La Grande Crisi del 2007-2008, con le conseguenze drammatiche in termini di caduta dell’output e aumento della disoccupazione, ha arrecato dei seri colpi alle convinzioni macroeconomiche ortodosse passate alla storia come New Consensus, la cui caratteristica principale era l’estrema fiducia posta nella capacità della politica monetaria di ridurre la volatilità dell’output e garantire una crescita stabile e duratura delle economie capitalistiche (Goodfriend, 2007). Gli effetti prolungati della depressione, non prevedibili dai modelli macroeconomici in cui l’azione della Banca Centrale e l’azione dei meccanismi automatici di aggiustamento di matrice neoclassica erano in grado di tenere costantemente l’economia vicino al proprio livello potenziale, hanno favorito la riscoperta del tema dell’isteresi. Inizialmente riferito al tasso di disoccupazione (Blanchard e Summers, 1986) ma negli ultimi anni esteso anche al reddito (Ball, 2014; Blanchard et al. 2015), con tale termine ci si riferisce alla possibilità che una recessione profonda, alterando in maniera significativa il tasso di disoccupazione effettivo (o il Reddito effettivo) possa determinare una variazione anche del tasso di disoccupazione di equilibrio (o del Reddito potenziale). In sostanza, si ammette la possibilità che una caduta ciclica dell’attività economica possa avere effetti persistenti e di lungo periodo. Quello dunque che ha animato la riscoperta dell’isteresi è stato, da un lato l’esperienza di alti e persistenti tassi di disoccupazione, dall’altro l’assenza di una dinamica deflattiva dei prezzi dell’entità che i modelli macroeconomici avevano previsto. Definire, come la teoria neo-keynesiana dominante fa, il tasso di disoccupazione di equilibrio come un tasso di disoccupazione non inflazionistico (Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment, NAIRU) significa infatti attendersi che, per livelli particolarmente alti del tasso di disoccupazione e presumibilmente superiori al NAIRU, il tasso di inflazione cada e che questo meccanismo conduca il sistema verso l’equilibrio precedente. La concomitanza di altissimi livelli di disoccupazione e tassi di inflazione stabili o comunque l’assenza di una profonda deflazione ha reso invece necessaria una riflessione su cosa fosse successo alla curva di Phillips, la nota relazione tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione, diventata nel corso degli anni il luogo in cui il paradigma neo-keynesiano osservava la presenza di situazioni di disequilibrio nel mercato del lavoro. Le varie specificazioni della curva utilizzate comunemente, infatti, avevano previsto una caduta dell’inflazione ben maggiore di quella effettivamente verificatasi e, tra le argomentazioni addotte per spiegare il fenomeno della missing deflation, l’isteresi ricopre un ruolo cruciale. Non considerarla, infatti, significa non considerare che un aumento del NAIRU, a seguito dell’aumento del tasso di disoccupazione, possa comportare una riduzione dell’unemployment gap (la differenza tra il tasso di disoccupazione e il tasso di disoccupazione di equilibrio) che risulterebbe inferiore, e dunque richiederebbe una minore disinflazione, rispetto a quello calcolato con il NAIRU invariato e il nuovo più alto tasso di disoccupazione. Per questo motivo, prima di indagare come l’isteresi è stata spiegata e introdotta nei modelli del mercato del lavoro, si è proceduto a una rassegna della letteratura sulla Curva di Phillips che mostrasse come essa, da semplice relazione empirica – pur non scevra di implicazioni teoriche – sia stata plasmata a misura del disequilibrio sul mercato del lavoro. Si è successivamente passati a indagare le cause di isteresi proposte dalla letteratura, soffermandosi su quella più recente e maggiormente trattata dalla letteratura moderna, riferita al fenomeno della disoccupazione di lunga durata. Che l’aumento dell’incidenza della disoccupazione di lunga durata potesse essere una causa di isteresi era già stato accennato da Blanchard e Summers (1986) o da Layard et al. (1991): i livelli raggiunti dopo la Grande Depressione del 2007-2008 e la smentita teorica ed empirica subita dai modelli insider-outsider per spiegare le dinamiche della disoccupazione, hanno ridato vigore al tema. I disoccupati di lunga durata, si sostiene, subendo un deterioramento delle proprie skill e svolgendo con poca