LA CGIL E IL PCI TRA VIOLENZA TERRORISTICA E RADICALITÀ SOCIALE (1969-1982) di Francescopaolo Palaia Università di Roma “La Sapienza” La crisi congiunturale che aveva caratterizzato i primi anni ‘60 si interrompe grazie al mercato internazionale che inizia a trainare le esportazioni. Questo comporta una ripresa delle assunzioni. Il bacino da cui attingere forza lavoro necessaria per aumentare il ciclo produttivo è rappresentato dagli emigrati meridionali. Nel 1966, ’67 e ’68 la FIAT aveva assunto circa 12.000 operai emigrati. I carichi di lavoro, la compressione continua dei tempi di produzione, la parcellizzazione delle mansioni pesavano in modo talmente gravoso sugli operai al punto di diventare un fattore determinante nella crescita della conflittualità sindacale. Inoltre il nuovo operaio, l’emigrato assunto in quel periodo era totalmente dequalificato. Il fordismo entra prepotentemente in fabbrica per rispondere alle esigenze produttive intervenendo con violenza sui ritmi di produzione. La FIAT e molte altre aziende iniziano a spingere al massimo le linee. L’inasprimento dei ritmi e delle condizioni del lavoro aumenta l’influenza dei lavoratori dell’industria all’interno del sindacato. Mai, nei diciotto anni della loro storia, CGIL e CISL sono state organizzazioni così fortemente influenzate dalla rappresentanza del lavoro industriale. “Quello che pesò nella dura esperienza di questa generazione, ha osservato Bruno Trentin, fu da un lato la contraddizione tra una certa emancipazione culturale e la scoperta di un mondo più vasto, e dall’altro lato l’ingresso brutale in un rapporto di lavoro dequalificante e oppressivo”. Anche la ripresa produttiva avviene secondo moduli antichi. Alla Fiat, già nel ’66 sotto l’apparente silenzio della fabbrica iniziano a moltiplicarsi i focolai di conflittualità, innescati da momenti di disagio molto aspri. Questi momenti di disagio sono provocati in primo luogo dalla forte pressione che i capi reparto esercitano per aumentare continuamente i ritmi di lavoro. Il fermento dei lavoratori porta anche alla contestazione nei confronti di un sindacato rigidamente ingessato e colto di sorpresa dall’accelerazione delle proteste. L’ondata rivendicativa della fine degli anni ’60 è comune ad altri paese europei. La specificità italiana consiste nella maggiore estensione, durata e intensità dei conflitti, nelle modifiche più profonde che essi provocano nelle organizzazioni sindacali. I sindacati mostrano una notevole capacità di adattarsi alle mutate condizioni. Questo è reso possibile dal fatto che essi riescono a conquistarsi una parziale autonomia rispetto ai partiti politici. Nella CGIL, uomini come Luciano Lama e Bruno Trentin, insistono affinché il sindacato determini in piena autonomia la propria risposta agli avvenimenti in corso. Questa autonomia porterà spesso la CGIL a muoversi lungo linee di condotta assai meno caute di quelle tenute dal PCI. Allo stesso modo anche la CISL si sottrae al controllo della Democrazia Cristiana e la FIM, la federazione dei metalmeccanici della CISL, sarà protagonista molto importante dell’Autunno caldo, nonché punto di raccordo dei cattolici rivoluzionari. Per quanto una minoranza di dirigenti e di membri, soprattutto nella FIM, teorizzasse un sindacalismo rivoluzionario, la maggioranza vede il sindacato come un veicolo per le riforme. Le nuove richieste e forme di lotta che vengono dalla base in questa fase non saranno respinte come estremiste, ma verranno incanalate all’interno di una più complessiva strategia sindacale. Il sindacato dimostra una importante capacità interpretativa. Le Commissioni Interne vengono sostituite dai delegati, antesignani dei Consigli di Fabbrica. La figura del delegato permette al sindacato di comprendere gli interessi degli operai e di saldarsi con la propria base. Il cambiamento è notevole. Le Commissioni interne, infatti, non avevano potere contrattuale e venivano elette sulla base di liste divise per confederazioni. I delegati vengono, invece, eletti su scheda bianca indipendentemente dalla Confederazione di appartenenza. Una volta eletti andranno a costituire il Consiglio di fabbrica, che avrà anche potere contrattuale. La reazione imprenditoriale è molto dura e non vuole riconoscere la figura del delegato. Gli operai rovesciano l’impianto capitalistico dell’accumulazione sostenuto dalle aziende. Il conflitto diviene permanente e accanto alle tradizionali richieste di miglioramenti salariali, di riduzione dell’orario di lavoro, gli operai mettono al centro il nodo della salute all’interno della fabbrica contro la nocività ambientale e i serrati ritmi produttivi. La mobilitazione sociale dell’ultimo scorcio degli anni sessanta presenta versanti diversi e sussulti molteplici. A intensificarsi, infatti, sarà anche l’azione della destra estrema con aggressioni squadristiche, attentati e stragi. È di matrice neofascista la bomba che esplode il 25 aprile 1969 alla Fiera campionaria di Milano. Per tutto il mese di aprile Milano è teatro di attentati a sedi del PCI o a circoli di sinistra, e il 12 aprile vi è un assalto fascista, con il lancio di bombe molotov, all’ex Albergo Commercio di Piazza Fontana, trasformato dagli studenti in una “Casa dello studente e del lavoratore”. Ciononostante, dopo l’attentato alla Fiera la polizia esclude che la bombe sia collocate da gruppi neofascisti e le attribuisce, riprendendo le parole del quotidiano “Il Giorno” del 27 aprile 1969 “alla protesta dissennata, irrazionale, di estrema sinistra”. I sindacati e i partiti della sinistra si mobilitano costituendo Il Comitato permanente antifascista contro il terrorismo per difesa dell’ordine Repubblicano. Per la polizia la bomba alla Fiera è anarchica e saranno anarchiche anche le bombe che scoppiano sui treni italiani nell’agosto del ’69. Il capo della polizia il 28 novembre 1969 afferma che “per le particolari caratteristiche dei congegni di accensione a resistenza incandescente sembra di poter attribuire a gruppi anarchici o contestatori l’azione terroristica in questione”. Sullo sfondo si intrecciano due aspetti legati al rimescolamento in corso nell’estrema destra e ai processi che attraversano settori non secondari dello Stato. Le elezioni del 1968 hanno visto il peggiore risultato del Msi dopo il 1948: è un’ulteriore sconfitta della lunga segreteria legalitaria di Arturo Michelini. Alla sua morte, nel giugno del 1969, viene eletto segretario Giorgio Almirante, mentre si moltiplicano le iniziative di soggetti diversi, interni ed esterni al partito: da Ordine Nuovo di Pino Rauti (che nel novembre del ’69 rientra ufficialmente nel Msi) sino ai gruppi filo golpisti che agiscono in stretto contatto con miliari e servizi segreti. Il problema inizia a essere considerato con attenzione nel dibattito interno al PCI fin dalla fine del 1968. Nel maggio del 1969 Enrico Berlinguer osserva “Vi è un accrescersi di elementi che indicano qualcosa di torbido e pericoloso in questa situazione. Da questa attivazione di gruppi di destra non si può escludere una componente internazionale. Non escludo che la risposta ai fascisti debba essere decisa”. Nel corso dell’estate l’attenzione si sposta su ciò che avviene nelle forze armate, e nella Direzione del 2 luglio Luigi Longo drammatizza il quadro riferendo su di un possibile intervento dell’esercito e segnalando movimenti lungo la Via Appia. Quando inizia dicembre sono in molti a pensare che l’Autunno non durerà ancora a lungo. Le forze dell’ordine dimostrano una iniziale fase di passività che si può ritenere di studio, di attesa di ordini dall’alto, in attesa di regole di ingaggio. A restare stupiti di questa iniziale passività di fronte al dilagare delle manifestazioni di piazza e al dispiegarsi delle contestazioni in fabbrica sono i sindacalisti con qualche anno di esperienza in quanto le lotte passate hanno insegnato loro qualcosa. Così non credono, a differenza dei militanti più giovani che ci si trovi davanti a una strategia illuminata di contenimento. Le lotte si accendono anche in luoghi dove le gerarchie di potere sembrano intoccabili e per questo innescano reazioni pesanti. Queste reazioni si intrecciano agli umori di un apparato dello Stato che innesta le sue radici direttamente nella continuità con il passato regime fascista. In quegli anni guidano le questure e gli uffici politici, occupano i più rilevanti incarichi nella giustizia, sono funzionari, magistrati, ufficiali che hanno compiuto il loro apprendistato professionale all’interno di uno stato autoritario. Forgiati da una cultura che non ha conosciuto il diritto di sciopero e nega il diritto all’espressione. Sono questi gli uomini che determinano il primo rinserrarsi del baluardo opposto alle lotte dell’autunno caldo. Utilizzando tutti gli strumenti messi a disposizione da un codice penale modellato sul passato regime, disattendendo norme, prevaricando ruoli e funzioni, delineano una complessa geografia della repressione. Tutte le categorie in pochi mesi vengono investite da denunce, saranno complessivamente 13903. A subire la maggiore repressione sono i lavoratori agricoli (con 3992 denunciati) che soprattutto nelle campagne meridionali sono investiti da una brutale repressione (ad Avola e Battipaglia si registrano vittime tra i lavoratori colpiti da armi da fuoco utilizzate dalle forze dell’ordine per fronteggiare manifestazioni sindacali). Sono circa 60 i tipi di reato che vengono addebitati ai partecipanti alle manifestazioni dell’autunno ’69. Pochi giorni prima del 12 dicembre 1969 si tiene alla Camera una seduta dedicata ai problemi della violenza e del terrorismo. L’occasione è data dalle numerose interpellanze, presentate dopo gli scontri che a Milano, il 19 novembre, hanno portato all’uccisione dell’agente di pubblica sicurezza Antonio Annnarumma. Il Presidente della Repubblica Saragat accrediterà la tesi dell’assassinio