La ricerca in oggetto si è prefissata, quale scopo immediato, quello di indagare l’incidenza del criterio dell’utilitas contrahentium sul regime della responsabilità nei contratti reali gratuiti di comodato e deposito, nell’intento di contribuire alla ricostruzione storico-giuridica dell’utilitas contrahentium nel diritto romano classico, attraverso l’analisi delle fonti classiche e postclassiche in materia. L’esame delle fonti della Collatio legum Mosaicarum et Romanarum e del Digesto – cui è dedicato il capitolo terzo – ha permesso di evidenziare come l’utilitas contrahentium sia una regola casistica, la cui enunciazione prende le mosse dai contratti gratuiti di comodato e deposito: depongono in tal senso, in particolare, Coll. 10.2.1 e D. 13.6.5.2. Anche dall’analisi dei passi gaiani – specialmente, Gai 3.205-207, D. 13.6.18 pr. e D. 44.7.1.4-5, cui è dedicato il capitolo quarto –, è emerso come gli stessi riguardino esclusivamente i contratti di comodato e deposito. L’esame dei brani gaiani presi in considerazione ha mostrato come il canone dell’interesse non sia mai espresso in termini di utilitas, che compare per la prima volta nei passi di Modestino e di Ulpiano (rispettivamente, Coll. 10.2.1-3 e D. 13.6.5.2-3). Tale circostanza, tuttavia, non può far dubitare della ravvisabilità nei primi del criterio in questione: ad esso, semplicemente, ci si sarebbe riferiti attraverso l’uso di parole diverse, come commodum in Gai 3.206, o gratia in D. 13.6.18 pr. e in D. 44.7.1.5. Il mero dato letterale, allora, non può aver avuto un peso decisivo nella ricostruzione della teoria dell’utilitas, al punto da negare ogni incidenza di quest’ultima sulla determinazione dei criteri di imputazione della responsabilità contrattuale prima dell’età tardoclassica, in cui si collocano i contributi di Ulpiano e Modestino. Piuttosto, attraverso la valorizzazione di alcune testimonianze indirette – in particolare quelle contenute in D. 13.6.5.3, in D. 19.2.31 e in D. 50.17.23 – si è rilevato come quello dell’interesse fosse un canone di cui già si servivano i giuristi repubblicani, come Quinto Mucio Scevola, il cui pensiero è riportato da Ulpiano in D. 13.6.5.3, e Alfeno Varo, a cui è attribuita la paternità di D. 19.2.31; nonché quelli del primo principato, come Sabino, a cui si fa risalire il contenuto di D. 50.17.23. A ciò si aggiunga la constatata incomprensione del criterio in esame nelle epoche successive: sono state evidenziate le medesime incongruenze in Coll. 10.2.1-3 e in D. 30.108.12, nei quali si scorge un tentativo di generalizzazione, che si rivela però inevitabilmente imperfetta, della regola dell’utilitas. Quest’ultima, che nasce come regola casistica, conserva tale natura, rifuggendo ogni tentativo di teorizzazione. La menzione dell’utilitas nelle fonti, dunque, è destinata progressivamente a perdersi, come dimostrato dal fatto che alla stessa si fa espresso riferimento in D. 13.6.5.3 e in D. 19.2.31 – il cui contenuto è riconducibile a due giuristi repubblicani – mentre non è più nominata, ma è di certo presupposta, in D. 50.17.23: tali osservazioni, che muovono dal presupposto dell’autenticità dei brani presi in considerazione, hanno costituito lo spunto per concludere che tale canone era già ai tempi di Sabino ben radicato, al punto da rendere superflua ogni sua espressa menzione. A scomparire non sarebbe stata la regola dell’utilitas, che è rimasta sempre ben presente ai giuristi e sottesa ai discorsi sulla responsabilità, ma la sua espressa enunciazione. Questa circostanza, come è stato detto, trova spiegazione in relazione all’emersione, sul piano processuale, dei giudizi di buona fede – si è notato (nel capitolo terzo), infatti, che tra la seconda metà del I secolo a.C. e l’inizio del II secolo d.C. le