Nella prima metà del Settecento, la legazione di Romagna rappresentò uno dei laboratori artistici più attivi della ‘periferia’ dello Stato della Chiesa. Infatti, la costante perdita di prestigio da parte della figura del Pontefice in atto a partire dalle paci di Westfalia (1648) se da una parte attivò quel lento processo di indebolimento dell’egemonia culturale romana, dall’altra consentì anche alle regioni più remote della nazione di contribuire al dibattito allora in corso sull’esperienza barocca. Conseguentemente, l’obiettivo della ricerca è stato principalmente quello di ricostruire i termini di questo apporto sotto il profilo dell’architettura. Anzitutto, quindi, è parso necessario stabilire quale fosse la condizione del territorio al principio del XVIII secolo e quale fosse lo stato delle relazioni con Roma e Bologna. E questo perché, tradizionalmente, si è sempre ritenuta la provincia dipendente da questi centri. Certamente, la Congregazione del Buon Governo e i rappresentanti del regnante 'in loco' – Legati e Governatori – esercitarono un controllo totale, rendendo sostanzialmente superflui i Consigli Generali e particolari romagnoli. Tuttavia, la favorevole successione al trono di sovrani interessati a un rilancio dello Stato riaccese lo spirito di iniziativa delle amministrazioni locali, che intesero prendere parte a questi ammodernamenti nella speranza di emanciparsi dal contesto di appartenenza e ritagliarsi una posizione di maggiore autorevolezza. Questa situazione spronò una diffusa intraprendenza che si concretizzò nella costruzione di numerosi edifici pubblici e privati, religiosi e laici. Svolgere però simili incarichi – constatata la difficoltà dei bilanci comunali – implicava la presenza di specialisti, garanti della buona riuscita dell’opera e della qualità delle realizzazioni, a fronte di circoscritte possibilità d’investimento. Per questo motivo, una parte della dissertazione è stata dedicata allo studio delle modalità di formazione nella Legazione, distinguendo l’istruzione erudita – fondata sull’osservazione diretta dei manufatti capitolini e la frequentazione degli ambienti accademici – dalla pratica costruttiva insegnata nelle botteghe dai mastri. In tal modo, si sono selezionate alcune figure chiave auliche, riconosciute in funzione tanto della storiografia quanto di una precisa geografia politica della professione: Carlo Cesare Scaletta a Faenza (1666-1748), Giuseppe Merenda (1687-1767) fra Forlì e Faenza, Pietro Carlo Borboni (1720ca-73) a Cesena e dintorni, Giovan Francesco Buonamici (1692-1758) lungo la costa adriatica e Giuseppe Antonio Soratini (1682-1762) fra Ravenna e l’entroterra. In particolare, però, solo quest’ultimi due ebbero una produzione di carattere interregionale. Quanto invece alle maestranze – appurata la vastità, la varietà e il diverso grado di competenza di queste imprese edili – si sono considerati sia alcuni gruppi di speciale interesse, come furono i clan dei Boschi e dei Campidori a Faenza, sia specifici personaggi come Pier Mattia Angeloni (1627-1701) e Francesco Zondini (1682-1748) a Cesena, o Giuliano Cupioli (not. 1740-76) a Rimini. E questo perché se i primi testimoniarono nel passaggio da una generazione all’altra il cambio di gusti che segnò uno spiccato ritorno al classicismo, al contrario i secondi dimostrarono come – parallelamente a nuove mode – continuassero a sopravvivere modi progettuali di memoria precedente, seppure moderatamente aggiornate. Ciò nondimeno, uno sviluppo del mestiere fu sostenuto anche dalla costante presenza nella Legazione di periti camerali come Francesco Fontana (1668-1708), Abram Paris (1641ca-1716), Girolamo Caccia (1650-1728ca), Luigi Vanvitelli (1700-73) e Ferdinando Fuga (1699-1782): operatori alle dirette dipendenze del Pontefice la cui assidua frequentazione dei centri romagnoli non solo fornì l’occasione alla regione di dotarsi di moderne elaborazioni progettuali – dai singoli manufatti a interi impianti urbani (come Cervia Nuova) – ma, allo stesso tempo, garantì un confronto attivo con i principali architetti dell’epoca, il che introdusse elementi di originalità e velocizzò la messa in pratica di quel ‘riformismo’ papale, allora tendenza dominante. Così – dall’erezione di pescherie alla ottimizzazione dei porti, passando per la sistemazione di