politico ancor prima della conclusione delle indagini con un telegramma molto duro. E così farà il suo partito addebitando la morte di Annarumma alla responsabilità diretta dei comunisti, del Psiup e dei sindacati. Il 12 Dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana sull’Italia piomba una spirale di violenza che infiammerà e condizionerà gli anni successivi. Il PCI e la CGIL decidono fin da subito di schierarsi e impegnarsi totalmente in difesa della democrazia: La Direzione del Pci e la Segreteria della Cgil invitano alla vigilanza e all’iniziativa politica unitaria. Sono le masse operaie, gli antifascisti, tutte le forze democratiche che debbono dire basta alle provocazioni, ai tentativi eversivi; che debbono con la più ampia unità democratica e popolare e nel sostegno delle istituzioni repubblicane, fermamente assicurare la difesa e lo sviluppo del regime democratico. Piazza Fontana inaugura quella che è stata definita la “strategia della tensione” che utilizzando la definizione di Guido Crainz ha rappresentato “un inasprimento forzato dello scontro sociale volto a spostare a destra l’opinione pubblica, prima ancora che l’asse politico, e volto a stabilire le basi per governi d’ordine, o presidenzialismi autoritari o aperte rotture degli assetti costituzionali” . La strage di Piazza Fontana è un momento molto importante anche per le discussioni dei gruppi della sinistra extraparlamentare. Accelera, in alcuni gruppi la decisione di intraprendere la lotta armata. La lotta armata avrà diverse fenomenologie e diverse metodologie. Ci si confrontarsi su due tipologie di lotta armata: una di tipo sostanzialmente difensivo e l’altra di tipo espansivo. Giangiacomo Feltrinelli è l’esponente della prima concezione di lotta armata. L’editore milanese, convinto circa l’imminenza di un colpo di stato sul modello dei colonnelli in Grecia, ritiene necessario contrapporvi una risposta armata. Feltrinelli concepisce la lotta armata secondo gli schemi classici del marxismo e del movimento operaio tradizionale. Ritiene necessario che il movimento abbia una avanguardia politica e un braccio armato. Le Brigate Rosse individuano come elemento di novità, nella città il nuovo centro dello sfruttamento capitalistico e nella guerriglia urbana nella metropoli - sul modello dei Tupamaros in Uruguay e dei guerriglieri brasiliani di Carlos Marighella, la nuova metodologia della pratica rivoluzionaria. Le Br elaborano una nuova concezione di lotta armata: l’avanguardia politica deve essere anche avanguardia armata, deve definire e elaborare la teoria e la pratica rivoluzionaria. È molto importante chiarire che tipo di emergenza rappresenti per il sindacato italiano e per il PCI la stagione del terrorismo. Una riguarda la convinzione del movimento sindacale, in particolare della CGIL, e del PCI di doversi occupare direttamente della difesa dell’ordine pubblico; l’altra la percezione di una sovraesposizione delle istituzioni e della società italiana ad un rischio di collasso democratico. Il primo aspetto è il risultato della confluenza da un lato di un tratto di lungo periodo della cultura politica dei dirigenti sindacali comunisti e dall’altro dalle necessità contingenti imposte inizialmente dalla strategia della tensione. Da una parte c’è il vecchio sogno dei comunisti italiani di potere “controllare le questure”, di gestire in prima persona l’ordine pubblico. Idea che rimanda alle eredità lasciate dalla tradizione leninista e stalinista, ma anche alla identificazione totale dei comunisti italiani nella Costituzione Repubblicana e nella sua difesa . Ci sono poi le conseguenze degli anni che vanno dalla bomba di Piazza Fontana del 1969 a quelle del treno “Italicus” nel 1974 e soprattutto quella di piazza della Loggia a Brescia sempre nel ‘74. Di fronte a una esplosione di violenza di tale portata il sindacato decide di presidiare le piazze, di prendere in mano senza delegare a nessuno la difesa della democrazia. A Brescia il sindacato si fa Stato, diventa gestore in prima persona dell’ordine pubblico e viene percepito dalla città come unico soggetto legittimato a questo compito. A Brescia si crea una sorta di sospensione temporale che dura circa due mesi in cui la Camera del lavoro diviene la centrale operativa nella gestione dell’ordine pubblico e la classe operaia si sostituisce de facto allo Stato. Le stragi vengono percepite infatti come un attacco alle conquiste del movimento operaio e lo Stato non viene ritenuto in grado di svolgere un’azione efficace su questo terreno perché minato al suo interno da connivenze e contiguità con i protagonisti della strategia della tensione . Esemplare il racconto di Claudio Sabattini, allora dirigente sindacale bresciano, della manifestazione successiva alla strage che il 28 maggio 1974 colpisce proprio una manifestazione sindacale: Gli operai sostituiscono anche la polizia: tutte le vie d’accesso che portano a piazza della Loggia sono controllate da membri dei consigli di fabbrica […] La polizia che reclama per sé queste funzioni viene respinta e continuano i picchetti controllando e silenziando tutti coloro che entrano. […] il giorno dei funerali c’erano le più alte cariche dello Stato, dal Presidente della Repubblica al primo ministro, e non c’era la polizia a presidiare la situazione: sembrava che l’apparato dello Stato fosse stato in una certa misura sciolto e lo stesso servizio d’ordine che doveva tutelare il Presidente della Repubblica era formato dagli operai . Dalle parole di Sabattini traspare una soddisfazione comprensibile. Gli operai garantiscono la difesa delle massime istituzioni, quegli stessi operai che nella piazza inscenano una dura manifestazione di protesta nei confronti di quelle stesse alte cariche dello Stato. L’incapacità dello Stato di arrestare il processo di erosione democratica che sta avvenendo al suo interno pone le basi per una profonda crisi istituzionale in cui i partiti politici saranno i soli soggetti capaci di fornire una risposta. C’è un prima- l’incapacità e l’indisponibilità delle istituzioni di allargare gli spazi del confronto sociale e democratico a partire dal 1969- e un dopo- la strategia del PCI sostenuta dalla maggioranza della CGIL di dare vita ad una maggioranza parlamentare in grado di garantire quegli spazi. La mobilitazione nelle piazze e la forza della reazione democratica sono un fattore decisivo per la conclusione di quella strategia della tensione che ottiene un risultato differente da quello cercato: il rafforzamento del sindacato e del PCI come soggetti indispensabili per la difesa della democrazia e contribuisce alla marcia di avvicinamento dello stesso PCI all’area di governo, anche se gli anni successivi non vedono certo la fine dei progetti eversivi, ma solo una loro trasformazione. Il PCI e la CGIL individuano in questi anni il centro del pericolo democratico nelle forze eversive di destra. Ma nello stesso tempo nascono i prodromi dei progetti armati a sinistra che vedono il loro fulcro d’azione inizialmente all’interno delle fabbriche. Il Partito comunista e il sindacato faticano a comprendere la matrice politica della lotta armata e soprattutto restano spiazzati da un deciso consenso nei confronti di quello spontaneismo operaio che era stato all’origine dell’autunno caldo. Alla fine degli anni ’60 il PCI e la CGIL sono sorpresi dalle posizioni rivoluzionarie dei movimenti studenteschi e ne avevano valutato con favore la matrice marxista e la volontà di cambiamento. La FGCI e la FIOM, la FIM e la UILM vengono travolte dall’irruzione di queste nuove istanze. L’organizzazione giovanile comunista entra in crisi e inizia a perdere militanti a favore dei movimenti. Per molti anni il PCI e la CGIL mantengono contatti e rapporti con i gruppi extraparlamentari ritenendo di riuscire ad assorbirne e indirizzarne le spinte rivoluzionarie. I comunisti sottovalutano però a lungo i gruppi eversivi di sinistra considerandoli strumenti che la destra reazionaria utilizzava per colpire il movimento operaio e orientare l’opinione pubblica su posizioni moderate. È importante sottolineare come nella CGIL non si registrino momenti di discussione circa il fenomeno della lotta armata fino al 1978. In quell’anno la CGIL organizza ad Ariccia, infatti, due Convegni molto importanti sul terrorismo. Nella sua relazione a uno dei due convegni, Valentino Zuccherini- membro della segreteria nazionale- traccia un quadro molto interessante sui ritardi di analisi nella comprensione del fenomeno della lotta armata: Dobbiamo dire che la nostra organizzazione affronta solo ora la questione e cerca di affrontarla ora con un certo metodo. Io dico che abbiamo commesso delle disattenzioni, abbiamo sottovalutato la progressione, la qualità, la natura del fenomeni. Abbiamo compiuto anche degli errori di unilateralità nelle analisi, nei censimenti dei fatti credendoci immunizzati dal fenomeno e credendo di essere fuori dall’indirizzo, dalle tendenze. È importante recuperare il ritardo e essere rigorosi con noi stessi per capire meglio la realtà e i nostri errori di fondo . Ugo Pecchiloli, invece, descrive così i ritardi del PCI nel comprendere i pericoli dell’eversione di sinistra: All’inizio eravamo un pò incerti. Tra noi si alternavano giudizi diversi: i terroristi o venivano considerati ciechi strumenti della provocazione che lavoravano per conto dei centri reazionari anche internazionali, oppure si dava di loro un giudizio meno drastico, considerandoli come degli irresponsabili . Gerardo Chiaromonte, direttore di «Rinascita» dal 1972 al 1975 e membro della Segreteria nazionale del PCI dal 1975 al 1983, spiega come il principale errore del partito e del sindacato alla fine degli anni ’60 debba essere individuato nell’inadeguata lotta culturale contro idee sbagliate e pericolose . Scrive Chiaromonte: Da parte nostra non fu data la necessaria attenzione e