Nel presente elaborato si affronta il controverso e discusso tema delle c.d. società di comodo nell’ambito della normativa tributaria. Nello specifico, il presente elaborato analizza la disciplina normativa delle società non operative ed in perdita sistematica sia ai fini delle imposte dirette che dell’Iva; tali società nella materia fiscale sono conosciute – per la denominazione che è stata loro attribuita in sede legislativa – come “società di comodo”. Il tema in discussione si ricollega alla nota questione civilistica delle società “senza impresa” ed, in particolare, delle società di mero godimento dei beni, fattispecie vietata dal nostro codice civile sulla base dell’art. 2248. Le società di comodo in ambito fiscale, secondo la tesi sviluppata nel presente elaborato, non sarebbero altro che organizzazioni preposte al mero godimento dei beni patrimoniali, nell’ambito delle quali non si svolge un’effettiva attività economica. Si tratterebbe, quindi, di società vietate ai sensi del predetto art. 2248. Detto ciò, dopo aver descritto nel primo capitolo l’evoluzione normativa che ha interessato il fenomeno delle società di comodo, ponendo l’accento in particolar modo sulla stratificazione normativa che ha caratterizzato la disciplina in questione nel corso degli anni a partire dalla sua introduzione, si procede ad analizzare la disciplina contenuta nell’articolo 30, legge 23 dicembre 1994, n. 724 (titolato “società di comodo”), in base alla quale si considerano “di comodo”, salvo prova contraria, le società che non superano il test di operatività, previsto dal comma 1 del detto art. 30, ossia quelle società che non conseguono un ammontare dei ricavi, incrementi di rimanenze e proventi ordinari, imputati a conto economico, in misura almeno pari all’importo dei ricavi “figurativi”, calcolati mediante l’applicazione di prestabiliti coefficienti a determinati asset patrimoniali. In particolare, viene evidenziato che l’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 30, legge n. 724/1994 ha definito il punto di arrivo di precedenti leggi episodiche, ponendo una disciplina specifica che permane nel nostro ordinamento giuridico da quasi 30 anni. Tale normativa costituisce una delle discipline più discusse e criticate degli ultimi anni, fulcro di importanti dibattiti in sede normativa, giurisprudenziale e dottrinale ed oggetto di innumerevoli pronunce da parte dell’amministrazione finanziaria. Per inquadrare il fenomeno oggetto del presente elaborato appare necessario, innanzitutto, approfondire la ratio della disciplina, tenendo conto della tecnica legislativa adottata per l’attuazione della stessa. Al proposito, vale preliminarmente osservare come tale disciplina normativa sia stata concepita per contrastare le società che, indipendentemente dall’oggetto sociale adottato, gestiscono il proprio patrimonio essenzialmente nell’interesse dei soci senza esercitare un’effettiva attività d’impresa (spesso vengono intestati alla società determinati beni, mobili e immobili, automobili di lusso, imbarcazioni, aeromobili, ecc., che, in realtà, permangono nella disponibilità dei soci o dei loro familiari). La ratio di tale normativa risiede, pertanto, nella volontà di impedire il proliferare di società costituite esclusivamente con l’intento di conseguire finalità estranee alla causa sociale, sostanzialmente prive dello scopo lucrativo. Al contempo, la medesima disciplina intende scoraggiare la permanenza in vita di società, costituite senza finalità elusive, ma prive di obiettivi imprenditoriali concreti e immediati, cioè di società che – per diverse ragioni – non svolgono alcuna effettiva attività imprenditoriale. Ciò posto, si è avuto modo di constatare che uno dei vantaggi fiscali conseguiti mediante la costituzione delle dette società si sostanzia nell’indebita detrazione dell’Iva assolta sull’acquisto dei succitati beni, nonché nella deduzione del relativo costo dal reddito d’impresa. In applicazione del principio generale esistente nel sistema fiscale interno, in base al quale le società (ed enti) aventi natura commerciale sono soggetti alla disciplina del reddito di impresa poiché si presume che essi svolgano un’attività di impresa commerciale, si è posto il problema di dover correggere l’applicazione delle regole ordinarie previste ai fini Irpef, Ires, Iva e Irap a cui sono assoggettate le imprese commerciali, caratterizzate dalla presenza di un programma imprenditoriale, definito da beni e attività preposte ad uno