formule in ius di buone fede, prima del deposito e poi del comodato, vanno ad affiancare quelle pretorie in factum –, il cui definitivo affermarsi comporta il venir meno della necessità di esplicitare il criterio sostanziale dell’utilitas, la cui considerazione può dirsi ormai inglobata in quelli. L’esistenza dell’originario legame tra l’utilità e la gratuità si accompagna al dato, anch’esso attestato dalle fonti, per cui i rapporti ai quali l’operatività dell’utilitas viene progressivamente estesa rientrano nel novero dei iudicia bonae fidei. Come si è visto, i rapporti obbligatori elencati in Coll. 10.2.1-3 e in D. 13.6.5.2-3 danno tutti luogo a giudizi di buona fede; inoltre, in D. 30.108.12 Africano, richiamandosi a Giuliano, stabilisce un collegamento diretto tra contractus bonae fidei e utilitas. Ne è emerso che, proprio grazie al carattere flessibile della buona fede, i prudentes potevano graduare diversamente la misura della responsabilità delle parti, pur in relazione al medesimo tipo contrattuale, qualora il criterio dell’utilitas giustificasse la diversa soluzione. Infine, si è osservato che anche nel sistema italiano vigente, proprio nelle norme che regolano la responsabilità del depositario e del comodatario, troviamo traccia dell’utilitas: in particolare, nell’art. 1768, comma 2, cod. civ., secondo cui la responsabilità per colpa del depositario è valutata con minor rigore se il deposito è gratuito; e, ancora, nell’art. 1805, comma 1, cod. civ., che estende la responsabilità del comodatario al caso fortuito, assoggettandolo così a una responsabilità più gravosa rispetto a quella che incombe sul debitore ordinario (all’incidenza dell’utilitas contrahentium sul regime odierno della responsabilità è dedicato il capitolo quinto).
L'utilitas contrahentium nei contratti reali gratuiti in diritto romano classico: un modello di responsabilità
VERONESE, BENEDETTA
2012
Abstract
La ricerca in oggetto si è prefissata, quale scopo immediato, quello di indagare l’incidenza del criterio dell’utilitas contrahentium sul regime della responsabilità nei contratti reali gratuiti di comodato e deposito, nell’intento di contribuire alla ricostruzione storico-giuridica dell’utilitas contrahentium nel diritto romano classico, attraverso l’analisi delle fonti classiche e postclassiche in materia. L’esame delle fonti della Collatio legum Mosaicarum et Romanarum e del Digesto – cui è dedicato il capitolo terzo – ha permesso di evidenziare come l’utilitas contrahentium sia una regola casistica, la cui enunciazione prende le mosse dai contratti gratuiti di comodato e deposito: depongono in tal senso, in particolare, Coll. 10.2.1 e D. 13.6.5.2. Anche dall’analisi dei passi gaiani – specialmente, Gai 3.205-207, D. 13.6.18 pr. e D. 44.7.1.4-5, cui è dedicato il capitolo quarto –, è emerso come gli stessi riguardino esclusivamente i contratti di comodato e deposito. L’esame dei brani gaiani presi in considerazione ha mostrato come il canone dell’interesse non sia mai espresso in termini di utilitas, che compare per la prima volta nei passi di Modestino e di Ulpiano (rispettivamente, Coll. 10.2.1-3 e D. 13.6.5.2-3). Tale circostanza, tuttavia, non può far dubitare della ravvisabilità nei primi del criterio in questione: ad esso, semplicemente, ci si sarebbe riferiti attraverso l’uso di parole diverse, come commodum in Gai 3.206, o gratia in D. 13.6.18 pr. e in D. 44.7.1.5. Il mero dato letterale, allora, non può aver avuto un peso decisivo nella ricostruzione della teoria dell’utilitas, al punto da negare ogni incidenza di quest’ultima sulla determinazione dei criteri di imputazione della responsabilità contrattuale prima dell’età tardoclassica, in cui si collocano i contributi di Ulpiano e Modestino. Piuttosto, attraverso