La tesi mira ad approfondire i riflessi penalistici della riforma dell’assetto della Pubblica Amministrazione che ha portato all’introduzione della separazione delle funzioni tra organi d’indirizzo e programmazione, da un lato, e organi di gestione amministrativa, dall’altro. Il lavoro prende quindi le mosse da una premessa di diritto penale che consta di un’analisi generale sul concetto di omissione penalmente rilevante, per approfondire in seguito il tema classico della posizione di garanzia. Delineate le coordinate penalistiche, si passa alla premessa di diritto amministrativo, che mira ad evidenziare l’affermazione del principio di distinzione tra politica e amministrazione, ripercorrendo le varie tappe delle riforme intervenute a partire dalla legge n. 142 del 1990. L’excursus storico compiuto, unitamente alla descrizione dell’attuale disciplina normativa, consente di trarre le conclusioni sul tema e di sollevare alcune considerazioni critiche. In particolare, si fa riferimento non solo alle non trascurabili deroghe che il principio di separazione incontra nella disciplina positiva (si pensi ad esempio alle norme relative ai Comuni di minori dimensioni o alle attribuzioni del Consiglio Comunale ex art. 42 del d.lgs. n. 267 del 2000), ma anche al sistema ordinario dei rapporti tra vertice politico e burocrati. Infatti, il legislatore, nello stesso momento in cui proclama la distinzione delle funzioni e l’autonomia della dirigenza dalla politica, sottopone gli organi amministrativi al controllo di quelli politici, titolari del potere di nomina e revoca relativo agli incarichi dirigenziali. Da qui il rischio di compromissione dell’indipendenza della dirigenza verso la politica, se è vero che non vi può essere reale autonomia tra due attori istituzionali qualora l’uno sia sottoposto al controllo dell’altro e le relative progressioni di carriera siano nelle mani dell’organo verso cui si assume di voler garantire l’indipendenza. Sulla base dei rilievi critici emersi si propongono, quindi, due diverse prospettive di riforma finalizzate ad evitare gli aspetti problematici dell’attuale disciplina. Conclusa la premessa di diritto amministrativo, si procede all’analisi specifica del tema, che presenta particolare interesse alla luce della sua novità nel panorama dottrinale italiano e di alcune recenti pronunce rese dalla Suprema Corte. In particolare, si affronta, in primo luogo, la questione della configurabilità di una responsabilità omissiva impropria monosoggettiva in capo agli amministratori pubblici, con particolare riferimento al tema degli eventi lesivi ricollegabili all’uso delle strade. Tale analisi permette di cogliere i riflessi penalistici del riparto di competenze tra organi politici e organi amministrativi, anche alla luce degli orientamenti espressi dalla recente giurisprudenza di legittimità. Lo studio della questione offre inoltre lo spunto per una ricognizione delle principali tesi emerse con riguardo all’istituto della delega di funzioni e per una loro applicazione ai fini che interessano in questa sede. In secondo luogo, la ricerca si sofferma sulla sussistenza di una responsabilità plurisoggettiva per omesso impedimento del reato altrui da parte dell’organo d’indirizzo politico, sia nei casi eccezionali in cui gli organi elettivi abbiano poteri gestori, sia nelle ipotesi regolari di separazione tra politica e amministrazione. Al riguardo, atteso l’esiguo numero di contributi dottrinali e di pronunce della Suprema Corte, si possono ipotizzare possibili tesi, anche alla luce di quelle elaborate nell’analogo tema della responsabilità dei sindaci delle società per i reati commessi dagli amministratori. Le soluzioni proposte si fondano sull’applicazione al problema in esame delle teorie emerse in via generale con riguardo alla posizione di garanzia. La specificità della questione impone, tuttavia, un’adeguata ricognizione della disciplina extrapenale che regola il riparto di competenze all’interno della Pubblica Amministrazione, i diritti e i doveri dei dipendenti pubblici