in parte non fu visto e denunciato nella sua pericolosità ciò che accadeva in alcune grandi città, dove venivano organizzandosi gruppi violenti e armati di estremisti di sinistra di matrice marxista e cattolica. Questo derivò da molti fattori: da una certa oscillazione, che senza dubbio vi fu nel PCI, fra un rifiuto indiscriminato, in alcuni, di tutte le posizioni che emergevano alla nostra sinistra e una sorta di ricerca a tutti i costi, in altri di un dialogo e di un consenso . L’atteggiamento operaio nei confronti della violenza come strumento di lotta politica è molto complesso e analizzarlo a fondo richiede un operazione di natura culturale. La testimonianza di Francesco Unnali, Segretario della Sezione di fabbrica Lenin del Pci della Magneti Marelli aiuta a comprendere questo tema: I lavoratori respingevano l’estremismo quando si presentava in una veste politica ed ideologica definita; lo accettavano invece quando si presentava in una dimensione tutta sindacale, si faceva portavoce di interessi particolari legati alla fabbrica . L’analisi archivistica e della stampa conferma queste difficoltà iniziale nella comprensione del fenomeno della lotta armata. Su «l’Unità» le definizioni delle Brigate Rosse sono le più disparate, ma concordano nel considerarle estranee alla storia del movimento operaio; pedine della strategia della tensione; fascisti. “E’evidente che alle spalle di questa banda esiste una organizzazione interessata a certe operazioni politiche che si serve strumentalmente di questi rottami della società ”. Ancora: “sparate provocatorie di stampo fascista. Gli operai in prima persona devono farsi giustizia in modo violento contro questi provocatori fascisti .” La morte di Giangiacomo Feltrinelli e le successive indagini che portano alla luce la struttura illegale dei primi nuclei terroristi, e l’assassinio del commissario Luigi Calabresi determinano nel 1972 un cambiamento di linea. Enrico Berlinguer, divenuto Segretario generale del PCI nel marzo del 1972, durante il Comitato centrale del febbraio 1973 dirà chiaramente che “non sono più sufficienti la dissociazione e la polemica ideologica contro la violenza, va promossa un’azione incisiva contro gli ultrasinistri per impedire e isolare gli atti sconsiderati degli estremisti ”. Parafando Silvio Lanaro “i comunisti non potevano lasciar credere di avere figliato gli esaltati e gli extraparlamentari che usurpavano linguaggi, dottrine e simbologie della tradizione marxista-leninista e si impegnarono anima e corpo al fine di non vedere disperso il gruzzolo di credibilità democratica che avevano racimolato dopo la morte di Togliatti ”. Nel suo intervento in Direzione nel 1974 Ugo Pecchioli parlando di terrorismo dice: Non esitiamo a prendere atto che finalmente, anche tanti che fino a non molto tempo fa sostenevano l’aberrante tesi degli opposti estremismi (sotto il drammatico incalzare dei fatti, della verità e soprattutto della crescita impetuosa del movimento operaio antifascista) hanno dovuto riconoscere che il marchio dei misfatti, che l’ispirazione di chi li promuove è e non può che essere soltanto fascista. Quale che sia la sigla o l’etichetta che i vari gruppi del terrorismo si applicano, è ormai chiaro alla coscienza di ogni democratico che lì c’è la matrice nera, c’è la volontà di reagire allo sviluppo del movimento democratico, alle lotte e alle conquiste dei lavoratori . Enrico Berlinguer intervenendo in Direzione il 19 giugno 1975 ritiene che “Nap e Brigate Rosse che agiscono e che, per quello che se ne sa, sono espressione delle forze di destra” . Il partito inizia un’intensa attività di ricognizione e di studio sulle organizzazioni della sinistra extraparlmantare che sarà presentato e discusso in un seminario nazionale nel gennaio del 1975. In questa fase il PCI decide anche di ricostruire un rapporto con i giovani rilanciando la Federazione giovanile che ritornerà a svolgere un ruolo importante con le segreterie di Renzo Imbeni e di Massimo D’Alema. Nel 1970-76 nelle fabbriche italiane avviene un notevole ricambio dovuto al turnover. Molti giovani operai entrano nelle fabbriche per sostituire quelli dell’epoca della “ricostruzione”. Dopo le grandi stragi fasciste nei cortei sindacali del 1976-77, una delle parole d’ordine più gridate dai giovani operai della Breda e della Magneti Marelli sarà “Basta con i parolai, armi, soldi, potere agli operai”. All’interno delle fabbriche è come se si sviluppasse una sorta di mondo parallelo in cui vigono regole e codici paralleli a quelli del mondo esterno. Anche fra gli stessi operai esistono queste regole e questi codici paralleli. Sarebbe difficile rendersi conto della portata del cambiamento politico-culturale operato dal PCI e dalla CGIL tra il 1975 e il 1979 senza notare al contempo il comportamento operaio all’interno delle fabbriche. Il PCI fa molta fatica infatti a comprendere l’iniziale “consenso” operaio nei confronti delle Brigate Rosse. All’interno delle fabbriche è possibile notare un comportamento che potrebbe essere definito di “opacità operaia”. Nello stesso periodo i gruppi dirigenti di PCI e CGIL si convincono di avere sottovalutato e alimentato i contenuti negativi introdotti dai movimenti del Sessantotto. Per molti militanti della sinistra i terroristi non sono, in questa fase, avversari. Saranno a lungo considerati “compagni che sbagliano”. Solo in Italia l’eversione rossa ha visto una vasta area di indulgenza, complicità e tolleranza e ha visto un forte rapporto con alcuni ambienti intellettuali e universitari. La suggestione rivoluzionaria era ancora presente in persone che avevano militato nei gruppi della sinistra extraparlamentare fino ai primi anni Settanta e poi se ne erano allontanate per ragioni personali o professionali approdando ad altre organizzazioni della sinistra storica, come il PCI, il PSI e i sindacati, conservando però relazioni con i compagni di un tempo. I ritardi del PCI e della CGIL possono essere ricondotti alle comuni età anagrafiche ed esperienze politiche di molti iscritti con gli appartenenti ai gruppi extraparlamentari. Bisogna considerare infatti che per anni i militanti più giovani del PCI, della CGIL e della sinistra extraparlamentare si frequentano e organizzano insieme iniziative sui temi dell’antifascismo, della pace e dell’antimperialismo. Secondo Paolo Bufalini, membro della segreteria nazionale del PCI negli anni Settanta, il partito non si era preoccupato di contrastare “l’esaltazione acritica del guevarismo, inteso come movimento romantico e semplicistico” e tra i giovani comunisti si erano diffuse “compiacenze” verso un giudizio positivo e verso l’esaltazione dei movimenti del Sessantotto. Il 1976 può essere considerato un anno di svolta per la riorganizzazione interna del PCI. Già nel gennaio del 1975 il Partito tiene un importante seminario sull’estremismo in cui i rappresentanti delle varie Federazioni ricostruiscono la presenza dei gruppi della sinistra extraparlamentare nelle varie città, in particolare del nord Italia e all’interno delle singole fabbriche. Questo seminario rappresenta un momento di riflessione interna molto importante per il PCI. Il partito deciderà di dotarsi nell’aprile 1976 di un nuovo organismo interno- La Sezione Problemi dello Stato- deputato a occuparsi dei problemi relativi al terrorismo e alla criminalità organizzata. Responsabile di questa sezione di lavoro sarà Ugo Pecchioli. È questo un momento molto importante nella vita del partito che inizia a operare una propria riorganizzazione interna per affrontare al meglio la minaccia della criminalità organizzata- il 1976 è anche l’anno della Relazione di minoranza di Pio La Torre e Cesare Terranova sul fenomeno della mafia siciliana in Commissione Antimafia- del terrorismo e gli errori di valutazione degli anni precedenti. La Sezione Problemi dello Stato sarà la sede organizzativa e di lavoro politico deputata a incontrare i rappresentanti delle singole Federazioni e ragionare collettivamente sulle azioni da mettere in campo per contrastare il terrorismo. Ogni Federazione si doterà di una sua Sezione Problemi dello Stato che lavorerà in raccordo con quella centrale. Al tempo stesso il PCI, forte della grande avanzata elettorale alle elezioni del 1976, si avvicina all’area di governo. La politica del compromesso storico contiene due aspetti. Il primo è l’idea della difesa della democrazia che Enrico Berlinguer lancia nel 1973 evocando il golpe in Cile: per evitare che le posizioni acquisite dal movimento operaio suscitino una reazione autoritaria è necessario prospettare una politica di alleanza con la Dc, partito centrale nello schieramento politico. Questo aspetto difensivo della strategia comunista si fonda su due elementi: la strategia della tensione e la netta percezione già da Piazza Fontana, della presenza di una collusione di apparati dello Stato con l’estremismo neofascista porta il gruppo dirigente comunista a ritenere necessaria una grande coalizione per impedire un rischio autoritario. Questa diviene la linea politica prioritaria del PCI. Per poter realizzare questo progetto politico il PCI ha la necessità di operare una trasformazione del suo centro e traslarlo fino a sovrapporlo con lo Stato. Il terrorismo può essere sconfitto solo se la classe operaia si farà Stato. Ma all’interno della classe operaia si affacciano diffidenze e frustrazioni. Le voci della fabbrica indicano uno sfilacciamento preoccupante sul fronte del terrorismo. Dopo il ferimento che porterà alla morte del giornalista de «La Stampa» Carlo Casalegno, Gian Paolo Pansa, inviato de la «Repubblica», davanti ai cancelli di Mirafiori a Torino, registra un fronte tutt’altro che compatto. Scrive Pansa: “Chi spera di ascoltare una voce sola, di condanna senza riserve, deve prendere atto che siamo entrati in una età crudele, gonfia di rancori e di paura ”. Alcune risposte sono