la valorizzazione di alcune testimonianze indirette – in particolare quelle contenute in D. 13.6.5.3, in D. 19.2.31 e in D. 50.17.23 – si è rilevato come quello dell’interesse fosse un canone di cui già si servivano i giuristi repubblicani, come Quinto Mucio Scevola, il cui pensiero è riportato da Ulpiano in D. 13.6.5.3, e Alfeno Varo, a cui è attribuita la paternità di D. 19.2.31; nonché quelli del primo principato, come Sabino, a cui si fa risalire il contenuto di D. 50.17.23. A ciò si aggiunga la constatata incomprensione del criterio in esame nelle epoche successive: sono state evidenziate le medesime incongruenze in Coll. 10.2.1-3 e in D. 30.108.12, nei quali si scorge un tentativo di generalizzazione, che si rivela però inevitabilmente imperfetta, della regola dell’utilitas. Quest’ultima, che nasce come regola casistica, conserva tale natura, rifuggendo ogni tentativo di teorizzazione. La menzione dell’utilitas nelle fonti, dunque, è destinata progressivamente a perdersi, come dimostrato dal fatto che alla stessa si fa espresso riferimento in D. 13.6.5.3 e in D. 19.2.31 – il cui contenuto è riconducibile a due giuristi repubblicani – mentre non è più nominata, ma è di certo presupposta, in D. 50.17.23: tali osservazioni, che muovono dal presupposto dell’autenticità dei brani presi in considerazione, hanno costituito lo spunto per concludere che tale canone era già ai tempi di Sabino ben radicato, al punto da rendere superflua ogni sua espressa menzione. A scomparire non sarebbe stata la regola dell’utilitas, che è rimasta sempre ben presente ai giuristi e sottesa ai discorsi sulla responsabilità, ma la sua espressa enunciazione. Questa circostanza, come è stato detto, trova spiegazione in relazione all’emersione, sul piano processuale, dei giudizi di buona fede – si è notato (nel capitolo terzo), infatti, che tra la seconda metà del I secolo a.C. e l’inizio del II secolo d.C. le formule in ius di buone fede, prima del deposito e poi del comodato, vanno ad affiancare quelle pretorie in factum –, il cui definitivo affermarsi comporta il venir meno della necessità di esplicitare il criterio sostanziale dell’utilitas, la cui considerazione può dirsi ormai inglobata in quelli. L’esistenza dell’originario legame tra l’utilità e la gratuità si accompagna al dato, anch’esso attestato dalle fonti, per cui i rapporti ai quali l’operatività dell’utilitas viene progressivamente estesa rientrano nel novero dei iudicia bonae fidei. Come si è visto, i rapporti obbligatori elencati in Coll. 10.2.1-3 e in D. 13.6.5.2-3 danno tutti luogo a giudizi di buona fede; inoltre, in D. 30.108.12 Africano, richiamandosi a Giuliano, stabilisce un collegamento diretto tra contractus bonae fidei e utilitas. Ne è emerso che, proprio grazie al carattere flessibile della buona fede, i prudentes potevano graduare diversamente la misura della responsabilità delle parti, pur in relazione al medesimo tipo contrattuale, qualora il criterio dell’utilitas giustificasse la diversa soluzione. Infine, si è osservato che anche nel sistema italiano vigente, proprio nelle norme che regolano la responsabilità del depositario e del comodatario, troviamo traccia dell’utilitas: in particolare, nell’art. 1768, comma 2, cod. civ., secondo cui la responsabilità per colpa del depositario è valutata con minor rigore se il deposito è gratuito; e, ancora, nell’art. 1805, comma 1, cod. civ., che estende la responsabilità del comodatario al caso fortuito, assoggettandolo così a una responsabilità più gravosa rispetto a quella che incombe sul debitore ordinario (all’incidenza dell’utilitas contrahentium sul regime odierno della responsabilità è dedicato il capitolo quinto).File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/83345
URN:NBN:IT:UNIPD-83345