e la responsabilità erariale degli stessi. La conclusione in base alla quale, nei casi di separazione delle funzioni, gli organi d’indirizzo politico non assumano un obbligo d’impedimento dei reati commessi nel corso della gestione amministrativa, pur essendo preferibile in base alla vigente normativa, si espone tuttavia a rilievi critici in una prospettiva de iure condendo. Essa, infatti, conferma le ambiguità dell’attuale assetto normativo che, da un lato, sancisce solennemente il principio di separazione tra politica e amministrazione, sottraendo, salvo casi eccezionali , competenze gestorie agli organi d’indirizzo e programmazione, mentre, dall’altro lato, attribuisce ai medesimi i poteri di nomina e revoca degli incarichi dirigenziali, così nei fatti vanificando l’indipendenza della dirigenza pubblica rispetto agli organi politici. Le recenti riforme della pubblica amministrazione, dunque, più che realizzare un disegno di valorizzazione dell’autonomia degli organi di gestione amministrativa, hanno condotto ad un’irresponsabilità della classe politica cui non fa da contraltare, tuttavia, un’effettiva rimozione della possibilità da parte della stessa di esercitare un’influenza sulla burocrazia. Infatti, il permanere del potere di nomina e revoca degli incarichi dirigenziali in capo gli organi politici non può non determinare in concreto uno stato di soggezione dei dirigenti verso coloro da cui dipendono le sorti delle loro carriere, con apprezzabili riflessi anche economici nella vita di ciascun destinatario dei provvedimenti in esame. Non è quindi inverosimile ipotizzare che, nei casi patologici, gli organi politici possano esercitare pressioni sui dirigenti in merito all’esercizio del potere pubblico loro riservato, soprattutto quando esigenze elettorali inducano a piegare la funzione pubblica a logiche clientelari. Come del resto conferma la prassi, può quindi accadere che l’incompleta realizzazione di un’effettiva separazione tra politica e amministrazione agevoli fenomeni di concussione da parte degli organi politici nei danni dei dirigenti affinché questi adottino provvedimenti amministrativi tesi a favorire o sfavorire taluni soggetti nell’interesse del partito o della persona fisica appartenente agli organi d’indirizzo e programmazione. Certamente, tali situazioni danno luogo a comportamenti attivi punibili in base alla disciplina generale sul concorso di persone nel reato, ma è evidente che si tratta condotte difficilmente provabili - soprattutto quando l’induzione del dirigente assume le forme implicite della concussione ambientale - con il rischio, perciò, che rimangano esenti da sanzione e che gli unici a dover rispondere siano i burocrati che abbiano dato seguito alle richieste degli organi politici. Appare, quindi, auspicabile una riforma dell’attuale assetto organizzativo della Pubblica Amministrazione che elimini le ambiguità esistenti, foriere di soluzioni insoddisfacenti sotto i numerosi profili evidenziati. Al riguardo, le soluzioni astrattamente ipotizzabili sembrano essere due. In primo luogo, si potrebbe optare per un sistema in cui i provvedimenti e le responsabilità (anche gestionali) siano assunte direttamente dalla politica, mentre la dirigenza fungerebbe solamente da organismo di supporto tecnico e non più da soggetto responsabile all’esterno, ma allo stesso tempo privo della necessaria investitura democratica. Tale scelta finirebbe quindi per spostare indietro le lancette dell’orologio istituzionale a data anteriore alla legge n. 142 del 1990, superando perciò il principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico e competenze gestorie. Se si dovesse seguire questa proposta di riforma, gli organi politici tornerebbero ad essere destinatari di una posizione di garanzia con riguardo alla gestione amministrativa, con la conseguenza che, ove sussistessero tutti gli altri requisiti, potrebbero assumere una responsabilità penale per omissione impropria, sia sotto forma monosoggettiva, per omesso impedimento di eventi lesivi, sia sub specie