efficacia l’attività di ricerca di un nuovo lavoro – a causa ad esempio di fenomeni di scoraggiamento o alla percezione di sussidi di disoccupazione troppo generosi – finirebbero per essere emarginati e non verrebbero percepiti come concorrenti dagli altri lavoratori. Questa condizione porterebbe con sé due conseguenze necessarie, ma come vedremo tutt’altro che cogenti, per la teoria dell’isteresi: da un lato il deperimento delle skill, la scarsa dedizione nella ricerca del lavoro e il disincentivo al lavoro causato dagli unemployment benefits, farebbero sì che il fenomeno della disoccupazione di lunga durata assuma i tratti dell’irreversibilità. Una politica espansiva, dunque, volta al riassorbimento della disoccupazione, non sarebbe efficace nel ridurre anche la disoccupazione di lunga durata. Dall’altro lato, la loro condizione di marginalità farebbe sì che gli altri lavoratori non temano la loro concorrenza e, quindi, che la loro presenza renda la disoccupazione meno efficace nel produrre un indebolimento delle richieste salariali e una caduta dell’inflazione. Partendo da queste premesse e dopo aver sviluppato una disamina sulla letteratura empirica volto a dimostrare come, se è vero che la probabilità di essere riassunti peggiora con l’aumento della durata della disoccupazione, non è vero che la condizione relativa dei disoccupati di lunga durata è peggiorata a seguito della Grande Depressione (perché contestualmente è peggiorata la condizione di tutti i lavoratori), abbiamo guardato criticamente alle due implicazioni succitate. Seguendo l’esempio di Webster (2005), abbiamo verificato che l’utilizzo dell’incidenza della disoccupazione di lunga durata sulla disoccupazione totale possa essere all’origine di alcuni errori di valutazione del fenomeno che hanno erroneamente corroborato l’idea che una riduzione del tasso di disoccupazione complessivo non si accompagnasse anche a una riduzione della disoccupazione di lunga durata. Utilizzando invece un ordine di ritardo o, meglio ancora, calcolando invece che l’incidenza il tasso di disoccupazione di lunga durata (vale a dire il rapporto tra disoccupati di lunga durata e forza lavoro), si può apprezzare come non ci siano motivi per ritenere che disoccupazione totale e disoccupazione di lunga durata si muovano in modo asimmetrico. In questo senso, non vi è la necessità di ritenere che la riduzione della disoccupazione non si possa accompagnare, presto o tardi, anche al riassorbimento della disoccupazione di lunga durata. Come accennato, l’aumento del NAIRU conseguente a un aumento della disoccupazione di lunga durata accentuerebbe il rischio inflattivo di una politica espansiva principalmente per due ordini di motivi: dapprima, l’aumento del NAIRU comporterebbe una riduzione dell’unemployment gap, dunque una riduzione dello “spazio fiscale”. Ciò, in pratica, limiterebbe la possibilità di espandere la spesa pubblica o in generale di fare politiche macroeconomiche espansive, senza che esse generino un aumento dell’inflazione. Inoltre, la marginalità dei disoccupati di lunga durata nel mercato del lavoro farebbe sì che un aumento della domanda di lavoro riguardi innanzitutto i disoccupati di breve durata, maggiormente inflattivi e capaci di contrattare aumenti salariali consistenti, non intimoriti come sono, dalla presenza dei lavoratori senza lavoro da maggior tempo. In sostanza, ammesso che sia possibile, la riduzione della disoccupazione di lunga durata tramite un aumento della domanda di lavoro accadrebbe in concomitanza di una sorta di pieno impiego dei disoccupati di breve durata. Essa dovrebbe dunque, in questi modelli, essere necessariamente accompagnata a un’accelerazione dell’inflazione. Per verificare questa condizione, abbiamo fatto ricorso alla metodologia delle Local Projections (Jordà, 2005): definito lo shock come quei casi anno-paese in cui il tasso di disoccupazione di lunga durata si è ridotto di più della media delle riduzioni del paese più una deviazione standard, abbiamo verificato se esso fosse associato, su 5 periodi, a un’accelerazione del tasso di inflazione, trovando una risposta negativa a questo quesito. Abbiamo ripetuto lo stesso esercizio nei soli casi in cui la riduzione della disoccupazione di lunga durata è avvenuta in presenza di un unemployment gap già negativo, dunque in quelle condizioni in cui la spinta inflazionistica