molto dure e segnalano una distanza di questi operai che è soprattutto sociale, prima ancora che politica e quindi più difficile da accorciare per il sindacato . Gli sforzi del sindacato di dare vita a movimenti collettivi- nonostante le difficoltà che incontra, dagli scontri con i giovani del movimento studentesco durante un comizio di Luciano Lama, alla crisi di consenso evidenziata con lo sciopero non riuscito dopo l’agguato a Carlo Casalegno, fino ai dissensi interni fra CGIL e FLM- sono stati fra i fattori decisivi per fermare la strategia della tensione prima e per contenere l’impatto del terrorismo brigatista poi. Questo tipo di risposta al terrorismo intesa come presidio politico e fisico delle piazze implica delle inclusioni e delle esclusioni. Il confine è dato dal riconoscimento o meno che quella difesa debba sostenere un patto politico e programmatico che per i partiti significa l’attuazione del compromesso storico, per il sindacato l’attuazione della strategia dell’Eur. Gli spazi dell’inclusione e dell’esclusione sono definiti in modo assai rigido. Negli anni difficili dell’offensiva brigatista, la sinistra che appoggia dall’esterno il governo non può lasciare libero il campo nelle piazze a movimenti illegalisti e violenti, pur se non terroristici; però non si sente nemmeno di fare appello alla repressione statale. Così quando i militanti di un movimento studentesco dalle forti venature estremistiche occupano l’Università di Roma, è il servizio d’ordine della CGIL a riaprirne i cancelli per consentire il comizio del suo segretario Luciano Lama, fidando nel fatto che una controparte di sinistra lo riterrà a ciò legittimato, in quanto rappresentante dei lavoratori, a preferenza dell’autorità di pubblica sicurezza. Non andrà così, anzi gli scontri che si verificano quel giorno, 17 febbraio 1977, diventano in simbolo della incomunicabilità tra quel movimento giovanile, il sindacato e la sinistra storica . Lo storico Mario Isnenghi descrive così la “zona grigia” che aveva favorito lo sviluppo della lotta armata: I pesci brigatisti in una grande fabbrica, non si sa mai bene quanti possano essere, poche unità o anche nessuno; ma prima di incontrare i sicuramente contrari-o per rispetto della legge, o per una linea politica contrapposta, o semplicemente per paura- c’è probabilmente da mettere in conto una fascia possibilista o non pregiudizialmente ostile e una galassia di comportamenti più incerti e attendisti:prima di tutto la zona grigia dei molti e a priori “non so-non vedo-non sento”, di chi tiene famiglia. I molti, poi, che non hanno mai fatto e non vogliono fare politica. Altri che “stiamo a vedere”, “non si sa mai”. Altri ancora, infine, che la rivoluzione l’hanno sognata da giovani, coltivano dentro di sé la nostalgia e il rancore per “l’occasione perduta” . In questo duro scontro è interessante rilevare anche “contrasti” interni al PCI e tra il PCI e la CGIL circa l’inadeguatezza di quest’ultima- a giudizio del gruppo dirigente del partito- nel gestire il problema del terrorismo nelle fabbriche. Nella sua relazione alla riunione della Sezione Problemi dello Stato del 24 novembre 1977 Ugo Pecchioli esplicita i ritardi e le inadeguatezze del sindacato: Nel grado di mobilitazione democratica e nell’impegno del partito si manifesta qualche segno di debolezza. Presenze equivoche e zone di tolleranza nel sindacato che fatica ad assumere posizioni nette dopo fatti terroristici. L’importanza del cambiamento culturale si riscontra nel nuovo e mutato atteggiamento anche e soprattutto nei confronti delle forze dell’ordine in merito alla collaborazione con esse per sconfiggere il terrorismo. In una intervista su «l’Unità» del febbraio 1977 Pecchioli parlerà apertamente della necessità di collaborare con le forze dell’ordine per sconfiggere il terrorismo: È alla classe operaia che spetta di assumere in prima persona e in primo piano il compito di fra fronte al terrorismo come a un nemico mortale. Ho suscitato un certo scandalo perché ho detto che il cittadino deve collaborare con la polizia e con la giustizia contro il terrorismo. Mi indigna chi chiama spia, delatore, il cittadino che coopera alla lotta antiterroristica. Spia è chi tradisce il suo paese, chi lucra sulla persecuzione dei propri compagni. Ma se il singolo cittadino, se il membro o il dirigente di una organizzazione operaia e democratica viene a sapere che un grave reato è in preparazione deve forse tacere? Deve forse rispettare non si sa bene quali principi di omertà? La lotta contro il terrorismo è un dovere nazionale, di primissimo piano. E in questo dovere rientra anche la collaborazione delle organizzazioni democratiche e dei singoli cittadini con la polizia e la magistratura . Questo è un elemento fondamentale per la comprensione del lavoro che il PCI e il sindacato svolgono al loro interno per correggere linee di indirizzo culturale. Il tema della collaborazione operaia con le forze dell’ordine alla lotta al terrorismo segna uno spartiacque fondamentale. Contestualmente alla riorganizzazione del PCI anche all’interno della CGIL si ragiona sulla creazione di un gruppo di lavoro permanente con funzioni analoghe a quelle della Sezione Problemi dello Stato. Questo gruppo di lavoro sarà guidato dai Segretari confederali Rinaldo Scheda e Valentino Zuccherini. Nella circolare che “l’Ufficio Segreteria” invia alle Segreterie regionali della CGIL e alla segreterie delle Camere del lavoro confederali si legge: Gli avvenimenti di quest’ultimo periodo sollevano l’esigenza che il movimento sindacale adotti forme più efficaci di lotta contro la ripresa di azioni criminali dei fascisti, contro il terrorismo, contro la violenza, tendenti a destabilizzare il quadro democratico, il cui consolidamento e sviluppo rimane obiettivo primario della lotta sociale e politica nel nostro paese. […] Si costituisce presso la Confederazione, un gruppo di lavoro incaricato di seguire i problemi del terrorismo e della violenza con particolare riferimento alle iniziative-politiche, propagandistiche, di azione- svolte verso e tra i lavoratori . La Federazione unitaria CGIL-CISL-UIL inizia un lavoro sistematico all’interno delle fabbriche promuovendo questionari, inchieste e assemblee con i lavoratori per discutere di terrorismo,violenza e difesa delle istituzioni democratiche. Nel 1977 si svolgono a Roma anche quattro importanti assemblee nelle quali prende avvio il percorso che porterà due anni dopo alla costituzione del SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia). Un percorso lungo e tortuoso che avrà come obiettivo la democratizzazione delle forze di polizia e la creazione di un nuovo rapporto tra forze dell’ordine e movimento operaio. Un grande impegno perseguito dalla Federazione unitaria CGIL-CISL-Uil da un lato e dalla volontà di alcuni dirigenti della polizia quali il Commissario di Pubblica Sicurezza Ennio Di Francesco e l’ispettore di PS Manlio Spadonaro. Nel 1977 anche la strategia delle Br diventa più aggressiva inaugurando la fase rinominata “strategia dell’annientamento”. Saranno annunciate infatti azioni indiscriminate, miranti a colpire professionisti e “servi dello stato” con l’obiettivo di terrorizzare interi settori delle classi dirigenti. Quanto ai partiti, anche se la Dc restava sempre il primo obiettivo, i volantini delle Br inizieranno a indicare il PCI e la sua linea definita sprezzantemente “socialdemocratica” come il principale nemico e con esso il sindacato e i suoi militanti definiti “sgherri del padrone” o “bonzi sindacali”. La violenza verbale si tradurrà presto in omicidio. La mattina del 16 marzo ’78 Aldo Moro verrà rapito dalle Brigate Rosse nell’agguato di via Fani a Roma in cui perderanno la vita tutti gli uomini della sua scorta. I sindacati proclamano immediatamente uno sciopero generale, e migliaia di persone manifestano nelle principali città. Ma tra i lavoratori non c’è però omogeneità di giudizio esattamente come accaduto dopo la morte di Casalegno. È utile fare un esempio. In una assemblea tenutasi con 5000 operai all’interno della Fiat Stura a Torino, Bruno Trentin denuncia le azioni delle Brigate Rosse e i sindacalisti innalzano uno striscione con scritto “Contro ogni terrorismo, per migliorare questo Stato”. Alcuni interventi degli operai invece si scosteranno di molto rispetto dalla linea ufficiale del sindacato. Ad esempio: “Queste istituzioni non meritano il nostro appoggio”; “Da trent’anni noi subiamo il terrorismo nelle fabbriche, con i capi fascisti, con la pensione che si aspetta per mesi”; “io non condanno le Brigate Rosse e non condanno nessuno. Sono contro il terrorismo ma so che bisogna fare subito le riforme”. Sarà il sacrificio di Guido Rossa a contribuire in modo decisivo alla rottura di quelle zone d’ombra ancora rimaste in una parte della classe operaia. La percezione della portata della svolta dopo l’assassinio di Guido Rossa è testimoniata dal fatto che in quei giorni la CGIL decide di dedicare un intero Comitato Direttivo alla riflessione sui limiti e sui compiti del sindacato nella lotta al terrorismo. Per concludere è utile riportarne uno stralcio: Serve un grande lavoro di chiarimento politico tra le masse per chiarire chi sono perché sono presenti valutazioni confuse e incerte. Ciò è all’origine di ambiguità di giudizio che ha portato alla definizione di «compagni che sbagliano». È necessario cambiare passo. Di qui hanno origine anche le errate posizioni di neutralità, di equidistanza o di omertà. Vi è in questa direzione una responsabilità anche nostra nel non essere riusciti ad approfondire il discorso sul rifiuto della violenza; nel non aver armato politicamente i lavoratori sul fatto che il terrorismo non è una forma, sia pure sbagliata, di lotta proletaria e che i suoi praticanti sono i nemici della classe lavoratrice contro i quali i lavoratori devono schierarsi e combattere.