plurisoggettiva, per non aver impedito i reati altrui. In secondo luogo, si potrebbe ipotizzare una diversa scelta che lasci fermo il principio di separazione tra politica ed amministrazione, ma che si sforzi di perfezionarne la concreta realizzazione. Secondo tale angolo visuale, andrebbero corrette le ambiguità tuttora esistenti, in particolare sottraendo alla politica i poteri di nomina e revoca relativi agli incarichi dirigenziali e quello di controllo sull’attività di gestione, al fine di realizzare una reale autonomia della struttura burocratica dalle possibili ingerenze degli organi elettivi. Pertanto, siffatti poteri andrebbero affidati ad organismi di autogoverno della dirigenza, composti da rappresentanti della medesima classe (o interni al singolo ente o costituiti su base nazionale), analogamente a quanto accade nell’ambito della Magistratura o delle Autorità Amministrative Indipendenti. Del resto, le ultime riforme, in particolare il cosiddetto decreto Brunetta (d.lgs. n. 150 del 2009), hanno cercato di rendere oggettivo e misurabile il rendimento dei funzionari pubblici, con la conseguenza che il giudizio concernente le nomine e le revoche dei dirigenti dovrebbe divenire ormai essenzialmente tecnico e perciò affidato ad organismi competenti. Non avrebbe più molto senso, quindi, riservare detti poteri alla classe politica, posto che non è affatto detto che essa sia fornita delle necessarie conoscenze specialistiche occorrenti a tal fine. Se così fosse, gli organi politici sarebbero effettivamente privati di poteri d’ingerenza nell’ambito della gestione amministrativa, continuerebbero a non rispondere per omissione impropria, ma, nello stesso tempo, non avrebbero più la possibilità di esercitare pressioni sui dirigenti amministrativi, con la conseguenza che si verrebbe ad eliminare un terreno fertile per fenomeni concussori difficilmente accertabili.
LA RESPONSABILITA' PENALE OMISSIVA ALLA LUCE DEL PRINCIPIO DI SEPARAZIONE TRA POLITICA E AMMINISTRAZIONE
PACIFICI, LUIGI
2012
Abstract
La tesi mira ad approfondire i riflessi penalistici della riforma dell’assetto della Pubblica Amministrazione che ha portato all’introduzione della separazione delle funzioni tra organi d’indirizzo e programmazione, da un lato, e organi di gestione amministrativa, dall’altro. Il lavoro prende quindi le mosse da una premessa di diritto penale che consta di un’analisi generale sul concetto di omissione penalmente rilevante, per approfondire in seguito il tema classico della posizione di garanzia. Delineate le coordinate penalistiche, si passa alla premessa di diritto amministrativo, che mira ad evidenziare l’affermazione del principio di distinzione tra politica e amministrazione, ripercorrendo le varie tappe delle riforme intervenute a partire dalla legge n. 142 del 1990. L’excursus storico compiuto, unitamente alla descrizione dell’attuale disciplina normativa, consente di trarre le conclusioni sul tema e di sollevare alcune considerazioni critiche. In particolare, si fa riferimento non solo alle non trascurabili deroghe che il principio di separazione incontra nella disciplina positiva (si pensi ad esempio alle norme relative ai Comuni di minori dimensioni o alle attribuzioni del Consiglio Comunale ex art. 42 del d.lgs. n. 267 del 2000), ma anche al sistema ordinario dei rapporti tra vertice politico e burocrati. Infatti, il legislatore, nello stesso momento in cui proclama la distinzione delle funzioni e l’autonomia della dirigenza dalla politica, sottopone gli organi amministrativi al controllo di quelli politici, titolari del potere di nomina e revoca relativo agli incarichi dirigenziali. Da qui il rischio di compromissione dell’indipendenza della dirigenza verso la politica, se è vero che non vi può essere reale autonomia tra due attori istituzionali qualora l’uno sia sottoposto al controllo dell’altro e le relative progressioni di carriera siano nelle mani dell’organo verso cui si assume di voler garantire l’indipendenza. Sulla base dei rilievi critici emersi si propongono, quindi, due diverse