sarebbe dovuta essere già in atto. Anche in questo caso, non si nota alcuna accelerazione del tasso di inflazione. I risultati sono significativi, a nostro avviso, sia come elemento di critica della teoria dell’isteresi spiegata alla luce del fenomeno della disoccupazione di lunga durata, sia come elemento di critica della stessa teoria del NAIRU, inteso come barriera inflazionistica oltre la quale, il tentativo di ridurre la disoccupazione, genererebbe necessariamente un’accelerazione del tasso di inflazione. Infine, dopo aver dato conto della letteratura che ha provato a tener conto della disoccupazione di lunga durata nella stima della Curva di Phillips, per avvalorare l’ipotesi della ridotta capacità dei disoccupati di lunga durata di influenzare la formazione dei salari e dei prezzi, abbiamo effettuato alcuni tentativi volti a verificare, dal canto nostro, questa tesi ma animati da una premessa alternativa. Vale a dire, che non sia possibile sostenere che la presenza di lavoratori più svantaggiati rispetto ad altri, come appunto i disoccupati di lunga durata, renda meno flessibili i salari monetari verso il basso rinvigorendone la contrattazione salariale. Abbiamo dunque stimato due versioni diverse della Curva di Phillips: nella prima versione lineare teniamo conto, nel determinare l’inflazione dei salari monetari, sia del ruolo dei disoccupati di breve che di quelli di lunga durata, nella seconda specificazione invece, abbiamo considerato una curva di Phillips non lineare testando, in questo contesto, il ruolo dell’alta incidenza della disoccupazione di lunga durata. In entrambi i casi, i nostri risultati non permettono di confermare la tesi neo-keynesiana secondo cui un aumento della disoccupazione di lunga durata favorisca la rigidità salariale. In questo modo, riteniamo di poter introdurre una teoria alternativa della distribuzione e dell’inflazione, in cui il conflitto per la distribuzione del reddito prodotto sia la causa ultima dell’inflazione e vada considerata complessivamente la condizione di forza o di debolezza – influenzata non solo dai tassi di occupazione ma anche dal contesto istituzionale e storico, come suggerito dagli economisti classici – della classe lavoratrice. In conclusione e con l’intento e la speranza di poter approfondire in seguito questo aspetto, abbiamo dato conto di una teoria alternativa che spieghi le dinamiche dell’occupazione a partire dalle dinamiche della domanda aggregata e che, rifacendosi a una determinazione non meccanica della distribuzione del reddito, ci permetta di affermare che non esiste la necessità di una permanente accelerazione dell’inflazione a seguito di uno shock positivo della domanda aggregata. Anzi, l’azione congiunta di flessibilità nel grado di utilizzo della capacità produttiva e nell’output, con un conflitto distributivo che può assumere connotati e risultati diversi, rende ammissibile il caso di una politica espansiva che, riducendo la disoccupazione, porti a un aumento del livello dei prezzi senza generare un tasso di inflazione permanentemente più alto. Il lavoro è dunque organizzato come segue: nel primo capitolo, dopo aver dato conto della riscoperta del tema dell’isteresi, si passeranno in rassegna le diverse specificazioni della curva di Phillips che sono state proposte nel corso degli anni, sottolineando quali affinità e quali divergenze esistano tra l’approccio monetarista e l’approccio neo-keynesiano. Nel capitolo due approfondiremo l’introduzione dell’isteresi nel mercato del lavoro neokeynesiano nelle sue diverse spiegazioni legate alle forme di contrattazione e al ruolo della disoccupazione di lunga durata. Nel capitolo tre, approfondiremo le cause che la letteratura ha richiamato per giustificare l’idea di marginalità e irreversibilità del fenomeno della disoccupazione di lunga durata. Contestualmente, tramite un approccio statistico descrittivo, vedremo come un problema assoluto di irreversibilità non esista e come, tramite l’utilizzo delle Local projection, si possa verificare che i casi di riduzione della disoccupazione di lunga durata non siano associati ad accelerazione del tasso di inflazione. Infine, nel capitolo quattro, costruiremo due diverse specificazioni della curva di Phillips per verificare se sia possibile affermare l’inefficacia dei disoccupati di lunga durata nella contrattazione salariale.