La Cgil e il Pci fra violenza terroristica e radicalità sociale (1969-1982)

PALAIA, FRANCESCOPAOLO
2017

Abstract

LA CGIL E IL PCI TRA VIOLENZA TERRORISTICA E RADICALITÀ SOCIALE (1969-1982) di Francescopaolo Palaia Università di Roma “La Sapienza” La crisi congiunturale che aveva caratterizzato i primi anni ‘60 si interrompe grazie al mercato internazionale che inizia a trainare le esportazioni. Questo comporta una ripresa delle assunzioni. Il bacino da cui attingere forza lavoro necessaria per aumentare il ciclo produttivo è rappresentato dagli emigrati meridionali. Nel 1966, ’67 e ’68 la FIAT aveva assunto circa 12.000 operai emigrati. I carichi di lavoro, la compressione continua dei tempi di produzione, la parcellizzazione delle mansioni pesavano in modo talmente gravoso sugli operai al punto di diventare un fattore determinante nella crescita della conflittualità sindacale. Inoltre il nuovo operaio, l’emigrato assunto in quel periodo era totalmente dequalificato. Il fordismo entra prepotentemente in fabbrica per rispondere alle esigenze produttive intervenendo con violenza sui ritmi di produzione. La FIAT e molte altre aziende iniziano a spingere al massimo le linee. L’inasprimento dei ritmi e delle condizioni del lavoro aumenta l’influenza dei lavoratori dell’industria all’interno del sindacato. Mai, nei diciotto anni della loro storia, CGIL e CISL sono state organizzazioni così fortemente influenzate dalla rappresentanza del lavoro industriale. “Quello che pesò nella dura esperienza di questa generazione, ha osservato Bruno Trentin, fu da un lato la contraddizione tra una certa emancipazione culturale e la scoperta di un mondo più vasto, e dall’altro lato l’ingresso brutale in un rapporto di lavoro dequalificante e oppressivo”. Anche la ripresa produttiva avviene secondo moduli antichi. Alla Fiat, già nel ’66 sotto l’apparente silenzio della fabbrica iniziano a moltiplicarsi i focolai di conflittualità, innescati da momenti di disagio molto aspri. Questi momenti di disagio sono provocati in primo luogo dalla forte pressione che i capi reparto esercitano per aumentare continuamente i ritmi di lavoro. Il fermento dei lavoratori porta anche alla contestazione nei confronti di un sindacato rigidamente ingessato e colto di sorpresa dall’accelerazione delle proteste. L’ondata rivendicativa della fine degli anni ’60 è comune ad altri paese europei. La specificità italiana consiste nella maggiore estensione, durata e intensità dei conflitti, nelle modifiche più profonde che essi provocano nelle organizzazioni sindacali. I sindacati mostrano una notevole capacità di adattarsi alle mutate condizioni. Questo è reso possibile dal fatto che essi riescono a conquistarsi una parziale autonomia rispetto ai partiti politici. Nella CGIL, uomini come Luciano Lama e Bruno Trentin, insistono affinché il sindacato determini in piena autonomia la propria risposta agli avvenimenti in corso. Questa autonomia porterà spesso la CGIL a muoversi lungo linee di condotta assai meno caute di quelle tenute dal PCI. Allo stesso modo anche la CISL si sottrae al controllo della Democrazia Cristiana e la FIM, la federazione dei metalmeccanici della CISL, sarà protagonista molto importante dell’Autunno caldo, nonché punto di raccordo dei cattolici rivoluzionari. Per quanto una minoranza di dirigenti e di membri, soprattutto nella FIM, teorizzasse un sindacalismo rivoluzionario, la maggioranza vede il sindacato come un veicolo per le riforme. Le nuove richieste e forme di lotta che vengono dalla base in questa fase non saranno respinte come estremiste, ma verranno incanalate all’interno di una più complessiva strategia sindacale. Il sindacato dimostra una importante capacità interpretativa. Le Commissioni Interne vengono sostituite dai delegati, antesignani dei Consigli di Fabbrica. La figura del delegato permette al sindacato di comprendere gli interessi degli operai e di saldarsi con la propria base. Il cambiamento è notevole. Le Commissioni interne, infatti, non avevano potere contrattuale e venivano elette sulla base di liste divise per confederazioni. I delegati vengono, invece, eletti su scheda bianca indipendentemente dalla Confederazione di appartenenza. Una volta eletti andranno a costituire il Consiglio di fabbrica, che avrà anche potere contrattuale. La reazione imprenditoriale è molto dura e non vuole riconoscere la figura del delegato. Gli operai rovesciano l’impianto capitalistico dell’accumulazione sostenuto dalle aziende. Il conflitto diviene permanente e accanto alle tradizionali richieste di miglioramenti salariali, di riduzione dell’orario di lavoro, gli operai mettono al centro il nodo della salute all’interno della fabbrica contro la nocività ambientale e i serrati ritmi produttivi. La mobilitazione sociale dell’ultimo scorcio degli anni sessanta presenta versanti diversi e sussulti molteplici. A intensificarsi, infatti, sarà anche l’azione della destra estrema con aggressioni squadristiche, attentati e stragi. È di matrice neofascista la bomba che esplode il 25 aprile 1969 alla Fiera campionaria di Milano. Per tutto il mese di aprile Milano è teatro di attentati a sedi del PCI o a circoli di sinistra, e il 12 aprile vi è un assalto fascista, con il lancio di bombe molotov, all’ex Albergo Commercio di Piazza Fontana, trasformato dagli studenti in una “Casa dello studente e del lavoratore”. Ciononostante, dopo l’attentato alla Fiera la polizia esclude che la bombe sia collocate da gruppi neofascisti e le attribuisce, riprendendo le parole del quotidiano “Il Giorno” del 27 aprile 1969 “alla protesta dissennata, irrazionale, di estrema sinistra”. I sindacati e i partiti della sinistra si mobilitano costituendo Il Comitato permanente antifascista contro il terrorismo per difesa dell’ordine Repubblicano. Per la polizia la bomba alla Fiera è anarchica e saranno anarchiche anche le bombe che scoppiano sui treni italiani nell’agosto del ’69. Il capo della polizia il 28 novembre 1969 afferma che “per le particolari caratteristiche dei congegni di accensione a resistenza incandescente sembra di poter attribuire a gruppi anarchici o contestatori l’azione terroristica in questione”. Sullo sfondo si intrecciano due aspetti legati al rimescolamento in corso nell’estrema destra e ai processi che attraversano settori non secondari dello Stato. Le elezioni del 1968 hanno visto il peggiore risultato del Msi dopo il 1948: è un’ulteriore sconfitta della lunga segreteria legalitaria di Arturo Michelini. Alla sua morte, nel giugno del 1969, viene eletto segretario Giorgio Almirante, mentre si moltiplicano le iniziative di soggetti diversi, interni ed esterni al partito: da Ordine Nuovo di Pino Rauti (che nel novembre del ’69 rientra ufficialmente nel Msi) sino ai gruppi filo golpisti che agiscono in stretto contatto con miliari e servizi segreti. Il problema inizia a essere considerato con attenzione nel dibattito interno al PCI fin dalla fine del 1968. Nel maggio del 1969 Enrico Berlinguer osserva “Vi è un accrescersi di elementi che indicano qualcosa di torbido e pericoloso in questa situazione. Da questa attivazione di gruppi di destra non si può escludere una componente internazionale. Non escludo che la risposta ai fascisti debba essere decisa”. Nel corso dell’estate l’attenzione si sposta su ciò che avviene nelle forze armate, e nella Direzione del 2 luglio Luigi Longo drammatizza il quadro riferendo su di un possibile intervento dell’esercito e segnalando movimenti lungo la Via Appia. Quando inizia dicembre sono in molti a pensare che l’Autunno non durerà ancora a lungo. Le forze dell’ordine dimostrano una iniziale fase di passività che si può ritenere di studio, di attesa di ordini dall’alto, in attesa di regole di ingaggio. A restare stupiti di questa iniziale passività di fronte al dilagare delle manifestazioni di piazza e al dispiegarsi delle contestazioni in fabbrica sono i sindacalisti con qualche anno di esperienza in quanto le lotte passate hanno insegnato loro qualcosa. Così non credono, a differenza dei militanti più giovani che ci si trovi davanti a una strategia illuminata di contenimento. Le lotte si accendono anche in luoghi dove le gerarchie di potere sembrano intoccabili e per questo innescano reazioni pesanti. Queste reazioni si intrecciano agli umori di un apparato dello Stato che innesta le sue radici direttamente nella continuità con il passato regime fascista. In quegli anni guidano le questure e gli uffici politici, occupano i più rilevanti incarichi nella giustizia, sono funzionari, magistrati, ufficiali che hanno compiuto il loro apprendistato professionale all’interno di uno stato autoritario. Forgiati da una cultura che non ha conosciuto il diritto di sciopero e nega il diritto all’espressione. Sono questi gli uomini che determinano il primo rinserrarsi del baluardo opposto alle lotte dell’autunno caldo. Utilizzando tutti gli strumenti messi a disposizione da un codice penale modellato sul passato regime, disattendendo norme, prevaricando ruoli e funzioni, delineano una complessa geografia della repressione. Tutte le categorie in pochi mesi vengono investite da denunce, saranno complessivamente 13903. A subire la maggiore repressione sono i lavoratori agricoli (con 3992 denunciati) che soprattutto nelle campagne meridionali sono investiti da una brutale repressione (ad Avola e Battipaglia si registrano vittime tra i lavoratori colpiti da armi da fuoco utilizzate dalle forze dell’ordine per fronteggiare manifestazioni sindacali). Sono circa 60 i tipi di reato che vengono addebitati ai partecipanti alle manifestazioni dell’autunno ’69. Pochi giorni prima del 12 dicembre 1969 si tiene alla Camera una seduta dedicata ai problemi della violenza e del terrorismo. L’occasione è data dalle numerose interpellanze, presentate dopo gli scontri che a Milano, il 19 novembre, hanno portato all’uccisione dell’agente di pubblica sicurezza Antonio Annnarumma. Il Presidente della Repubblica Saragat accrediterà la tesi