queste metodiche risulta tutt’altro che trascurabile, variando dal 4 al 17% 5 . Pertanto si sono sviluppate tecniche alternative, quali l’utilizzo delle vene profonde degli arti, in particolare delle vene femorali, queste procedure tuttavia appaiono gravate da un elevata morbilità venosa, comprensiva di fasciotomie postoperatorie ed alto rischio di rottura postoperatoria e reinterventi secondari 6, 7 . Nel trattamento delle infezioni protesiche dopo l’espianto di protesi infetta solo raramente è disponibile un segmento vascolare autologo adeguato con cui eseguire la ricostruzione. La possibilità di utilizzare un segmento vascolare da donatore cadavere ha affascinato i chirurghi fin dagli albori della chirurgia vascolare. Già negli anni 50-60 si segnalavano le prime serie, principalmente di pazienti sottoposti a interventi per AAA o per patologia aortoilliaca ostruttiva, in assenza di infezione, con risultati tuttavia non sempre soddisfacenti 8, motivo per cui gli allograft vennero abbandonati a favore delle moderne e disponibili protesi sintetiche. L’utilizzo di allograft freschi (conservati in soluzione a 4°C) nel trattamento delle infezioni protesiche venne introdotto con successo alla fine degli anni 80 del XX secolo da Kieffer a Parigi 9 . Prager et al. 10 nel 2002 riportavano risultati incoraggianti nell’utilizzo di allograft freschi anche nel trattamento dell’ischemia critica periferica in assenza di materiale autologo idoneo per interventi di rivascolarizzazione distale. Dopo il trapianto di allograft freschi si assiste tuttavia ad una risposta immunitaria simile al processo di rigetto a cui vanno incontro i trapianti di organi solidi 11 . Nei pazienti sottoposti a trapianto di allograft non sottoposti ad immunosopressione è stata riportata infatti un’incidenza più elevata di complicanze correlate al trapianto come rotture del graft, dilatazione aneurismatica o trombosi 12. D’altra parte, nei pazienti immunosoppressi per trapianto d’organo e simultaneo impianto di allograft vascolare, è stato riportato un buon tasso di pervietà a distanza e assenza di dilatazioni aneurismatiche degli allograft13-15 . Gli studi di Matia et al 16,17 hanno dimostrato l’efficacia di una terapia immunosoppressiva con Tacrolimus a basse dosi nell’inibire il rigetto acuto sia cellulo mediato che anticorpo mediato. Lo stesso gruppo ha inoltre dimostrato la possibilità di ritardare di una settimana dall’impianto l’inizio della terapia con Tacrolimus, senza inficiare l’efficacia del trattamento antirigetto 17. Nonostante questi studi abbiano riportato come la terapia immunosopressiva possa migliorare i risultati degli allograft, essa non si è diffusa nella pratica clinica quotidiana, verosimilmente anche per il timore di ridurre la risposta immunitaria in pazienti con infezione florida 13-16 . Le implicazioni della direttiva CE 2004/23/EC in merito agli standard di qualità e sicurezza per la donazione, testing, processazione, preservazione e distribuzione di tessuti e cellule umani hanno portato alla cessazione dell’utilizzo di allograft vascolari freschi e dato quindi impulso alla diffusione degli allograft criopreservati. Gli allograft criopreservati prelevati da donatori multiorgano cerebralmente morti hanno infatti una migliore preservazione del collagene e stabilità meccanica e non influenzano la viscoelasticità delle arterie muscolari rispetto agli allograft freschi 6 . Il processo di criopreservazione riduce teoricamente l’immunogenicità dei graft e quindi il tasso di complicanze tardive6 . Inoltre gli allograft criopreservati sono processati in modo tale da non richiedere matching per gruppo sanguigno fra donatore e ricevente, possono essere preselezionati in base alle dimensioni dei vasi del ricevente e, nel caso la sostituzione interessi il segmento viscerale, le arterie renali, i vasi viscerali e le arterie ipogastriche possono essere utilizzati per confezionare bypass sulle arterie renali o le arterie viscerali 18. La disponibilità degli allograft criopreservati, conservabili per anni, è maggiore rispetto agli allograft freschi e la gestione logistica (stoccaggio, gestione delle richieste, trasporto dalla banca dei tessuti al centro utilizzatore) più semplice. Sebbene gli allograft criopreservati siano considerati una buona scelta per la sostituzione di protesi vascolari infette, la loro efficacia a lungo termine non è ancora chiara per la possibilità di degenerazione. L’entusiasmo iniziale nell’uso di allograft criopreservati è stato quindi smorzato nel tempo da risultati a lungo termine subottimali. Complicazioni quali la fistolizzazione intestinale ricorrente, la trombosi del graft o la sua degenerazione aneurismatica con conseguente rottura sono infatti state riportate nelle serie con follow-up a lungo termine7; 18-21 . Scopo del presente lavoro è la valutazione della sopravvivenza e delle complicanze degli allograft criopreservati impiantati nel trattamento sia delle infezioni di protesi vascolari aortiche e periferiche che come condotto per interventi di bypass in pazienti affetti da ischemia critica periferica, nonché la ricerca dei possibili fattori eziologici delle degenerazioni, anche mediante studio istologico degli allograft espiantati.
2020
Italiano
IPPOLITI, ARNALDO
Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14242/307729
Il codice NBN di questa tesi è URN:NBN:IT:UNIROMA2-307729