scopo produttivo, al fenomeno delle società di mero godimento dei beni in quanto non esercenti un’effettiva attività imprenditoriale, Si è constatato, tuttavia, che la disciplina de qua, nata con lo scopo di recuperare gettito da società ritenute per definizione schermi fittizi per il godimento di beni di lusso, rischia di includere, nel proprio ambito, soprattutto dopo le disposizioni riferite alle società in perdita sistematica, anche società che svolgono un’effettiva attività industriale e commerciale che attraversano un periodo di difficoltà economica, derivante dalla reiterazione di perdite fiscali nell’arco di un quinquennio. Nel capitolo centrale dell’elaborato vengono approfonditi gli aspetti applicativi connessi alla disciplina in esame, in particolare si è proceduto ad esaminare l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina de qua, le cause di esclusione ex lege e quelle di disapplicazione c.d. “automatica” valevoli ai fini dell’esonero dal perimetro di applicazione delle disposizioni fiscali in esame. Al riguardo, viene evidenziato che, una volta che ricorrono i presupposti previsti dall’art. 30, legge n. 724 del 1994 la società subisce una serie di penalizzazioni ai fini delle imposte dirette sul reddito, dell’Irap e dell’Iva, in particolare si fa riferimento all’obbligo di dichiarare un reddito minimo determinato induttivamente e, per le società soggette a Ires, l’applicazione di un’aliquota maggiorata di 10,5 punti percentuali, ad una base imponibile Irap minima e alla non utilizzabilità del credito Iva, oltreché alle preclusioni previste per la richiesta del relativo rimborso. È opportuno rammentare che nell’ambito di applicazione della disciplina delle società di comodo vi rientrano anche le società in perdita sistematica ossia società che per cinque anni consecutivi dichiarano perdite fiscali (oppure in quattro anni su cinque dichiarano perdite fiscali e in un anno dichiarano un reddito inferiore a quello minimo), in virtù di quanto disposto dall’art. 2, commi 36-decies e 36-undecies, decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, successivamente modificato dal decreto legislativo 21 novembre 2014, n. 175. Vero è che l’intera disciplina può essere, in tutto o in parte, disapplicata attraverso il c.d. interpello probatorio, per mezzo del quale il contribuente può vincere la presunzione di “non operatività” dimostrando all’amministrazione finanziaria la sussistenza di oggettive situazioni che non gli hanno consentito di raggiungere i ricavi, gli incrementi di rimanenze, i proventi e il reddito nelle misure minime previste dal medesimo art. 30, nonché di conseguire redditi imponibili nell’arco di un quinquennio. Nell’ultimo capitolo, infine, vengono analizzati gli aspetti procedurali della disciplina delle società di comodo connessi, in particolar modo all’istanza di interpello “probatorio”, utile strumento a disposizione del contribuente per ottenere un parere preventivo (rispetto all’accertamento) dell’amministrazione finanziaria adita, agli adempimenti dichiarativi posti a carico delle società interessate, nonché agli indirizzi giurisprudenziali in materia attraverso la disamina di diverse fattispecie trattate dalle sentenze dei giudici sia di merito che di legittimità, al fine di mettere in luce l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel tempo in materia di società di comodo. Nello specifico, in relazione agli aspetti dichiarativi viene evidenziato che, a fronte della natura facoltativa dell’interpello, sono posti a carico del contribuente una serie di adempimenti “segnaletici” da effettuare in sede di compilazione della dichiarazione dei redditi, sia rispetto all’avvenuta presentazione dell’istanza di interpello sia rispetto all’esito positivo o negativo della relativa risposta. Per quanto attiene agli indirizzi giurisprudenziali in materia, alla luce della disposizione contenuta nell’art. 6, comma 1, d.lgs. n. 156 del 2015 che, allo stato attuale, prevede la non impugnabilità della risposta resa dall’amministrazione adita all’istanza di interpello presentata dal contribuente, viene posto in rilievo che, in giurisprudenza, l’applicazione della disciplina delle società di comodo appare sostanzialmente in linea con gli orientamenti di prassi amministrativa consolidatisi in materia di società di comodo, denotando soltanto una maggiore apertura alla valutazione di determinate circostanze di fatto idonee a dimostrare l’esistenza di un’effettiva attività di impresa.