dell’assassinio politico ancor prima della conclusione delle indagini con un telegramma molto duro. E così farà il suo partito addebitando la morte di Annarumma alla responsabilità diretta dei comunisti, del Psiup e dei sindacati. Il 12 Dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana sull’Italia piomba una spirale di violenza che infiammerà e condizionerà gli anni successivi. Il PCI e la CGIL decidono fin da subito di schierarsi e impegnarsi totalmente in difesa della democrazia: La Direzione del Pci e la Segreteria della Cgil invitano alla vigilanza e all’iniziativa politica unitaria. Sono le masse operaie, gli antifascisti, tutte le forze democratiche che debbono dire basta alle provocazioni, ai tentativi eversivi; che debbono con la più ampia unità democratica e popolare e nel sostegno delle istituzioni repubblicane, fermamente assicurare la difesa e lo sviluppo del regime democratico. Piazza Fontana inaugura quella che è stata definita la “strategia della tensione” che utilizzando la definizione di Guido Crainz ha rappresentato “un inasprimento forzato dello scontro sociale volto a spostare a destra l’opinione pubblica, prima ancora che l’asse politico, e volto a stabilire le basi per governi d’ordine, o presidenzialismi autoritari o aperte rotture degli assetti costituzionali” . La strage di Piazza Fontana è un momento molto importante anche per le discussioni dei gruppi della sinistra extraparlamentare. Accelera, in alcuni gruppi la decisione di intraprendere la lotta armata. La lotta armata avrà diverse fenomenologie e diverse metodologie. Ci si confrontarsi su due tipologie di lotta armata: una di tipo sostanzialmente difensivo e l’altra di tipo espansivo. Giangiacomo Feltrinelli è l’esponente della prima concezione di lotta armata. L’editore milanese, convinto circa l’imminenza di un colpo di stato sul modello dei colonnelli in Grecia, ritiene necessario contrapporvi una risposta armata. Feltrinelli concepisce la lotta armata secondo gli schemi classici del marxismo e del movimento operaio tradizionale. Ritiene necessario che il movimento abbia una avanguardia politica e un braccio armato. Le Brigate Rosse individuano come elemento di novità, nella città il nuovo centro dello sfruttamento capitalistico e nella guerriglia urbana nella metropoli - sul modello dei Tupamaros in Uruguay e dei guerriglieri brasiliani di Carlos Marighella, la nuova metodologia della pratica rivoluzionaria. Le Br elaborano una nuova concezione di lotta armata: l’avanguardia politica deve essere anche avanguardia armata, deve definire e elaborare la teoria e la pratica rivoluzionaria. È molto importante chiarire che tipo di emergenza rappresenti per il sindacato italiano e per il PCI la stagione del terrorismo. Una riguarda la convinzione del movimento sindacale, in particolare della CGIL, e del PCI di doversi occupare direttamente della difesa dell’ordine pubblico; l’altra la percezione di una sovraesposizione delle istituzioni e della società italiana ad un rischio di collasso democratico. Il primo aspetto è il risultato della confluenza da un lato di un tratto di lungo periodo della cultura politica dei dirigenti sindacali comunisti e dall’altro dalle necessità contingenti imposte inizialmente dalla strategia della tensione. Da una parte c’è il vecchio sogno dei comunisti italiani di potere “controllare le questure”, di gestire in prima persona l’ordine pubblico. Idea che rimanda alle eredità lasciate dalla tradizione leninista e stalinista, ma anche alla identificazione totale dei comunisti italiani nella Costituzione Repubblicana e nella sua difesa . Ci sono poi le conseguenze degli anni che vanno dalla bomba di Piazza Fontana del 1969 a quelle del treno “Italicus” nel 1974 e soprattutto quella di piazza della Loggia a Brescia sempre nel ‘74. Di fronte a una esplosione di violenza di tale portata il sindacato decide di presidiare le piazze, di prendere in mano senza delegare a nessuno la difesa della democrazia. A Brescia il sindacato si fa Stato, diventa gestore in prima persona dell’ordine pubblico e viene percepito dalla città come unico soggetto legittimato a questo compito. A Brescia si crea una sorta di sospensione temporale che dura circa due mesi in cui la Camera del lavoro diviene la centrale operativa nella gestione dell’ordine pubblico e la classe operaia si sostituisce de facto allo Stato. Le stragi vengono percepite infatti come un attacco alle conquiste del movimento operaio e lo Stato non viene ritenuto in grado di svolgere un’azione efficace su questo terreno perché minato al suo interno da connivenze e contiguità con i protagonisti della strategia della tensione . Esemplare il racconto di Claudio Sabattini, allora dirigente sindacale bresciano, della manifestazione successiva alla strage che il 28 maggio 1974 colpisce proprio una manifestazione sindacale: Gli operai sostituiscono anche la polizia: tutte le vie d’accesso che portano a piazza della Loggia sono controllate da membri dei consigli di fabbrica […] La polizia che reclama per sé queste funzioni viene respinta e continuano i picchetti controllando e silenziando tutti coloro che entrano. […] il giorno dei funerali c’erano le più alte cariche dello Stato, dal Presidente della Repubblica al primo ministro, e non c’era la polizia a presidiare la situazione: sembrava che l’apparato dello Stato fosse stato in una certa misura sciolto e lo stesso servizio d’ordine che doveva tutelare il Presidente della Repubblica era formato dagli operai . Dalle parole di Sabattini traspare una soddisfazione comprensibile. Gli operai garantiscono la difesa delle massime istituzioni, quegli stessi operai che nella piazza inscenano una dura manifestazione di protesta nei confronti di quelle stesse alte cariche dello Stato. L’incapacità dello Stato di arrestare il processo di erosione democratica che sta avvenendo al suo interno pone le basi per una profonda crisi istituzionale in cui i partiti politici saranno i soli soggetti capaci di fornire una risposta. C’è un prima- l’incapacità e l’indisponibilità delle istituzioni di allargare gli spazi del confronto sociale e democratico a partire dal 1969- e un dopo- la strategia del PCI sostenuta dalla maggioranza della CGIL di dare vita ad una maggioranza parlamentare in grado di garantire quegli spazi. La mobilitazione nelle piazze e la forza della reazione democratica sono un fattore decisivo per la conclusione di quella strategia della tensione che ottiene un risultato differente da quello cercato: il rafforzamento del sindacato e del PCI come soggetti indispensabili per la difesa della democrazia e contribuisce alla marcia di avvicinamento dello stesso PCI all’area di governo, anche se gli anni successivi non vedono certo la fine dei progetti eversivi, ma solo una loro trasformazione. Il PCI e la CGIL individuano in questi anni il centro del pericolo democratico nelle forze eversive di destra. Ma nello stesso tempo nascono i prodromi dei progetti armati a sinistra che vedono il loro fulcro d’azione inizialmente all’interno delle fabbriche. Il Partito comunista e il sindacato faticano a comprendere la matrice politica della lotta armata e soprattutto restano spiazzati da un deciso consenso nei confronti di quello spontaneismo operaio che era stato all’origine dell’autunno caldo. Alla fine degli anni ’60 il PCI e la CGIL sono sorpresi dalle posizioni rivoluzionarie dei movimenti studenteschi e ne avevano valutato con favore la matrice marxista e la volontà di cambiamento. La FGCI e la FIOM, la FIM e la UILM vengono travolte dall’irruzione di queste nuove istanze. L’organizzazione giovanile comunista entra in crisi e inizia a perdere militanti a favore dei movimenti. Per molti anni il PCI e la CGIL mantengono contatti e rapporti con i gruppi extraparlamentari ritenendo di riuscire ad assorbirne e indirizzarne le spinte rivoluzionarie. I comunisti sottovalutano però a lungo i gruppi eversivi di sinistra considerandoli strumenti che la destra reazionaria utilizzava per colpire il movimento operaio e orientare l’opinione pubblica su posizioni moderate. È importante sottolineare come nella CGIL non si registrino momenti di discussione circa il fenomeno della lotta armata fino al 1978. In quell’anno la CGIL organizza ad Ariccia, infatti, due Convegni molto importanti sul terrorismo. Nella sua relazione a uno dei due convegni, Valentino Zuccherini- membro della segreteria nazionale- traccia un quadro molto interessante sui ritardi di analisi nella comprensione del fenomeno della lotta armata: Dobbiamo dire che la nostra organizzazione affronta solo ora la questione e cerca di affrontarla ora con un certo metodo. Io dico che abbiamo commesso delle disattenzioni, abbiamo sottovalutato la progressione, la qualità, la natura del fenomeni. Abbiamo compiuto anche degli errori di unilateralità nelle analisi, nei censimenti dei fatti credendoci immunizzati dal fenomeno e credendo di essere fuori dall’indirizzo, dalle tendenze. È importante recuperare il ritardo e essere rigorosi con noi stessi per capire meglio la realtà e i nostri errori di fondo . Ugo Pecchiloli, invece, descrive così i ritardi del PCI nel comprendere i pericoli dell’eversione di sinistra: All’inizio eravamo un pò incerti. Tra noi si alternavano giudizi diversi: i terroristi o venivano considerati ciechi strumenti della provocazione che lavoravano per conto dei centri reazionari anche internazionali, oppure si dava di loro un giudizio meno drastico, considerandoli come degli irresponsabili . Gerardo Chiaromonte, direttore di «Rinascita» dal 1972 al 1975 e membro della Segreteria nazionale del PCI dal 1975 al 1983, spiega come il principale errore del partito e del sindacato alla fine degli anni ’60 debba essere individuato nell’inadeguata lotta culturale contro idee sbagliate e pericolose . Scrive Chiaromonte: Da parte nostra non fu data la necessaria attenzione e in parte non fu visto e denunciato nella sua pericolosità ciò che accadeva in alcune grandi