ponti, strade, beccarie, archivi, ospedali e la diversione dei fiumi Ronco e Montone (effettivamente in opera dal 1735) – molteplici municipalità si rinnovarono secondo un linguaggio sintetico e austero, esplicita declinazione delle sperimentazioni romane in funzione delle necessità locali. Di conseguenza, si trattò di un processo di assimilazione, adeguamento e successiva riproposizione: una dialettica immagine della stessa evoluzione del Barocco. E a questo generalizzato sviluppo contribuirono anche gli edifici di culto che, in quantità sempre maggiori, si andarono rinnovando attraverso un procedimento di riduzione «alla moderna», spesso preludio di un aggiornamento 'ab imis fundamentis'. In tal maniera, se da una parte è vero che diverse chiese preferirono mantenere la tradizionale impostazione controriformista, accogliendo però inserti e motivi decorativi tratti dai principali trattati in circolazione – ad esempio lo 'Studio di architettura civile' (dal 1702) – dall'altra è altresì vero che non mancarono tentativi di investigazione del nuovo codice espressivo: casi a volte tesi alla ricerca di un compromesso secondo la linea di regolarizzazione e depotenziamento già introdotta a Roma da Carlo Fontana (1638-1724) e il suo entourage, a volte rivolti direttamente a una reinterpretazione di celebri esempi capitolini. Pertanto, ai fini di offrire una valutazione nel merito delle reali potenzialità artistiche della provincia, la ricerca si è concentrata sulla trattazione di alcuni casi-studio reputati i più significativi, con l’obiettivo di accertare tanto gli elementi di modernità quanto le propensioni dei relativi progettisti, costantemente alla ricerca di un equilibrio fra gli indirizzi romani, le peculiarità bolognesi e le specifiche esigenze di autorappresentazione della classe dirigente locale: una prova di commistione di diverse propensioni che in sé ha costituito il contributo della Legazione non solo allo sviluppo del Barocco ma, soprattutto, alla stessa 'figuratio' della Romagna nel XVIII secolo.
La legazione di Romagna nel Settecento. Il «Buon Governo» dell'architettura nella periferia dello Stato Pontificio (1700-58)
BENINCAMPI, IACOPO
2018
Abstract
Nella prima metà del Settecento, la legazione di Romagna rappresentò uno dei laboratori artistici più attivi della ‘periferia’ dello Stato della Chiesa. Infatti, la costante perdita di prestigio da parte della figura del Pontefice in atto a partire dalle paci di Westfalia (1648) se da una parte attivò quel lento processo di indebolimento dell’egemonia culturale romana, dall’altra consentì anche alle regioni più remote della nazione di contribuire al dibattito allora in corso sull’esperienza barocca. Conseguentemente, l’obiettivo della ricerca è stato principalmente quello di ricostruire i termini di questo apporto sotto il profilo dell’architettura. Anzitutto, quindi, è parso necessario stabilire quale fosse la condizione del territorio al principio del XVIII secolo e quale fosse lo stato delle relazioni con Roma e Bologna. E questo perché, tradizionalmente, si è sempre ritenuta la provincia dipendente da questi centri. Certamente, la Congregazione del Buon Governo e i rappresentanti del regnante 'in loco' – Legati e Governatori – esercitarono un controllo totale, rendendo sostanzialmente superflui i Consigli Generali e particolari romagnoli. Tuttavia, la favorevole successione al trono di sovrani interessati a un rilancio dello Stato riaccese lo spirito di iniziativa delle amministrazioni locali, che intesero prendere parte a questi ammodernamenti nella speranza di emanciparsi dal contesto di appartenenza e ritagliarsi una posizione di maggiore autorevolezza. Questa situazione spronò una diffusa intraprendenza che si concretizzò nella costruzione di numerosi edifici pubblici e privati, religiosi e laici. Svolgere però simili incarichi – constatata la difficoltà dei bilanci comunali – implicava la presenza di specialisti, garanti della buona riuscita dell’opera e della qualità delle realizzazioni, a fronte di circoscritte possibilità d’investimento. Per questo motivo, una parte della dissertazione è stata dedicata allo studio delle modalità di formazione nella Legazione, distinguendo l’istruzione erudita – fondata sull’osservazione diretta dei manufatti capitolini e la frequentazione degli