L'isteresi nella disoccupazione e il ruolo della disoccupazione di lunga durata quale causa delle rigidità salariali: un approccio critico

ROMANIELLO, DAVIDE
2020

Abstract

La Grande Crisi del 2007-2008, con le conseguenze drammatiche in termini di caduta dell’output e aumento della disoccupazione, ha arrecato dei seri colpi alle convinzioni macroeconomiche ortodosse passate alla storia come New Consensus, la cui caratteristica principale era l’estrema fiducia posta nella capacità della politica monetaria di ridurre la volatilità dell’output e garantire una crescita stabile e duratura delle economie capitalistiche (Goodfriend, 2007). Gli effetti prolungati della depressione, non prevedibili dai modelli macroeconomici in cui l’azione della Banca Centrale e l’azione dei meccanismi automatici di aggiustamento di matrice neoclassica erano in grado di tenere costantemente l’economia vicino al proprio livello potenziale, hanno favorito la riscoperta del tema dell’isteresi. Inizialmente riferito al tasso di disoccupazione (Blanchard e Summers, 1986) ma negli ultimi anni esteso anche al reddito (Ball, 2014; Blanchard et al. 2015), con tale termine ci si riferisce alla possibilità che una recessione profonda, alterando in maniera significativa il tasso di disoccupazione effettivo (o il Reddito effettivo) possa determinare una variazione anche del tasso di disoccupazione di equilibrio (o del Reddito potenziale). In sostanza, si ammette la possibilità che una caduta ciclica dell’attività economica possa avere effetti persistenti e di lungo periodo. Quello dunque che ha animato la riscoperta dell’isteresi è stato, da un lato l’esperienza di alti e persistenti tassi di disoccupazione, dall’altro l’assenza di una dinamica deflattiva dei prezzi dell’entità che i modelli macroeconomici avevano previsto. Definire, come la teoria neo-keynesiana dominante fa, il tasso di disoccupazione di equilibrio come un tasso di disoccupazione non inflazionistico (Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment, NAIRU) significa infatti attendersi che, per livelli particolarmente alti del tasso di disoccupazione e presumibilmente superiori al NAIRU, il tasso di inflazione cada e che questo meccanismo conduca il sistema verso l’equilibrio precedente. La concomitanza di altissimi livelli di disoccupazione e tassi di inflazione stabili o comunque l’assenza di una profonda deflazione ha reso invece necessaria una riflessione su cosa fosse successo alla curva di Phillips, la nota relazione tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione, diventata nel corso degli anni il luogo in cui il paradigma neo-keynesiano osservava la presenza di situazioni di disequilibrio nel mercato del lavoro. Le varie specificazioni della curva utilizzate comunemente, infatti, avevano previsto una caduta dell’inflazione ben maggiore di quella effettivamente verificatasi e, tra le argomentazioni addotte per spiegare il fenomeno della missing deflation, l’isteresi ricopre un ruolo cruciale. Non considerarla, infatti, significa non considerare che un aumento del NAIRU, a seguito dell’aumento del tasso di disoccupazione, possa comportare una riduzione dell’unemployment gap (la differenza tra il tasso di disoccupazione e il tasso di disoccupazione di equilibrio) che risulterebbe inferiore, e dunque richiederebbe una minore disinflazione, rispetto a quello calcolato con il NAIRU invariato e il nuovo più alto tasso di disoccupazione. Per questo motivo, prima di indagare come l’isteresi è stata spiegata e introdotta nei modelli del mercato del lavoro, si è proceduto a una rassegna della letteratura sulla Curva di Phillips che mostrasse come essa, da semplice relazione empirica – pur non scevra di implicazioni teoriche – sia stata plasmata a misura del disequilibrio sul mercato del lavoro. Si è successivamente passati a indagare le cause di isteresi proposte dalla letteratura, soffermandosi su quella più recente e maggiormente trattata dalla letteratura moderna, riferita al fenomeno della disoccupazione di lunga durata. Che l’aumento dell’incidenza della disoccupazione di lunga durata potesse essere una causa di isteresi era già stato accennato da Blanchard e Summers (1986) o da Layard et al. (1991): i livelli raggiunti dopo la Grande Depressione del 2007-2008 e la smentita teorica ed empirica subita dai modelli insider-outsider per spiegare le dinamiche della disoccupazione, hanno ridato vigore al tema. I disoccupati di lunga durata, si sostiene, subendo un deterioramento delle proprie skill e svolgendo con poca efficacia l’attività di ricerca di un nuovo