città, dove venivano organizzandosi gruppi violenti e armati di estremisti di sinistra di matrice marxista e cattolica. Questo derivò da molti fattori: da una certa oscillazione, che senza dubbio vi fu nel PCI, fra un rifiuto indiscriminato, in alcuni, di tutte le posizioni che emergevano alla nostra sinistra e una sorta di ricerca a tutti i costi, in altri di un dialogo e di un consenso . L’atteggiamento operaio nei confronti della violenza come strumento di lotta politica è molto complesso e analizzarlo a fondo richiede un operazione di natura culturale. La testimonianza di Francesco Unnali, Segretario della Sezione di fabbrica Lenin del Pci della Magneti Marelli aiuta a comprendere questo tema: I lavoratori respingevano l’estremismo quando si presentava in una veste politica ed ideologica definita; lo accettavano invece quando si presentava in una dimensione tutta sindacale, si faceva portavoce di interessi particolari legati alla fabbrica . L’analisi archivistica e della stampa conferma queste difficoltà iniziale nella comprensione del fenomeno della lotta armata. Su «l’Unità» le definizioni delle Brigate Rosse sono le più disparate, ma concordano nel considerarle estranee alla storia del movimento operaio; pedine della strategia della tensione; fascisti. “E’evidente che alle spalle di questa banda esiste una organizzazione interessata a certe operazioni politiche che si serve strumentalmente di questi rottami della società ”. Ancora: “sparate provocatorie di stampo fascista. Gli operai in prima persona devono farsi giustizia in modo violento contro questi provocatori fascisti .” La morte di Giangiacomo Feltrinelli e le successive indagini che portano alla luce la struttura illegale dei primi nuclei terroristi, e l’assassinio del commissario Luigi Calabresi determinano nel 1972 un cambiamento di linea. Enrico Berlinguer, divenuto Segretario generale del PCI nel marzo del 1972, durante il Comitato centrale del febbraio 1973 dirà chiaramente che “non sono più sufficienti la dissociazione e la polemica ideologica contro la violenza, va promossa un’azione incisiva contro gli ultrasinistri per impedire e isolare gli atti sconsiderati degli estremisti ”. Parafando Silvio Lanaro “i comunisti non potevano lasciar credere di avere figliato gli esaltati e gli extraparlamentari che usurpavano linguaggi, dottrine e simbologie della tradizione marxista-leninista e si impegnarono anima e corpo al fine di non vedere disperso il gruzzolo di credibilità democratica che avevano racimolato dopo la morte di Togliatti ”. Nel suo intervento in Direzione nel 1974 Ugo Pecchioli parlando di terrorismo dice: Non esitiamo a prendere atto che finalmente, anche tanti che fino a non molto tempo fa sostenevano l’aberrante tesi degli opposti estremismi (sotto il drammatico incalzare dei fatti, della verità e soprattutto della crescita impetuosa del movimento operaio antifascista) hanno dovuto riconoscere che il marchio dei misfatti, che l’ispirazione di chi li promuove è e non può che essere soltanto fascista. Quale che sia la sigla o l’etichetta che i vari gruppi del terrorismo si applicano, è ormai chiaro alla coscienza di ogni democratico che lì c’è la matrice nera, c’è la volontà di reagire allo sviluppo del movimento democratico, alle lotte e alle conquiste dei lavoratori . Enrico Berlinguer intervenendo in Direzione il 19 giugno 1975 ritiene che “Nap e Brigate Rosse che agiscono e che, per quello che se ne sa, sono espressione delle forze di destra” . Il partito inizia un’intensa attività di ricognizione e di studio sulle organizzazioni della sinistra extraparlmantare che sarà presentato e discusso in un seminario nazionale nel gennaio del 1975. In questa fase il PCI decide anche di ricostruire un rapporto con i giovani rilanciando la Federazione giovanile che ritornerà a svolgere un ruolo importante con le segreterie di Renzo Imbeni e di Massimo D’Alema. Nel 1970-76 nelle fabbriche italiane avviene un notevole ricambio dovuto al turnover. Molti giovani operai entrano nelle fabbriche per sostituire quelli dell’epoca della “ricostruzione”. Dopo le grandi stragi fasciste nei cortei sindacali del 1976-77, una delle parole d’ordine più gridate dai giovani operai della Breda e della Magneti Marelli sarà “Basta con i parolai, armi, soldi, potere agli operai”. All’interno delle fabbriche è come se si sviluppasse una sorta di mondo parallelo in cui vigono regole e codici paralleli a quelli del mondo esterno. Anche fra gli stessi operai esistono queste regole e questi codici paralleli. Sarebbe difficile rendersi conto della portata del cambiamento politico-culturale operato dal PCI e dalla CGIL tra il 1975 e il 1979 senza notare al contempo il comportamento operaio all’interno delle fabbriche. Il PCI fa molta fatica infatti a comprendere l’iniziale “consenso” operaio nei confronti delle Brigate Rosse. All’interno delle fabbriche è possibile notare un comportamento che potrebbe essere definito di “opacità operaia”. Nello stesso periodo i gruppi dirigenti di PCI e CGIL si convincono di avere sottovalutato e alimentato i contenuti negativi introdotti dai movimenti del Sessantotto. Per molti militanti della sinistra i terroristi non sono, in questa fase, avversari. Saranno a lungo considerati “compagni che sbagliano”. Solo in Italia l’eversione rossa ha visto una vasta area di indulgenza, complicità e tolleranza e ha visto un forte rapporto con alcuni ambienti intellettuali e universitari. La suggestione rivoluzionaria era ancora presente in persone che avevano militato nei gruppi della sinistra extraparlamentare fino ai primi anni Settanta e poi se ne erano allontanate per ragioni personali o professionali approdando ad altre organizzazioni della sinistra storica, come il PCI, il PSI e i sindacati, conservando però relazioni con i compagni di un tempo. I ritardi del PCI e della CGIL possono essere ricondotti alle comuni età anagrafiche ed esperienze politiche di molti iscritti con gli appartenenti ai gruppi extraparlamentari. Bisogna considerare infatti che per anni i militanti più giovani del PCI, della CGIL e della sinistra extraparlamentare si frequentano e organizzano insieme iniziative sui temi dell’antifascismo, della pace e dell’antimperialismo. Secondo Paolo Bufalini, membro della segreteria nazionale del PCI negli anni Settanta, il partito non si era preoccupato di contrastare “l’esaltazione acritica del guevarismo, inteso come movimento romantico e semplicistico” e tra i giovani comunisti si erano diffuse “compiacenze” verso un giudizio positivo e verso l’esaltazione dei movimenti del Sessantotto. Il 1976 può essere considerato un anno di svolta per la riorganizzazione interna del PCI. Già nel gennaio del 1975 il Partito tiene un importante seminario sull’estremismo in cui i rappresentanti delle varie Federazioni ricostruiscono la presenza dei gruppi della sinistra extraparlamentare nelle varie città, in particolare del nord Italia e all’interno delle singole fabbriche. Questo seminario rappresenta un momento di riflessione interna molto importante per il PCI. Il partito deciderà di dotarsi nell’aprile 1976 di un nuovo organismo interno- La Sezione Problemi dello Stato- deputato a occuparsi dei problemi relativi al terrorismo e alla criminalità organizzata. Responsabile di questa sezione di lavoro sarà Ugo Pecchioli. È questo un momento molto importante nella vita del partito che inizia a operare una propria riorganizzazione interna per affrontare al meglio la minaccia della criminalità organizzata- il 1976 è anche l’anno della Relazione di minoranza di Pio La Torre e Cesare Terranova sul fenomeno della mafia siciliana in Commissione Antimafia- del terrorismo e gli errori di valutazione degli anni precedenti. La Sezione Problemi dello Stato sarà la sede organizzativa e di lavoro politico deputata a incontrare i rappresentanti delle singole Federazioni e ragionare collettivamente sulle azioni da mettere in campo per contrastare il terrorismo. Ogni Federazione si doterà di una sua Sezione Problemi dello Stato che lavorerà in raccordo con quella centrale. Al tempo stesso il PCI, forte della grande avanzata elettorale alle elezioni del 1976, si avvicina all’area di governo. La politica del compromesso storico contiene due aspetti. Il primo è l’idea della difesa della democrazia che Enrico Berlinguer lancia nel 1973 evocando il golpe in Cile: per evitare che le posizioni acquisite dal movimento operaio suscitino una reazione autoritaria è necessario prospettare una politica di alleanza con la Dc, partito centrale nello schieramento politico. Questo aspetto difensivo della strategia comunista si fonda su due elementi: la strategia della tensione e la netta percezione già da Piazza Fontana, della presenza di una collusione di apparati dello Stato con l’estremismo neofascista porta il gruppo dirigente comunista a ritenere necessaria una grande coalizione per impedire un rischio autoritario. Questa diviene la linea politica prioritaria del PCI. Per poter realizzare questo progetto politico il PCI ha la necessità di operare una trasformazione del suo centro e traslarlo fino a sovrapporlo con lo Stato. Il terrorismo può essere sconfitto solo se la classe operaia si farà Stato. Ma all’interno della classe operaia si affacciano diffidenze e frustrazioni. Le voci della fabbrica indicano uno sfilacciamento preoccupante sul fronte del terrorismo. Dopo il ferimento che porterà alla morte del giornalista de «La Stampa» Carlo Casalegno, Gian Paolo Pansa, inviato de la «Repubblica», davanti ai cancelli di Mirafiori a Torino, registra un fronte tutt’altro che compatto. Scrive Pansa: “Chi spera di ascoltare una voce sola, di condanna senza riserve, deve prendere atto che siamo entrati in una età crudele, gonfia di rancori e di paura ”. Alcune risposte sono molto dure e segnalano una distanza di questi operai che è soprattutto sociale, prima ancora che politica e quindi più difficile da accorciare per il sindacato . Gli sforzi del sindacato di