Le società non operative ed in perdita sistematica (c.d. società di comodo): evoluzione normativa e profili applicativi

FERRANTE, MICHELE
2022

Abstract

Nel presente elaborato si affronta il controverso e discusso tema delle c.d. società di comodo nell’ambito della normativa tributaria. Nello specifico, il presente elaborato analizza la disciplina normativa delle società non operative ed in perdita sistematica sia ai fini delle imposte dirette che dell’Iva; tali società nella materia fiscale sono conosciute – per la denominazione che è stata loro attribuita in sede legislativa – come “società di comodo”. Il tema in discussione si ricollega alla nota questione civilistica delle società “senza impresa” ed, in particolare, delle società di mero godimento dei beni, fattispecie vietata dal nostro codice civile sulla base dell’art. 2248. Le società di comodo in ambito fiscale, secondo la tesi sviluppata nel presente elaborato, non sarebbero altro che organizzazioni preposte al mero godimento dei beni patrimoniali, nell’ambito delle quali non si svolge un’effettiva attività economica. Si tratterebbe, quindi, di società vietate ai sensi del predetto art. 2248. Detto ciò, dopo aver descritto nel primo capitolo l’evoluzione normativa che ha interessato il fenomeno delle società di comodo, ponendo l’accento in particolar modo sulla stratificazione normativa che ha caratterizzato la disciplina in questione nel corso degli anni a partire dalla sua introduzione, si procede ad analizzare la disciplina contenuta nell’articolo 30, legge 23 dicembre 1994, n. 724 (titolato “società di comodo”), in base alla quale si considerano “di comodo”, salvo prova contraria, le società che non superano il test di operatività, previsto dal comma 1 del detto art. 30, ossia quelle società che non conseguono un ammontare dei ricavi, incrementi di rimanenze e proventi ordinari, imputati a conto economico, in misura almeno pari all’importo dei ricavi “figurativi”, calcolati mediante l’applicazione di prestabiliti coefficienti a determinati asset patrimoniali. In particolare, viene evidenziato che l’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 30, legge n. 724/1994 ha definito il punto di arrivo di precedenti leggi episodiche, ponendo una disciplina specifica che permane nel nostro ordinamento giuridico da quasi 30 anni. Tale normativa costituisce una delle discipline più discusse e criticate degli ultimi anni, fulcro di importanti dibattiti in sede normativa, giurisprudenziale e dottrinale ed oggetto di innumerevoli pronunce da parte dell’amministrazione finanziaria. Per inquadrare il fenomeno oggetto del presente elaborato appare necessario, innanzitutto, approfondire la ratio della disciplina, tenendo conto della tecnica legislativa adottata per l’attuazione della stessa. Al proposito, vale preliminarmente osservare come tale disciplina normativa sia stata concepita per contrastare le società che, indipendentemente dall’oggetto sociale adottato, gestiscono il proprio patrimonio essenzialmente nell’interesse dei soci senza esercitare un’effettiva attività d’impresa (spesso vengono intestati alla società determinati beni, mobili e immobili, automobili di lusso, imbarcazioni, aeromobili, ecc., che, in realtà, permangono nella disponibilità dei soci o dei loro familiari). La ratio di tale normativa risiede, pertanto, nella volontà di impedire il proliferare di società costituite esclusivamente con l’intento di conseguire finalità estranee alla causa sociale, sostanzialmente prive dello scopo lucrativo. Al contempo, la medesima disciplina intende scoraggiare la permanenza in vita di società, costituite senza finalità elusive, ma prive di obiettivi imprenditoriali concreti e immediati, cioè di società che – per diverse ragioni – non svolgono alcuna effettiva attività imprenditoriale. Ciò posto, si è avuto modo di constatare che uno dei vantaggi fiscali conseguiti mediante la costituzione delle dette società si sostanzia nell’indebita detrazione dell’Iva assolta sull’acquisto dei succitati beni, nonché nella deduzione del relativo costo dal reddito d’impresa. In applicazione del principio generale esistente nel sistema fiscale interno, in base al quale le società (ed enti) aventi natura commerciale sono soggetti alla disciplina del reddito di impresa poiché si presume che essi svolgano un’attività di impresa commerciale, si è posto il problema di dover correggere l’applicazione delle regole ordinarie previste ai fini Irpef, Ires, Iva e Irap a cui sono assoggettate le imprese commerciali, caratterizzate dalla presenza di un programma imprenditoriale, definito da beni e attività preposte ad uno scopo produttivo, al fenomeno delle