lavoro – a causa ad esempio di fenomeni di scoraggiamento o alla percezione di sussidi di disoccupazione troppo generosi – finirebbero per essere emarginati e non verrebbero percepiti come concorrenti dagli altri lavoratori. Questa condizione porterebbe con sé due conseguenze necessarie, ma come vedremo tutt’altro che cogenti, per la teoria dell’isteresi: da un lato il deperimento delle skill, la scarsa dedizione nella ricerca del lavoro e il disincentivo al lavoro causato dagli unemployment benefits, farebbero sì che il fenomeno della disoccupazione di lunga durata assuma i tratti dell’irreversibilità. Una politica espansiva, dunque, volta al riassorbimento della disoccupazione, non sarebbe efficace nel ridurre anche la disoccupazione di lunga durata. Dall’altro lato, la loro condizione di marginalità farebbe sì che gli altri lavoratori non temano la loro concorrenza e, quindi, che la loro presenza renda la disoccupazione meno efficace nel produrre un indebolimento delle richieste salariali e una caduta dell’inflazione. Partendo da queste premesse e dopo aver sviluppato una disamina sulla letteratura empirica volto a dimostrare come, se è vero che la probabilità di essere riassunti peggiora con l’aumento della durata della disoccupazione, non è vero che la condizione relativa dei disoccupati di lunga durata è peggiorata a seguito della Grande Depressione (perché contestualmente è peggiorata la condizione di tutti i lavoratori), abbiamo guardato criticamente alle due implicazioni succitate. Seguendo l’esempio di Webster (2005), abbiamo verificato che l’utilizzo dell’incidenza della disoccupazione di lunga durata sulla disoccupazione totale possa essere all’origine di alcuni errori di valutazione del fenomeno che hanno erroneamente corroborato l’idea che una riduzione del tasso di disoccupazione complessivo non si accompagnasse anche a una riduzione della disoccupazione di lunga durata. Utilizzando invece un ordine di ritardo o, meglio ancora, calcolando invece che l’incidenza il tasso di disoccupazione di lunga durata (vale a dire il rapporto tra disoccupati di lunga durata e forza lavoro), si può apprezzare come non ci siano motivi per ritenere che disoccupazione totale e disoccupazione di lunga durata si muovano in modo asimmetrico. In questo senso, non vi è la necessità di ritenere che la riduzione della disoccupazione non si possa accompagnare, presto o tardi, anche al riassorbimento della disoccupazione di lunga durata. Come accennato, l’aumento del NAIRU conseguente a un aumento della disoccupazione di lunga durata accentuerebbe il rischio inflattivo di una politica espansiva principalmente per due ordini di motivi: dapprima, l’aumento del NAIRU comporterebbe una riduzione dell’unemployment gap, dunque una riduzione dello “spazio fiscale”. Ciò, in pratica, limiterebbe la possibilità di espandere la spesa pubblica o in generale di fare politiche macroeconomiche espansive, senza che esse generino un aumento dell’inflazione. Inoltre, la marginalità dei disoccupati di lunga durata nel mercato del lavoro farebbe sì che un aumento della domanda di lavoro riguardi innanzitutto i disoccupati di breve durata, maggiormente inflattivi e capaci di contrattare aumenti salariali consistenti, non intimoriti come sono, dalla presenza dei lavoratori senza lavoro da maggior tempo. In sostanza, ammesso che sia possibile, la riduzione della disoccupazione di lunga durata tramite un aumento della domanda di lavoro accadrebbe in concomitanza di una sorta di pieno impiego dei disoccupati di breve durata. Essa dovrebbe dunque, in questi modelli, essere necessariamente accompagnata a un’accelerazione dell’inflazione. Per verificare questa condizione, abbiamo fatto ricorso alla metodologia delle Local Projections (Jordà, 2005): definito lo shock come quei casi anno-paese in cui il tasso di disoccupazione di lunga durata si è ridotto di più della media delle riduzioni del paese più una deviazione standard, abbiamo verificato se esso fosse associato, su 5 periodi, a un’accelerazione del tasso di inflazione, trovando una risposta negativa a questo quesito. Abbiamo ripetuto lo stesso esercizio nei soli casi in cui la riduzione della disoccupazione di lunga durata è avvenuta in presenza di un unemployment gap già negativo, dunque in quelle condizioni in cui la spinta inflazionistica sarebbe dovuta essere già in atto. Anche in questo caso, non si nota alcuna accelerazione del tasso di inflazione. I risultati sono significativi, a nostro avviso, sia come elemento di critica della teoria dell’isteresi spiegata alla luce del fenomeno della