prospettive di riforma finalizzate ad evitare gli aspetti problematici dell’attuale disciplina. Conclusa la premessa di diritto amministrativo, si procede all’analisi specifica del tema, che presenta particolare interesse alla luce della sua novità nel panorama dottrinale italiano e di alcune recenti pronunce rese dalla Suprema Corte. In particolare, si affronta, in primo luogo, la questione della configurabilità di una responsabilità omissiva impropria monosoggettiva in capo agli amministratori pubblici, con particolare riferimento al tema degli eventi lesivi ricollegabili all’uso delle strade. Tale analisi permette di cogliere i riflessi penalistici del riparto di competenze tra organi politici e organi amministrativi, anche alla luce degli orientamenti espressi dalla recente giurisprudenza di legittimità. Lo studio della questione offre inoltre lo spunto per una ricognizione delle principali tesi emerse con riguardo all’istituto della delega di funzioni e per una loro applicazione ai fini che interessano in questa sede. In secondo luogo, la ricerca si sofferma sulla sussistenza di una responsabilità plurisoggettiva per omesso impedimento del reato altrui da parte dell’organo d’indirizzo politico, sia nei casi eccezionali in cui gli organi elettivi abbiano poteri gestori, sia nelle ipotesi regolari di separazione tra politica e amministrazione. Al riguardo, atteso l’esiguo numero di contributi dottrinali e di pronunce della Suprema Corte, si possono ipotizzare possibili tesi, anche alla luce di quelle elaborate nell’analogo tema della responsabilità dei sindaci delle società per i reati commessi dagli amministratori. Le soluzioni proposte si fondano sull’applicazione al problema in esame delle teorie emerse in via generale con riguardo alla posizione di garanzia. La specificità della questione impone, tuttavia, un’adeguata ricognizione della disciplina extrapenale che regola il riparto di competenze all’interno della Pubblica Amministrazione, i diritti e i doveri dei dipendenti pubblici e la responsabilità erariale degli stessi. La conclusione in base alla quale, nei casi di separazione delle funzioni, gli organi d’indirizzo politico non assumano un obbligo d’impedimento dei reati commessi nel corso della gestione amministrativa, pur essendo preferibile in base alla vigente normativa, si espone tuttavia a rilievi critici in una prospettiva de iure condendo. Essa, infatti, conferma le ambiguità dell’attuale assetto normativo che, da un lato, sancisce solennemente il principio di separazione tra politica e amministrazione, sottraendo, salvo casi eccezionali , competenze gestorie agli organi d’indirizzo e programmazione, mentre, dall’altro lato, attribuisce ai medesimi i poteri di nomina e revoca degli incarichi dirigenziali, così nei fatti vanificando l’indipendenza della dirigenza pubblica rispetto agli organi politici. Le recenti riforme della pubblica amministrazione, dunque, più che realizzare un disegno di valorizzazione dell’autonomia degli organi di gestione amministrativa, hanno condotto ad un’irresponsabilità della classe politica cui non fa da contraltare, tuttavia, un’effettiva rimozione della possibilità da parte della stessa di esercitare un’influenza sulla burocrazia. Infatti, il permanere del potere di nomina e revoca degli incarichi dirigenziali in capo gli organi politici non può non determinare in concreto uno stato di soggezione dei dirigenti verso coloro da cui dipendono le sorti delle loro carriere, con apprezzabili riflessi anche economici nella vita di ciascun destinatario dei provvedimenti in esame. Non è quindi inverosimile ipotizzare che, nei casi patologici, gli organi politici possano esercitare pressioni sui dirigenti in merito all’esercizio del potere pubblico loro riservato, soprattutto quando esigenze elettorali inducano a piegare la funzione pubblica a logiche clientelari. Come del resto conferma la prassi, può quindi accadere che l’incompleta realizzazione di un’effettiva separazione tra politica e amministrazione agevoli fenomeni di concussione da