società di mero godimento dei beni in quanto non esercenti un’effettiva attività imprenditoriale, Si è constatato, tuttavia, che la disciplina de qua, nata con lo scopo di recuperare gettito da società ritenute per definizione schermi fittizi per il godimento di beni di lusso, rischia di includere, nel proprio ambito, soprattutto dopo le disposizioni riferite alle società in perdita sistematica, anche società che svolgono un’effettiva attività industriale e commerciale che attraversano un periodo di difficoltà economica, derivante dalla reiterazione di perdite fiscali nell’arco di un quinquennio. Nel capitolo centrale dell’elaborato vengono approfonditi gli aspetti applicativi connessi alla disciplina in esame, in particolare si è proceduto ad esaminare l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina de qua, le cause di esclusione ex lege e quelle di disapplicazione c.d. “automatica” valevoli ai fini dell’esonero dal perimetro di applicazione delle disposizioni fiscali in esame. Al riguardo, viene evidenziato che, una volta che ricorrono i presupposti previsti dall’art. 30, legge n. 724 del 1994 la società subisce una serie di penalizzazioni ai fini delle imposte dirette sul reddito, dell’Irap e dell’Iva, in particolare si fa riferimento all’obbligo di dichiarare un reddito minimo determinato induttivamente e, per le società soggette a Ires, l’applicazione di un’aliquota maggiorata di 10,5 punti percentuali, ad una base imponibile Irap minima e alla non utilizzabilità del credito Iva, oltreché alle preclusioni previste per la richiesta del relativo rimborso. È opportuno rammentare che nell’ambito di applicazione della disciplina delle società di comodo vi rientrano anche le società in perdita sistematica ossia società che per cinque anni consecutivi dichiarano perdite fiscali (oppure in quattro anni su cinque dichiarano perdite fiscali e in un anno dichiarano un reddito inferiore a quello minimo), in virtù di quanto disposto dall’art. 2, commi 36-decies e 36-undecies, decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, successivamente modificato dal decreto legislativo 21 novembre 2014, n. 175. Vero è che l’intera disciplina può essere, in tutto o in parte, disapplicata attraverso il c.d. interpello probatorio, per mezzo del quale il contribuente può vincere la presunzione di “non operatività” dimostrando all’amministrazione finanziaria la sussistenza di oggettive situazioni che non gli hanno consentito di raggiungere i ricavi, gli incrementi di rimanenze, i proventi e il reddito nelle misure minime previste dal medesimo art. 30, nonché di conseguire redditi imponibili nell’arco di un quinquennio. Nell’ultimo capitolo, infine, vengono analizzati gli aspetti procedurali della disciplina delle società di comodo connessi, in particolar modo all’istanza di interpello “probatorio”, utile strumento a disposizione del contribuente per ottenere un parere preventivo (rispetto all’accertamento) dell’amministrazione finanziaria adita, agli adempimenti dichiarativi posti a carico delle società interessate, nonché agli indirizzi giurisprudenziali in materia attraverso la disamina di diverse fattispecie trattate dalle sentenze dei giudici sia di merito che di legittimità, al fine di mettere in luce l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel tempo in materia di società di comodo. Nello specifico, in relazione agli aspetti dichiarativi viene evidenziato che, a fronte della natura facoltativa dell’interpello, sono posti a carico del contribuente una serie di adempimenti “segnaletici” da effettuare in sede di compilazione della dichiarazione dei redditi, sia rispetto all’avvenuta presentazione dell’istanza di interpello sia rispetto all’esito positivo o negativo della relativa risposta. Per quanto attiene agli indirizzi giurisprudenziali in materia, alla luce della disposizione contenuta nell’art. 6, comma 1, d.lgs. n. 156 del 2015 che, allo stato attuale, prevede la non impugnabilità della risposta resa dall’amministrazione adita all’istanza di interpello presentata dal contribuente, viene posto in rilievo che, in giurisprudenza, l’applicazione della disciplina delle società di comodo appare sostanzialmente in linea con gli orientamenti di prassi amministrativa consolidatisi in materia di società di comodo, denotando soltanto una maggiore apertura alla valutazione di determinate circostanze di fatto idonee a dimostrare l’esistenza di un’effettiva attività di impresa.
12-mag-2022
Italiano
Comodo; operatività; cause di esclusione
BORIA, PIETRO
Università degli Studi di Roma "La Sapienza"
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Il codice NBN di questa tesi è URN:NBN:IT:UNIROMA1-97287