dare vita a movimenti collettivi- nonostante le difficoltà che incontra, dagli scontri con i giovani del movimento studentesco durante un comizio di Luciano Lama, alla crisi di consenso evidenziata con lo sciopero non riuscito dopo l’agguato a Carlo Casalegno, fino ai dissensi interni fra CGIL e FLM- sono stati fra i fattori decisivi per fermare la strategia della tensione prima e per contenere l’impatto del terrorismo brigatista poi. Questo tipo di risposta al terrorismo intesa come presidio politico e fisico delle piazze implica delle inclusioni e delle esclusioni. Il confine è dato dal riconoscimento o meno che quella difesa debba sostenere un patto politico e programmatico che per i partiti significa l’attuazione del compromesso storico, per il sindacato l’attuazione della strategia dell’Eur. Gli spazi dell’inclusione e dell’esclusione sono definiti in modo assai rigido. Negli anni difficili dell’offensiva brigatista, la sinistra che appoggia dall’esterno il governo non può lasciare libero il campo nelle piazze a movimenti illegalisti e violenti, pur se non terroristici; però non si sente nemmeno di fare appello alla repressione statale. Così quando i militanti di un movimento studentesco dalle forti venature estremistiche occupano l’Università di Roma, è il servizio d’ordine della CGIL a riaprirne i cancelli per consentire il comizio del suo segretario Luciano Lama, fidando nel fatto che una controparte di sinistra lo riterrà a ciò legittimato, in quanto rappresentante dei lavoratori, a preferenza dell’autorità di pubblica sicurezza. Non andrà così, anzi gli scontri che si verificano quel giorno, 17 febbraio 1977, diventano in simbolo della incomunicabilità tra quel movimento giovanile, il sindacato e la sinistra storica . Lo storico Mario Isnenghi descrive così la “zona grigia” che aveva favorito lo sviluppo della lotta armata: I pesci brigatisti in una grande fabbrica, non si sa mai bene quanti possano essere, poche unità o anche nessuno; ma prima di incontrare i sicuramente contrari-o per rispetto della legge, o per una linea politica contrapposta, o semplicemente per paura- c’è probabilmente da mettere in conto una fascia possibilista o non pregiudizialmente ostile e una galassia di comportamenti più incerti e attendisti:prima di tutto la zona grigia dei molti e a priori “non so-non vedo-non sento”, di chi tiene famiglia. I molti, poi, che non hanno mai fatto e non vogliono fare politica. Altri che “stiamo a vedere”, “non si sa mai”. Altri ancora, infine, che la rivoluzione l’hanno sognata da giovani, coltivano dentro di sé la nostalgia e il rancore per “l’occasione perduta” . In questo duro scontro è interessante rilevare anche “contrasti” interni al PCI e tra il PCI e la CGIL circa l’inadeguatezza di quest’ultima- a giudizio del gruppo dirigente del partito- nel gestire il problema del terrorismo nelle fabbriche. Nella sua relazione alla riunione della Sezione Problemi dello Stato del 24 novembre 1977 Ugo Pecchioli esplicita i ritardi e le inadeguatezze del sindacato: Nel grado di mobilitazione democratica e nell’impegno del partito si manifesta qualche segno di debolezza. Presenze equivoche e zone di tolleranza nel sindacato che fatica ad assumere posizioni nette dopo fatti terroristici. L’importanza del cambiamento culturale si riscontra nel nuovo e mutato atteggiamento anche e soprattutto nei confronti delle forze dell’ordine in merito alla collaborazione con esse per sconfiggere il terrorismo. In una intervista su «l’Unità» del febbraio 1977 Pecchioli parlerà apertamente della necessità di collaborare con le forze dell’ordine per sconfiggere il terrorismo: È alla classe operaia che spetta di assumere in prima persona e in primo piano il compito di fra fronte al terrorismo come a un nemico mortale. Ho suscitato un certo scandalo perché ho detto che il cittadino deve collaborare con la polizia e con la giustizia contro il terrorismo. Mi indigna chi chiama spia, delatore, il cittadino che coopera alla lotta antiterroristica. Spia è chi tradisce il suo paese, chi lucra sulla persecuzione dei propri compagni. Ma se il singolo cittadino, se il membro o il dirigente di una organizzazione operaia e democratica viene a sapere che un grave reato è in preparazione deve forse tacere? Deve forse rispettare non si sa bene quali principi di omertà? La lotta contro il terrorismo è un dovere nazionale, di primissimo piano. E in questo dovere rientra anche la collaborazione delle organizzazioni democratiche e dei singoli cittadini con la polizia e la magistratura . Questo è un elemento fondamentale per la comprensione del lavoro che il PCI e il sindacato svolgono al loro interno per correggere linee di indirizzo culturale. Il tema della collaborazione operaia con le forze dell’ordine alla lotta al terrorismo segna uno spartiacque fondamentale. Contestualmente alla riorganizzazione del PCI anche all’interno della CGIL si ragiona sulla creazione di un gruppo di lavoro permanente con funzioni analoghe a quelle della Sezione Problemi dello Stato. Questo gruppo di lavoro sarà guidato dai Segretari confederali Rinaldo Scheda e Valentino Zuccherini. Nella circolare che “l’Ufficio Segreteria” invia alle Segreterie regionali della CGIL e alla segreterie delle Camere del lavoro confederali si legge: Gli avvenimenti di quest’ultimo periodo sollevano l’esigenza che il movimento sindacale adotti forme più efficaci di lotta contro la ripresa di azioni criminali dei fascisti, contro il terrorismo, contro la violenza, tendenti a destabilizzare il quadro democratico, il cui consolidamento e sviluppo rimane obiettivo primario della lotta sociale e politica nel nostro paese. […] Si costituisce presso la Confederazione, un gruppo di lavoro incaricato di seguire i problemi del terrorismo e della violenza con particolare riferimento alle iniziative-politiche, propagandistiche, di azione- svolte verso e tra i lavoratori . La Federazione unitaria CGIL-CISL-UIL inizia un lavoro sistematico all’interno delle fabbriche promuovendo questionari, inchieste e assemblee con i lavoratori per discutere di terrorismo,violenza e difesa delle istituzioni democratiche. Nel 1977 si svolgono a Roma anche quattro importanti assemblee nelle quali prende avvio il percorso che porterà due anni dopo alla costituzione del SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia). Un percorso lungo e tortuoso che avrà come obiettivo la democratizzazione delle forze di polizia e la creazione di un nuovo rapporto tra forze dell’ordine e movimento operaio. Un grande impegno perseguito dalla Federazione unitaria CGIL-CISL-Uil da un lato e dalla volontà di alcuni dirigenti della polizia quali il Commissario di Pubblica Sicurezza Ennio Di Francesco e l’ispettore di PS Manlio Spadonaro. Nel 1977 anche la strategia delle Br diventa più aggressiva inaugurando la fase rinominata “strategia dell’annientamento”. Saranno annunciate infatti azioni indiscriminate, miranti a colpire professionisti e “servi dello stato” con l’obiettivo di terrorizzare interi settori delle classi dirigenti. Quanto ai partiti, anche se la Dc restava sempre il primo obiettivo, i volantini delle Br inizieranno a indicare il PCI e la sua linea definita sprezzantemente “socialdemocratica” come il principale nemico e con esso il sindacato e i suoi militanti definiti “sgherri del padrone” o “bonzi sindacali”. La violenza verbale si tradurrà presto in omicidio. La mattina del 16 marzo ’78 Aldo Moro verrà rapito dalle Brigate Rosse nell’agguato di via Fani a Roma in cui perderanno la vita tutti gli uomini della sua scorta. I sindacati proclamano immediatamente uno sciopero generale, e migliaia di persone manifestano nelle principali città. Ma tra i lavoratori non c’è però omogeneità di giudizio esattamente come accaduto dopo la morte di Casalegno. È utile fare un esempio. In una assemblea tenutasi con 5000 operai all’interno della Fiat Stura a Torino, Bruno Trentin denuncia le azioni delle Brigate Rosse e i sindacalisti innalzano uno striscione con scritto “Contro ogni terrorismo, per migliorare questo Stato”. Alcuni interventi degli operai invece si scosteranno di molto rispetto dalla linea ufficiale del sindacato. Ad esempio: “Queste istituzioni non meritano il nostro appoggio”; “Da trent’anni noi subiamo il terrorismo nelle fabbriche, con i capi fascisti, con la pensione che si aspetta per mesi”; “io non condanno le Brigate Rosse e non condanno nessuno. Sono contro il terrorismo ma so che bisogna fare subito le riforme”. Sarà il sacrificio di Guido Rossa a contribuire in modo decisivo alla rottura di quelle zone d’ombra ancora rimaste in una parte della classe operaia. La percezione della portata della svolta dopo l’assassinio di Guido Rossa è testimoniata dal fatto che in quei giorni la CGIL decide di dedicare un intero Comitato Direttivo alla riflessione sui limiti e sui compiti del sindacato nella lotta al terrorismo. Per concludere è utile riportarne uno stralcio: Serve un grande lavoro di chiarimento politico tra le masse per chiarire chi sono perché sono presenti valutazioni confuse e incerte. Ciò è all’origine di ambiguità di giudizio che ha portato alla definizione di «compagni che sbagliano». È necessario cambiare passo. Di qui hanno origine anche le errate posizioni di neutralità, di equidistanza o di omertà. Vi è in questa direzione una responsabilità anche nostra nel non essere riusciti ad approfondire il discorso sul rifiuto della violenza; nel non aver armato politicamente i lavoratori sul fatto che il terrorismo non è una forma, sia pure sbagliata, di lotta proletaria e che i suoi praticanti sono i nemici della classe lavoratrice contro i quali i lavoratori devono schierarsi e combattere.
24-feb-2017
Italiano
classe operaia; Pci; Cgil; terrorismo
PICCIONI, Lidia
GENTILONI SILVERI, UMBERTO
BEVILACQUA, Pietro
Università degli Studi di Roma "La Sapienza"
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Tesi dottorato Palaia

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