disoccupazione di lunga durata, sia come elemento di critica della stessa teoria del NAIRU, inteso come barriera inflazionistica oltre la quale, il tentativo di ridurre la disoccupazione, genererebbe necessariamente un’accelerazione del tasso di inflazione. Infine, dopo aver dato conto della letteratura che ha provato a tener conto della disoccupazione di lunga durata nella stima della Curva di Phillips, per avvalorare l’ipotesi della ridotta capacità dei disoccupati di lunga durata di influenzare la formazione dei salari e dei prezzi, abbiamo effettuato alcuni tentativi volti a verificare, dal canto nostro, questa tesi ma animati da una premessa alternativa. Vale a dire, che non sia possibile sostenere che la presenza di lavoratori più svantaggiati rispetto ad altri, come appunto i disoccupati di lunga durata, renda meno flessibili i salari monetari verso il basso rinvigorendone la contrattazione salariale. Abbiamo dunque stimato due versioni diverse della Curva di Phillips: nella prima versione lineare teniamo conto, nel determinare l’inflazione dei salari monetari, sia del ruolo dei disoccupati di breve che di quelli di lunga durata, nella seconda specificazione invece, abbiamo considerato una curva di Phillips non lineare testando, in questo contesto, il ruolo dell’alta incidenza della disoccupazione di lunga durata. In entrambi i casi, i nostri risultati non permettono di confermare la tesi neo-keynesiana secondo cui un aumento della disoccupazione di lunga durata favorisca la rigidità salariale. In questo modo, riteniamo di poter introdurre una teoria alternativa della distribuzione e dell’inflazione, in cui il conflitto per la distribuzione del reddito prodotto sia la causa ultima dell’inflazione e vada considerata complessivamente la condizione di forza o di debolezza – influenzata non solo dai tassi di occupazione ma anche dal contesto istituzionale e storico, come suggerito dagli economisti classici – della classe lavoratrice. In conclusione e con l’intento e la speranza di poter approfondire in seguito questo aspetto, abbiamo dato conto di una teoria alternativa che spieghi le dinamiche dell’occupazione a partire dalle dinamiche della domanda aggregata e che, rifacendosi a una determinazione non meccanica della distribuzione del reddito, ci permetta di affermare che non esiste la necessità di una permanente accelerazione dell’inflazione a seguito di uno shock positivo della domanda aggregata. Anzi, l’azione congiunta di flessibilità nel grado di utilizzo della capacità produttiva e nell’output, con un conflitto distributivo che può assumere connotati e risultati diversi, rende ammissibile il caso di una politica espansiva che, riducendo la disoccupazione, porti a un aumento del livello dei prezzi senza generare un tasso di inflazione permanentemente più alto. Il lavoro è dunque organizzato come segue: nel primo capitolo, dopo aver dato conto della riscoperta del tema dell’isteresi, si passeranno in rassegna le diverse specificazioni della curva di Phillips che sono state proposte nel corso degli anni, sottolineando quali affinità e quali divergenze esistano tra l’approccio monetarista e l’approccio neo-keynesiano. Nel capitolo due approfondiremo l’introduzione dell’isteresi nel mercato del lavoro neokeynesiano nelle sue diverse spiegazioni legate alle forme di contrattazione e al ruolo della disoccupazione di lunga durata. Nel capitolo tre, approfondiremo le cause che la letteratura ha richiamato per giustificare l’idea di marginalità e irreversibilità del fenomeno della disoccupazione di lunga durata. Contestualmente, tramite un approccio statistico descrittivo, vedremo come un problema assoluto di irreversibilità non esista e come, tramite l’utilizzo delle Local projection, si possa verificare che i casi di riduzione della disoccupazione di lunga durata non siano associati ad accelerazione del tasso di inflazione. Infine, nel capitolo quattro, costruiremo due diverse specificazioni della curva di Phillips per verificare se sia possibile affermare l’inefficacia dei disoccupati di lunga durata nella contrattazione salariale.
2020
Italiano
isteresi; disoccupazione di lunga durata; NAIRU; inflazione
AARABI CHAM ALISHAHI, MAHDI
Università degli Studi di Roma "La Sapienza"
File in questo prodotto:
File Dimensione Formato  
Romaniello_isteresi-nella-disoccupazione_2020.pdf

accesso aperto

Dimensione 2.48 MB
Formato Adobe PDF
2.48 MB Adobe PDF Visualizza/Apri

I documenti in UNITESI sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14242/97534
Il codice NBN di questa tesi è URN:NBN:IT:UNIROMA1-97534