ambienti accademici – dalla pratica costruttiva insegnata nelle botteghe dai mastri. In tal modo, si sono selezionate alcune figure chiave auliche, riconosciute in funzione tanto della storiografia quanto di una precisa geografia politica della professione: Carlo Cesare Scaletta a Faenza (1666-1748), Giuseppe Merenda (1687-1767) fra Forlì e Faenza, Pietro Carlo Borboni (1720ca-73) a Cesena e dintorni, Giovan Francesco Buonamici (1692-1758) lungo la costa adriatica e Giuseppe Antonio Soratini (1682-1762) fra Ravenna e l’entroterra. In particolare, però, solo quest’ultimi due ebbero una produzione di carattere interregionale. Quanto invece alle maestranze – appurata la vastità, la varietà e il diverso grado di competenza di queste imprese edili – si sono considerati sia alcuni gruppi di speciale interesse, come furono i clan dei Boschi e dei Campidori a Faenza, sia specifici personaggi come Pier Mattia Angeloni (1627-1701) e Francesco Zondini (1682-1748) a Cesena, o Giuliano Cupioli (not. 1740-76) a Rimini. E questo perché se i primi testimoniarono nel passaggio da una generazione all’altra il cambio di gusti che segnò uno spiccato ritorno al classicismo, al contrario i secondi dimostrarono come – parallelamente a nuove mode – continuassero a sopravvivere modi progettuali di memoria precedente, seppure moderatamente aggiornate. Ciò nondimeno, uno sviluppo del mestiere fu sostenuto anche dalla costante presenza nella Legazione di periti camerali come Francesco Fontana (1668-1708), Abram Paris (1641ca-1716), Girolamo Caccia (1650-1728ca), Luigi Vanvitelli (1700-73) e Ferdinando Fuga (1699-1782): operatori alle dirette dipendenze del Pontefice la cui assidua frequentazione dei centri romagnoli non solo fornì l’occasione alla regione di dotarsi di moderne elaborazioni progettuali – dai singoli manufatti a interi impianti urbani (come Cervia Nuova) – ma, allo stesso tempo, garantì un confronto attivo con i principali architetti dell’epoca, il che introdusse elementi di originalità e velocizzò la messa in pratica di quel ‘riformismo’ papale, allora tendenza dominante. Così – dall’erezione di pescherie alla ottimizzazione dei porti, passando per la sistemazione di ponti, strade, beccarie, archivi, ospedali e la diversione dei fiumi Ronco e Montone (effettivamente in opera dal 1735) – molteplici municipalità si rinnovarono secondo un linguaggio sintetico e austero, esplicita declinazione delle sperimentazioni romane in funzione delle necessità locali. Di conseguenza, si trattò di un processo di assimilazione, adeguamento e successiva riproposizione: una dialettica immagine della stessa evoluzione del Barocco. E a questo generalizzato sviluppo contribuirono anche gli edifici di culto che, in quantità sempre maggiori, si andarono rinnovando attraverso un procedimento di riduzione «alla moderna», spesso preludio di un aggiornamento 'ab imis fundamentis'. In tal maniera, se da una parte è vero che diverse chiese preferirono mantenere la tradizionale impostazione controriformista, accogliendo però inserti e motivi decorativi tratti dai principali trattati in circolazione – ad esempio lo 'Studio di architettura civile' (dal 1702) – dall'altra è altresì vero che non mancarono tentativi di investigazione del nuovo codice espressivo: casi a volte tesi alla ricerca di un compromesso secondo la linea di regolarizzazione e depotenziamento già introdotta a Roma da Carlo Fontana (1638-1724) e il suo entourage, a volte rivolti direttamente a una reinterpretazione di celebri esempi capitolini. Pertanto, ai fini di offrire una valutazione nel merito delle reali potenzialità artistiche della provincia, la ricerca si è concentrata sulla trattazione di alcuni casi-studio reputati i più significativi, con l’obiettivo di accertare tanto gli elementi di modernità quanto le propensioni dei relativi progettisti, costantemente alla ricerca di un equilibrio fra gli indirizzi romani, le peculiarità bolognesi e le specifiche esigenze di autorappresentazione della classe dirigente locale: una prova di commistione di diverse propensioni che in sé ha costituito il contributo della Legazione non solo allo sviluppo del Barocco ma, soprattutto, alla stessa 'figuratio' della Romagna nel XVIII secolo.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.14242/90217
URN:NBN:IT:UNIROMA1-90217