parte degli organi politici nei danni dei dirigenti affinché questi adottino provvedimenti amministrativi tesi a favorire o sfavorire taluni soggetti nell’interesse del partito o della persona fisica appartenente agli organi d’indirizzo e programmazione. Certamente, tali situazioni danno luogo a comportamenti attivi punibili in base alla disciplina generale sul concorso di persone nel reato, ma è evidente che si tratta condotte difficilmente provabili - soprattutto quando l’induzione del dirigente assume le forme implicite della concussione ambientale - con il rischio, perciò, che rimangano esenti da sanzione e che gli unici a dover rispondere siano i burocrati che abbiano dato seguito alle richieste degli organi politici. Appare, quindi, auspicabile una riforma dell’attuale assetto organizzativo della Pubblica Amministrazione che elimini le ambiguità esistenti, foriere di soluzioni insoddisfacenti sotto i numerosi profili evidenziati. Al riguardo, le soluzioni astrattamente ipotizzabili sembrano essere due. In primo luogo, si potrebbe optare per un sistema in cui i provvedimenti e le responsabilità (anche gestionali) siano assunte direttamente dalla politica, mentre la dirigenza fungerebbe solamente da organismo di supporto tecnico e non più da soggetto responsabile all’esterno, ma allo stesso tempo privo della necessaria investitura democratica. Tale scelta finirebbe quindi per spostare indietro le lancette dell’orologio istituzionale a data anteriore alla legge n. 142 del 1990, superando perciò il principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico e competenze gestorie. Se si dovesse seguire questa proposta di riforma, gli organi politici tornerebbero ad essere destinatari di una posizione di garanzia con riguardo alla gestione amministrativa, con la conseguenza che, ove sussistessero tutti gli altri requisiti, potrebbero assumere una responsabilità penale per omissione impropria, sia sotto forma monosoggettiva, per omesso impedimento di eventi lesivi, sia sub specie plurisoggettiva, per non aver impedito i reati altrui. In secondo luogo, si potrebbe ipotizzare una diversa scelta che lasci fermo il principio di separazione tra politica ed amministrazione, ma che si sforzi di perfezionarne la concreta realizzazione. Secondo tale angolo visuale, andrebbero corrette le ambiguità tuttora esistenti, in particolare sottraendo alla politica i poteri di nomina e revoca relativi agli incarichi dirigenziali e quello di controllo sull’attività di gestione, al fine di realizzare una reale autonomia della struttura burocratica dalle possibili ingerenze degli organi elettivi. Pertanto, siffatti poteri andrebbero affidati ad organismi di autogoverno della dirigenza, composti da rappresentanti della medesima classe (o interni al singolo ente o costituiti su base nazionale), analogamente a quanto accade nell’ambito della Magistratura o delle Autorità Amministrative Indipendenti. Del resto, le ultime riforme, in particolare il cosiddetto decreto Brunetta (d.lgs. n. 150 del 2009), hanno cercato di rendere oggettivo e misurabile il rendimento dei funzionari pubblici, con la conseguenza che il giudizio concernente le nomine e le revoche dei dirigenti dovrebbe divenire ormai essenzialmente tecnico e perciò affidato ad organismi competenti. Non avrebbe più molto senso, quindi, riservare detti poteri alla classe politica, posto che non è affatto detto che essa sia fornita delle necessarie conoscenze specialistiche occorrenti a tal fine. Se così fosse, gli organi politici sarebbero effettivamente privati di poteri d’ingerenza nell’ambito della gestione amministrativa, continuerebbero a non rispondere per omissione impropria, ma, nello stesso tempo, non avrebbero più la possibilità di esercitare pressioni sui dirigenti amministrativi, con la conseguenza che si verrebbe ad eliminare un terreno fertile per fenomeni concussori difficilmente accertabili.I documenti in UNITESI sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.
https://hdl.handle.net/20.500.14242/93805
URN:NBN:IT:UNIROMA1-93805